British Sea Power

British Sea Power

I leoni del power-pop

Un quartetto eclettico, che spazia con disinvoltura da sfuriate punkeggianti a ballate melodiche, senza disdegnare incursioni ad effetto in territori kraut e new wave. Con una storia semplice, ma un repertorio di stranezze assortite e pose eccentriche. Ripercorriamo la parabola della band di Brighton, uno dei fenomeni più interessanti (e sottovalutati) degli anni Duemila

di Marco Bercella + AA.VV.

Una storia comune, all'apparenza, quella dei British Sea Power. Tre ragazzi inglesi - Yan, Hamilton e Wood - compagni di scuola a Kendal, nel Cumbria, che si dilettano a suonare per diversi gruppi locali, fino agli esami. Poi, Yan prosegue i suoi studi alla Reading University, dove incontra il chitarrista Noble. Pochi anni dopo, Hamilton e Woodsi si uniscono ai due e formano la band che hanno sempre sognato. Segue l'immancabile gavetta, fatta di esibizioni nei club e di demo: 4 tracce, per la precisione, incise a Reading con il moniker British Air Powers. Un buco nell'acqua. I nostri decidono quindi di trasferirsi nella più vitale Brighton in cerca di gloria. E con un nuovo nome: British Sea Power, dal titolo di una delle tracce del demo, prontamente rinominata in "Carrion". A Brighton, c'è vita e c'è soprattutto un locale che la band prende tutto per sé: un night-club chiamato "Club Sea Power", dove, oltre ai "titolari", si esibiscono altre formazioni e si tengono persino sfilate di moda.
Insomma, è tempo di tuffarsi nel mercato discografico, e la band del Cumbria lo fa con un singolo d'esordio, "Fear Of Drowning", che esce in edizione limitatissima per la piccola Golden Chariot. Ma su di loro ha ormai messo gli occhi uno dei boss del giro indie, Geoff Travis della Rough Trade Records, e nel settembre 2001 i British Sea Power firmano un contratto per la label inglese. Al loro fianco c'è ora un nuovo musicista, Eamon (Eamon Hamilton), alle tastiere, con il quale sfornano la prima ondata di singoli, all'insegna di un incisivo power-pop, di marca tipicamente britannica.

Quasi ordinaria la storia, decisamente bizzarri, invece, i protagonisti. Citano tra le loro influenze la letteratura dell'Est Europa, in particolare quella ceca, amano la new wave e i Sonic Youth, si divertono a giocare con la stampa e col pubblico presentandosi unicamente con i loro cognomi (Noble, Wood, Hamilton, fa eccezione Yan, che di cognome fa Wilkinson). Amano le pose eccentriche dunque, ma soprattutto seminano spunti interessanti, a tratti persino geniali, nelle undici tracce dell'album d'esordio, The Decline Of British Sea Power (2003).
Le vere perle sono poste in apertura: e infatti i primi due brani ("Men Together Today" è solo una breve intro corale) sono autentici colpi di genio, in particolare il singolo "Apologies To Insect Life", un brano sfigurato lanciato a velocità supersonica, condotto a un passo disordinato e frenetico che più che al rock sembra rimandare quasi al folk balcanico di Goran Bregovic, salvo poi terminare in un terrificante baccano "punkeggiante". Ancora meglio riesce a fare "Favour In The Beetrot Fields", un brano stavolta puramente punk (minutaggio: 1'e 16'') che richiama alla mente addirittura i Pixies, con quella chitarra al vetriolo e quella batteria tempestosa, con la voce che si affanna per di tenere dietro alle accelerazioni improvvise dei musicisti.
Viene però da chiedersi perché con brani come "Something Wicked" (molto riuscita), "Blackout" e "The Lonely" (queste due invece davvero deboli), il gruppo cambi improvvisamente pelle e si lasci andare a ballad delicate e malinconiche, nello stile di gruppi come gli Smiths. "Remember Me" torna a incattivire le armonie, ma nella sostanza non è nulla più di un power-pop appena più ansiogeno della media: più interessanti sono invece "Fear Of Drowning", impreziosita da inattesi cambi di tono in un registro più "distorto", e "Carrion", che indovina la melodia più riuscita, con tanto di coretto in sottofondo, nel più classico stile pop inglese.
Inattesa, arriva la lunghissima "Lately" (14'), che parte in toni beatlesiani per aumentare gradualmente di intensità fino a sfociare nella seconda parte in un marasma di voci e chitarre distorte, alternando pause e ripartenze improvvise e terminando in un devastante crescendo che arriva a lambire il noise. È in questa lunga e visionaria jam che la band realizza compiutamente quella che sembra essere la sua idea di partenza, quella cioè di suonare semplici canzoni pop e divertirsi a sorprendere l'ascoltatore con improvvise impennate punk e raptus di autentica follia ritmica.
"A Wooden Horse" però si rimangia subito tutto e chiude l'album su toni crepuscolari e ancora una volta palesemente debitori degli Smiths. Ma a essere debitore degli Smiths non è forse l'intero pop-rock britannico degli ultimi quindici anni? Trattandosi di un esordio, comunque, vanno considerate soprattutto le potenzialità della band che appaiono ancora sfocate ma comunque grandi.

British Sea PowerL'esordio è un discreto successo: il singolo "Carrion" giunge in vetta alla classifica dei 40 singoli più ascoltati in Uk, e l'album, pur senza sfondare inizialmente nelle chart, finirà col vendere 60.000 copie.
Così, due anni dopo, è già pronto il bis: Open Season (2005).
Se il debut-album era zeppo di ottime idee, assemblate però in modo dispersivo da chi, nell'urgenza di esprimersi, finiva col mettere il tutto un po' fuori fuoco, col nuovo lavoro l'impiccio pare essere superato: alla scrittura efficace va a sposarsi la coerenza di undici canzoni certamente più morbide e dagli arrangiamenti assai più ricercati, che non per questo rinunciano a flirtare con la tradizione del guitar pop targato Uk. Una tenera ingenuità che rimanda al David Bowie giovane e le radici ben piantate nella new wave storica fanno dell'opera seconda: undici cristalli iridescenti che brillano sì di luce riflessa, senza tuttavia rinunciare alla prerogativa di una forma propria che assume i contorni ora d'aure nostalgiche, ora di sorrisi rassicuranti. Rassicuranti non meno delle note emanate dal singolo "It Ended On An Oily Stage", col suo agile incedere fra un riff di chitarra di quelli che restano e una voce in mezzo sussurrata che fa un po' il verso a Richard Butler, indimenticato frontman dei Psychedelic Furs, la cui seconda parte di carriera, quella che ha dato alla luce "Forever Now" e "Mirror Moves", sembra essere il leit motiv dei nostri.
Con un simile incipit, non può certo sorprendere se la successiva "Be Gone" si posiziona a metà strada fra "Love My Way" e "Heaven", i due singoli dei Furs che assieme a "Pretty In Pink" hanno ricevuto i maggiori riscontri di pubblico: voce in primo piano e ritornello piazzato subito a inizio canzone, con la sfacciata sicumera che di questi tempi si riscontra nei soli Interpol, il cui retrogusto si palesa anche in "Oh Larsen B". Ascoltando "How Will I Ever Find My Way Home?" è pressoché impossibile non rincorrere idealmente i giochetti punk-pop di Pete Shelley e dei suoi Buzzcocks: provate a scovare il brano "I Believe" ("A Different Kind Of Tension", 1979).
Se "Please Stand Up" vuole essere il tributo a certa malinconica epicità propria di band come i Chameleons, "North Hanging Rock" è una progressione melodica il cui pathos latita negli U2 almeno dai tempi di "Joshua Tree". Stesso discorso vale per "To Get To Sleep", anche se qui la vittima predestinata è Ian McCulloch dei Bunnymen, mentre un po' più severo potrebbe essere il giudizio nei confronti di "Victorian Ice", brano sin troppo smaccatamente più smithsiano degli stessi Smiths. L'omaggio al pop senza tempo lo regalano le due tracce che chiudono l'album, "The Land Beyond" e "True Adventures", nelle quali sono riposte le chitarre in favore di movimenti più orchestrali, a dimostrazione di quanto la band abbia confidenza con la melodia.

Stavolta, gli esiti commerciali sono ancora più incoraggianti: il disco arriva al n.13 della classifica degli album più venduti nel Regno Unito. E ad accrescere la popolarità della band sono anche le sue curiose performance dal vivo, che le valgono, nel 2004, il London Time Out Live Band of the Year award. I British Sea Power si esibiscono su un palco spesso ricoperto di foglie di plastica e piume di uccelli, con un contributo attivo degli spettatori, che talvolta vengono ospitati on stage, mentre Eamon marcia suonando un tamburo.

British Sea PowerDopo un mini-cd di transizione (Their Krankenhaus? Ep, 2007), che non aggiunge particolari novità al loro repertorio, è la volta del terzo album, ironicamente intitolato Do You Like Rock Music? (2008), quasi a voler sottolineare la loro vena di wannabe arena-rocker.
C'è pur sempre una distinta venatura di disillusione nel loro rock enfatico e trascinatore. Qualcosa in fondo è rimasto, del post-punk sgangherato dell'esordio, anche se ascoltando "Do You Like Rock Music?" vengono piuttosto in mente il pop corposo e neo-dandy degli Arcade Fire o l'impeto emotivo degli Explosions in the Sky. E nonostante tutto questo incedere strombazzante, l'album si rivela soltanto a poco a poco. È necessario abituarsi alle schitarrate abbaglianti di "Lights Out for Darkier Skies" per scorgere la solare malinconia della strofa, molto canadian indie. Sulla stessa linea "No Lucifer": potrebbe essere una cover rockettara dei My Latest Novel, altra band britannica che si era votata al credo quebechiano. Guarda caso, parte del disco è stata registrata proprio a Montreal, con la supervisione di Howard Bilerman (Arcade Fire) e Efrim Menuck (Godspeed You Black Emperor!).
Con "Down On The Ground" e "A Trip Out" la band scopre definitivamente le carte, rivelando la sua ambizione di emulare gli ultimi U2: il sound è più ruvido, la virata finale della prima tipicamente post-, ma il piglio di chitarra e voce è quello. Menzione d'onore per la radiosa "Open The Door", sospesa in un sogno di glockenspiel che apre a un assolo mordi-e-fuggi a un passo dai Byrds di "My Back Pages".
Queste in sostanza le coordinate di un disco che può sorprendere a patto di lasciargli il suo tempo, ma esaurisce abbastanza presto le trovate ad effetto, rivelando alcuni pezzi deboli (a partite dal singolo "Waving Flags", non era più d'impatto "Atom"?) che gli impediscono di spiccare il volo.

Raggiunto un soddisfacente standard di produzione (e di successo), gli ex-post-punk di Brighton decidono di abbandonare momentaneamente i ferri del loro ormai consolidato e consueto mestiere (quello cioè di un art-rock intellettuale, epico e declamante, imbottito di pathos romanzesco e lirismo ben coltivato) per imbarcarsi in un nuovo progetto poetico e spiazzante. A loro viene infatti affidata la realizzazione di una nuova colonna sonora per il documentario (muto) di Robert J. Flaherty, Man Of Aran, del 1934 (vinse la "coppa Mussolini" al festival di Venezia dello stesso anno ed è uno dei film-tortura che, nel "Secondo Tragico Fantozzi", gli impiegati erano costretti a vedere dai loro sadici superiori!).
Il film, bellissimo, narra le vicende di una famiglia di pescatori residenti nell'arcipelago irlandese che dà il titolo alla pellicola, ed è un'ode senza tempo alla potenza anarchica di quella natura matrigna cui ancora, nonostante tutto, l'uomo deve saper pagare il giusto pegno, al di là di tutti i suoi sogni di controllo e onnipotenza tecnocratica.
I British Sea Power (per l'occasione in formazione allargata a sei elementi, con l'aggiunta di viola e cornetto) realizzano un lavoro inquadrabile a grandi linee all'interno degli stilemi essenziali del post-rock più etereo e cinematico, in bilico tra Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Dirty Three e soprattutto Sigur Ros, con lunghe partiture strumentali dal fortissimo potere evocativo, caratterizzate da progressioni più o meno stratificate e lunghe parentesi ambientali dall'anima più pensosa e descrittiva.
Senza l'accompagnamento fondamentale dei fotogrammi, le composizioni mantengono una loro consistenza estetica e una precisa fruibilità, ma l'impatto è lievemente attutito, lasciando alla capacità immaginativa dell'ascoltatore il compito di elaborare possibili scenari visivi (sia ascolti, ad esempio, possibilmente tenendo gli occhi chiusi, la meravigliosa "Boy Vertiginous" o anche la convulsa "Spearing The Sunfish", ai limiti del più dilaniante espressionismo astratto).
Il lavoro si segnala comunque come una delle vette artistiche della compagine britannica, un profondissimo affresco sonoro solcato dal lampo poetico di forze primitive e vitali, un vertiginoso poema ossianico perso nella descrizione inesauribile della bellezza naturale, in bilico tra estasi mistica e crudo terrore. Un passo in avanti significativo, che non sarà certo privo di conseguenze nel prosieguo della carriera dei nostri, già a partire dalla successiva traccia che il gruppo pubblicherà sul proprio Myspace, "The Possibility Of An Island": 10 minuti filati di fuggevoli tocchi ambient che sembrano prefigurare inaspettate direzioni di sviluppo futuro.

British Sea PowerHamilton, Noble, Yan e Wood, insomma, sorprendono ancora, dimostrando un'irrequieta vena creativa, che non si stanca mai di sperimentare nuove soluzioni, anche a costo di risultare spiazzante. Una certa attesa, quindi, precede l'uscita del nuovo album Valhalla Dancehall (2011). Tanto più dopo che il quartetto ha presentato il cd come un incrocio tra "Serge Gainsbourg e i Kraftwerk dell'era Ralf & Florian con una spruzzata di Stock, Aitken & Waterman". Ma qui non v'è niente di tutto ciò. Al contrario, sembra piuttosto che la band, con questo suo quinto full length, abbia voluto realizzare una sorta di compendio di tutta la propria carriera, una specie di best of composto, però, di inediti. Un paradosso, certo, ma serve a spiegare bene la varietà di suoni ascoltabili nel "Dancehall del Valhalla". Pop-rock graffianti ("Who Is In Control", "We Are Sound", "Observe The Skyes"), ballad suggestive ("Georgie Ray", "Luna"), nevrosi post-punk (la martellante "Thin Black Sail", la più oscura "Mongk II") ed estatici passaggi sigurrosiani ("Baby", "Cleaning Out The Rooms" e "Once More Now", con quest'ultima che strizza l'occhio anche ai Go-Betweens) si alternano senza soluzione di continuità, dando vita a un mix eterogeneo che, ad ogni modo, riesce a trovare un punto di equilibrio grazie a una scrittura ormai consolidata e agli arrangiamenti, improntati a una grandeur che rimanda talvolta agli Arcade Fire.
Il disco riesce anche nell'impresa di non suonare sterilmente autocelebrativo. Ovvio, magari manca l'immediatezza di The Decline Of The British Sea Power, così come l'effetto-sorpresa di Man Of Aran: tuttavia si avverte ancora una genuina smania di sperimentare, una ricerca febbrile dell'eccentricità, la voglia di non appiattirsi su sonorità banalmente britpop, che fanno dell’album un altro mattone di una carriera che si fa importante.
L'album riserva più di un momento d'interesse. "Georgie Ray" sfodera una magnifica melodia pianistica, impreziosita da un solo di chitarra energico ed emozionale, che a tratti sembra ammiccare alla teatralità languida di David Bowie e del suo allievo Jarvis Cocker; stesso discorso per la malinconica e corale "Luna". "Monkg II", dal canto suo, innesta chitarre nervose e aspre su un battito metronomico, ammantando il tutto di umori dark-wave (il riferimento qui sembrano essere quasi gli Interpol), mentre "Observe The Skies" è un pop-rock energico dall'irresistibile ritornello, contraddistinto da tastierine saltellanti. Il minuto e quarantasei di "Thin Black Sail" fa leva su cantato esagitato, chitarre urlanti e una sezione ritmica incisiva, collocandosi esattamente in mezzo (a mo' di sghembo spartiacque) tra i crescendo rapiti di "Cleaning Out The Rooms" e "Once More Now", le quali, assieme a "Baby", costituiscono il trittico post-rock del cd.
Il resto dell'opera fila via liscio, senza particolari sussulti ma neppure cadute di stile.
Valhalla Dancehall non è il capolavoro che i British Sea Power a ogni release danno la sensazione di poter tranquillamente realizzare, ma è comunque un disco più che valido, che ha il suo principale punto di forza nell'equilibrio tra solidità, robustezza e fantasia, tanto nella scrittura quanto negli arrangiamenti.

Raggiunto questo baricentro nella loro opera, i quattro di Brighton approdano due anni dopo al nuovo Machineries Of Joy, titolo debitore di un libro di racconti brevi del da poco scomparso scrittore americano di fantascienza Ray Bradbury. Un album che fotografa una band matura, che mostra di sapersi muovere con disinvoltura nello svolgimento dei suoi consolidati, ma ampi,  canoni estetici.
Anche in questa occasione, ancor più che nella precedente, l’intento è quello di dar fondo alla tavolozza di colori che ne connotano la proposta musicale, con una maggiore propensione verso i nostalgismi melodici di Open Season, piuttosto che ai momenti  più smaccatamente rock, che pure fanno tuttora capolino, o ad altre solide estemporaneità post del predecessore.   
In fin dei conti, i momenti davvero vigorosi che possono in qualche modo riprendere le pulsioni di Valhalla Dancehall si possono ridurre nella punkeggiante “K Hole” e nell’uptempo “Monters Of Sunderland”. Il resto è dato da una fugace escursione krauta in salsa brit della fulgida title track che apre l’album, dall’ispirato mezzo tributo bowie-reediano con tanto di deriva psichedelica “Love Animals”, da “Spring Has  Sprung” che gli Arcade Fire inserirebbero volentieri nel loro canzioniere, e da una serie di pop song che spaziano da momenti più intimisti a situazioni da ballad con propensioni wave.
Sono da annoverare nel primo filone  la struggente ninnananna “What You Need The Most” e la dolce dedica col cuore in mano al songwriter sixities britannico Geoff Goddard “Radio Goddard”, mentre il secondo è riconducibile ai mood lascivi dei tardi Psychedelic Furs in “A Light Above Descending”, nel melanconico e dinoccolato incedere di “Hail Holy Queen” e nei toni darkeggianti ma mai disperati di “When A Warm Wind Blows Through The Grass”, che chiude una delle prove più convincenti dell’ensemble di Brighton.
Una maggiore attenzione al formato-canzone ha permesso a Yann e soci di concentrarsi su quello che sanno fare meglio, ossia la cesellatura su una struttura pulita, in cui sono le linee melodiche a far da padrone. Una china pericolosa, se a mancare all’appello è l’ispirazione, ma non è questo il caso, giacché quello che sorpende, a dieci anni dal debutto, è la solidità di un songwriting che oggi si sposa con una maturità in fase di produzione che meriterebbe molto di più del comunque dignitoso numero 19 con cui Machineries Of Joy è stato accolto nelle classifiche britanniche.

Nel 2015 esce uno dei progetti più particolari della band di Brighton: Sea Of Brass. Il disco segue un tour realizzato l'anno precedente (le tracce dal vivo sono ascoltabili nella deluxe edition) e vede il combo inglese impegnato a rileggere quattordici brani del proprio repertorio in una veste del tutto nuova, ovvero con l'accompagnamento di una orchestra di ottoni. Tra i titoli presenti spiccano senz'altro "Waving Flags" e "Machineries OF Joy".

Due anni dopo, nel 2017, i British Sea Power pubblicano un nuovo album in studio intitolato Let The Dancers Inherit The Party. Il disco si assesta sulle coordinate stilistiche già rodate nei precedenti capitoli discografici, e viene trainato in particolare da due singoli dalle atmosfere particolarmente pop: "Bad Bohemian", che rappresenta un seguito ideale per il singolo di "Machineries Of Joy", e una "Keep On Trying (Sechs Freunde)" dall'appeal smaccatamente radiofonico. In generale è tutto l'album a beneficiare di una vena più diretta ed efficace da parte del combo inglese, che sembra aver trovato la quadra di un sound capace di raggiungere le orecchie di un pubblico più vasto di quanto non fosse in occasione di diverse uscite del passato.

Nel febbraio del 2022 è la volta di Everything Was Forever, pubblicato nuovamente per l'etichetta casalinga Golden Chariot. L'eliminazione del termine "British", in favore della semplice formula Sea Power, è in polemica con la Brexit che vede l'Inghilterra ritornare nel suo atavico isolamento. L'album prosegue e in qualche modo amplia il percorso sonoro degli inglesi, muovendosi in diverse direzioni non sempre così vicine tra loro. Da un lato c’è il revival post-punk, un filone per certi versi ormai prevedibile ma ciononostante anche più affidabile. La doppietta formata da “Transmitter” e “Two Fingers” (dedicata al padre dei fratelli Wilkinson, scomparso di recente), speziata di new wave, è di grande impatto e di sicuro valore. Anche “Green Goddess”, lanciato come singolo apripista, dimostra come i Sea Power sappiano il fatto loro quando c’è da mettere in piedi grandi cavalcate rock, mentre “Doppelganger” si piazza un paio di gradini sotto a livello di risultato.

Per contro, però, la band inglese sembra avere un po’ perso per strada in questo settimo lavoro in studio uno dei suoi tratti caratterizzanti, quell’afflato epico che da sempre i Nostri potevano fieramente appuntarsi sul petto. Un aspetto che si nota ancora meglio, forse, ascoltando l’altro lato della medaglia, quel campionario di canzoni che all’irruenza prediligono un approccio più soft e apparentemente ponderato. L’avvio sommesso affidato a “Scaring At The Sky” trova eco nella piccola sinfonia al rallentatore di “Fear Eats The Soul”, ma a entrambe sembra mancare quel guizzo in più che dai Sea Power è più che lecito attendersi, e che un tempo certamente non mancava (l’accompagnamento sonoro di “Man Of Aran”, autentico capolavoro, è lì a testimoniarlo). Un guizzo che probabilmente gli inglesi tentano di compiere in “Lakeland Echo” e “We Only Want To Make You Happy”, le cui aperture orchestrali richiamano territori da sempre congeniali ai Besnard Lakes.


A metà strada tra le due soluzioni sopracitate si piazzano il mid-tempo  “Fire Escape In The Sea”,e una “Folly” che si dota di sonorità sintetiche, riallacciando il discorso mai chiuso con certi anni Ottanta. Sono i brani più “pop” di un disco non sempre a fuoco, contraddistinto da picchi di scrittura e da capitoli meno riusciti, ma che in definitiva ribadisce lo spessore artistico del combo di Brighton, forse meno celebrato rispetto ad altre formazioni coeve, ma non per questo meno rilevante. Anzi.



La parabola del quartetto di Brighton, che fino ad oggi non ha conosciuto delle vere cadute, comunque, testimonia un talento non indifferente che, unito a un nuovo slancio creativo, potrebbe coronare presto una nuova stagione di grazia. Chissà se, prima o poi, il Potere del Mare Britannico non si manifesterà in modo finalmente fragoroso anche alle orecchie di chi, fino ad oggi, non si è ancora avvicinato alla loro innegabile bravura.

AA. VV. = Mauro Roma ("The Decline Of British Sea Power"), Marco Sgrignoli ("Do You Like Rock Music?"), Francesco Giordani ("Man Of Aran"), Marco Loprete ("Valhalla Dancehall"), Fabio Guastalla ("Sea Of Brass", "Let The Dancers Inherit The Party", "Everything Was Forever")

British Sea Power

Discografia

The Decline of British Sea Power (Rough Trade, 2003)
Open Season(Rough Trade, 2005)
Do You Like Rock Music?(Rough Trade, 2008)
Man Of Aran(Rough Trade, 2009)
Valhalla Dancehall(Rough Trade, 2011)
Machineries Of Joy(Rough Trade, 2013)
Sea Of Brass (Golden Chariot, 2015)
Let The Dancers Inherit The Party (Caroline / Golden Chariot, 2017)
Everything Was Forever (con il nome di Sea Power, Golden Chariot, 2022)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Remember Me
(videoclip, da The Decline Of British Sea Power, 2003)

Please Stand Up
(videoclip, da Open Season, 2005)

 

It Ended On A Oily Stage
(videoclip, da Open Season, 2005)

No Lucifer
(videoclip da Do You Like Rock Music, 2008)

 

Waving Flags
(videoclip da Do You Like Rock Music, 2008)

Man Of Aran
(videoclip da Man Of Aran, 2009)

 

Living Is So Easy
(videoclip, da Valhalla Dancehall, 2011)

Machineries Of Joy
(videoclip da Machineries Of Joy, 2013)

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