Crystal Castles

Crystal Castles

Alice nella fortezza di cristallo

Videogame analogici, sonorità occulte e ritmi da rave party. Sono questi gli ingredienti della band di Ethan Kath e Alice Glass. Un progetto oscuro e affascinante, che ha rivoluzionato l’immaginario e l’attitudine degli anni 2010

di Davide Nespoli

Siamo nel 2004, Ethan Kath è un ventunenne di Toronto, solitario e malinconico, che da un paio di anni gira quasi sempre coperto dal cappuccio della felpa e passa il tempo a comporre basi sintetizzando chip sonori. Ma Ethan non è sempre stato così: appena adolescente cominciò a dedicarsi all’apprendimento di qualsiasi strumento, intraprendendo i progetti musicali più eterogenei. Iniziò la sua avventura come batterista per un gruppo anarco-punk chiamato Jakarta, mentre più avanti, avendo subito il fascino degli strumenti a corde, suonerà il basso per i Cheerleader 666, una band garage metal (seguendo poi il progetto fino ai Kïll Cheerleadër, con i quali pubblicherà due album da frontman adottando lo pseudonimo di Ethan Deth) e la chitarra per una cover band di GG Allin.
La consacrazione definitiva sembrò arrivare con un duo folk, fondato con l’amico Pino Placentile, ispirato alle canzoni di Neil Young e Leonard Cohen. Purtroppo per Ethan finì nel peggiore dei modi, quando Placentile (al quale verranno dedicati il primi due album del progetto Crystal Castles) morì. Fu un duro colpo per il giovane canadese, tanto che decise di abbandonare il genere per approdare a sonorità completamente diverse, fredde, insensibili e cibernetiche, dedicandosi all’elettronica chiptune.

Ma torniamo alla nostra storia. Una sera Ethan, dopo una giornata spesa a comporre themes da videogioco, decide di farsi un giro e finisce a un concerto crust noise. Sul palco salgono le Fetus Fatale, un gruppo di sole donne, capitanate dalla cantante quindicenne Vicki Vale (moniker ispirato dal fumetto Batman), magari non proprio la band che Ethan si aspettava. Vicki però è una vera riot grrrl, piena di energia e vitalità, che a 14 anni appena compiuti scappa di casa per andare a vivere in uno squat di punk e tossici, fondando una band e nonostante tutto continuando gli studi. Nel momento in cui Vicki prende in mano il microfono, Ethan capisce che in quella “poetessa inesplorata” si nasconde la sua occasione di rivincita e di successo; quindi dopo la convincente performance e vista la prorompente presenza scenica di Vicki, Ethan decide di passarle un Cd-r contenente 60 tracce strumentali, chiedendole di comporre dei testi e di curare la parte vocale. Vicki accetta aderendo al progetto e tornando a presentarsi con il suo vero nome: Alice Glass.
La cantante si mette subito all’opera e scrive i testi per cinque delle basi composte da Kath. Alcuni mesi dopo, nell’aprile del 2005, i due si ritrovano per registrare le canzoni, un breve check al microfono e Alice inizia a cantare sulle tracce strumentali di Kath. Tornato a casa con il suo Cd-r in mano contenente le incisioni, Ethan scopre una sesta traccia, registrata dall’ingegnere del suono mentre la Glass faceva pratica con il microfono, da lì a poco la caricherà su MySpace come “Alice Pratice”. Nascono così i Crystal Castles, nome del progetto scelto da Kath per upload-are la prima canzone, ispirato tanto all’omonimo arcade Atari, qunto al cartone animato She-Ra: la principessa del potere. Kath in seguito carica anche le altre tracce del Cd-r e canzoni come “Untrust Us” e “Magic Spells” diventano tanto popolari sul web da attirare l’attenzione della Merok Records, che propone un contratto alla band. La Glass intanto, avendo perso i contatti con Kath dal giorno della registrazione, è ignara di tutto, dell’esistenza di Alice Pratice e del risultato prodotto: viene così chiamata in causa solo dopo i contatti tra Ethan e la casa discografica, rimanendo piuttosto scossa dall’accaduto.

(I)

L’etichetta londinese Merok pubblica il primo Ep del duo il 9 luglio del 2006: Alice Pratice Ep (Merok Records, 2006). Il disco, prodotto in serie limitata di 500 copie in vinile 7”, viene esaurito in soli tre giorni, creando un vero e proprio “mercato al rialzo” su eBay. La popolarità della band cresce e iniziano a piovere singoli e partecipazioni a festival e tournée. La seconda parte del 2007 è molto intensa per il duo, il 13 agosto e il 17 dicembre vengono pubblicati i singoli "Crimewave" e "Air War", durante l’estate presenziano al festival di Reading and Leeds, mentre in novembre guidano Unitaur, il tour inglese di Vice magazine insieme a These New Puritans e The Teenagers.

Alice ed Ethan si ritrovano così con parecchio materiale tra le mani e un numero sempre maggiore di fan e curiosi, esaltati dalle esuberanti performance live. Il duo raccoglie così i singoli, dei pezzi non ancora pubblicati e qualche inedito, rilasciando il 17 marzo 2008 il primo Lp della carriera: Crystal Castles (Last Gang, 2008). Il disco si fonda su un concetto di sound che nasce dall’unione di rumori da videogiochi vintage e ritmi synth-pop esagerati da un’estetica brutale alla Atari Teenage Riot. Certo, l’unione di elettronica e attitudine punk, con venature darkeggianti non nasce con loro, artisti come Trent Reznor sono stati magnifici autori con anni di anticipo o persino decenni, se ne consideriamo altri come i Throbbing Gristle. La stessa scena dance-punk contemporanea è già popolata, nella seconda parte degli anni 2000, da band come Klaxons e Lcd Soundsystem o dai cugini francesi Kap Bambino, ma ciò che caratterizza i Crystal Castles è la capacità di aver dato al genere una musicalità oscura e retro, genuinamente lo-fi, liberando così la nu-rave dall’era delle dietrologie, ricombinandola e aggiornandola a quella del pastiche. Il disco si apre con il canto occulto “la cocaina no/es buena/para su salud” di “Untrust Us”, dei connazionali Death From Above 1979, una delle tante cover e campionature presenti, come “Good Time” (Drinking Electricity), “Vanished” (Van She), “Crimewave” (HEALT) e “Love And Caring” (Convox). Parecchie melodie sono costruite su dei chiptune, che si rivelano la componente principale dell’album.
Troviamo così le strumentali “Redneck”, che praticamente suona come un tema di qualche videogioco 8 bit, “1991” e la maggior parte delle basi come il flipper di “Xxzxcuzx Me”, “Through the Hosiery”, “Black Panther” e la stessa Love And Caring, sample della band svedese. L’album si chiude con una traccia eterea, “Tell Me What to Swallow”, che diventerà un abituale marchio di fabbrica del duo per i successivi album.
Il lavoro, pur innovativo e curioso, risulta comunque ancora piuttosto ancorato alla canonicità del genere. Ma sotto questo electroclash da sala giochi, già ribolliva fievolmente quel calderone di codeina dirty south presa in prestito dalle purple drank, falò di halloween e roghi di streghe pescati dai meandri più reconditi della fantasia infantile, attitudine da rave party e pulsioni ancestrali rubate all’inconscio degli adolescenti alle prese con le prime connessioni 54K. Era stata innescata la scintilla di quella house infestata, che pochi mesi più tardi verrà definita in un genere dai Salem, grazie alle dovute contaminazioni (southern) hip-hop, con una manciata di Ep rilasciati tra il 2008 e il 2009, inaugurando il capitolo più oscuro dell’hauntology.

L’album è un successo di pubblico: raggiunge il 47esimo posto nelle classifiche britanniche, cavandosela bene anche con la critica più illustre (7.8 su Pitchfork, 8/10 e best debut of the year su Nme) e persino quella più erudita (7/10 su scaruffi.com). Per i Crystal Castles si apre un’intensa stagione di concerti e tour che li vedrà protagonisti per tutto il 2008, dal Glastonbury Festival al tour inglese di Nme New Noise, con una Alice Glass sempre sopra le righe, (nonostante un incidente stradale e il consiglio dei dottori di stare a riposo, si esibisce con due costole rotte) indiavolata e continuamente in stage diving, tanto da attirare l’attenzione di un certo “signore dell’autodistruzione” che i palchi li riduceva letteralmente a brandelli e che la convince così ad aprire tre date dei Nine Inch Nails. La notte di Halloween 2008 il duo si esibisce a Los Angeles, in un concerto storico dove Alice Glass distrugge la batteria. Il 2009 continua all’insegna delle esibizioni tra cui una presenza al celebre Coachella Valley and Music Festival, al Bonnaroo Music & Arts Festival e supportando i Blur nella loro reunion a Hyde Park in luglio.

(II)

Nel dicembre 2009, Ethan registra le basi per un nuovo album nei posti più glaciali del pianeta, dall’Ontario all’Islanda e passa anche questa volta un Cd-r ad Alice con 70 tracce. Certo che Ethan dev’essere davvero un tipo chiuso, tra i due non traspare mai grande affiatamento e collaborazione, ma Alice scrive i testi e registra 35 parti vocali. Per il 2010 viene annunciato un nuovo lavoro, con data di rilascio programmata per il 7 giugno, così ad anticipare il secondo album e a scaldare gli animi dei fan il 17 aprile 2010 viene pubblicato l’Ep Doe Deer, nella serie limitata di 500 copie in vinile, e il singolo “Celestica”.
Una settimana più tardi Crystal Castles (Fiction Records, 2010) viene leakkato online nella versione digitale con mesi di anticipo, costringendo il due ad anticipare considerevolmente l’uscita del disco. L’album distribuito fisicamente solo dal 24 maggio 2010, si presenta con una copertina in pieno stile goth 2.0 e cambia registro, passando dall’electro-punk e da un’indietronica a volte sterile a un personalissimo e accattivante stile techno-pop, finendo per fondare un concetto di nu-rave con un gusto occulto e un immaginario nuovo di zecca.
La seconda parte dell’anno diventa anche il semestre di King Night, della Tri Angle Records e del suo manifesto “Let Me Shine For You”, segnando così la definitiva esplosione del movimento witch house, una sorta di sub-cultura musicale ed estetica virtuale che si muove via social network e bandcamp. Ad aprire l’album troviamo l’incubo distorto di “Fainting Spells”, seguito dalle due tracce rilasciate precedentemente nell’Ep Doe Deer/Celestica dove “Celestica” trasuda chillout e atmosfere da “hit mania dance 1997”, mentre “Doe Deer” si presenta come un brutale lo-fi garage alla Wavves per Commodore 64.
Proseguendo, troviamo il chirurgico synth minimale di “Baptism”, intervallato da casse dritte e martellate nonché dalla voce ossessionata della Glass, quindi una “Year of Silence” che ci porta dei toni più gravi e bassi ancora più saturi ma un canto sovrapposto più pulito e pacato. Basi techno e dolci melodie vocali accompagnano “Empathy”, “Suffocation” e “Pap Smear”, mentre l’eterea e aliena “Violent Dreams” evoca allucinazioni ipnagogiche. “Vietnam”e “Birds” viaggiano all’insegna di synth cinguettanti e delle manipolazioni vocali, il tutto ricoperto da uno strato di white noise. “Not In Love” cover della band new wave Platinum Blonde, verrà poi rilasciata come singolo in una differente versione cantata da Robert Smith.
A chiudere il lavoro troviamo la strumentale “Intimate” e gli esperimenti di “I Am Made Of Chalk” dove la voce della Glass è distorta fino al confine tra sospiro e rumore bianco. Per i singoli “Celestica” e “Baptism” verranno girati dei video da Rob Hawkins dove, senza troppa fantasia, tutto ruota intorno alla bellezza disarmate della Glass, la quale prima passeggia in un cimitero, poi saltella in una sorta di “live” in primo piano.

Il successo di pubblico viene replicato e Crystal Castles II entra nelle top 50 (2010) dei maggiori siti musicali internazionali, ottenendo il titolo di “best new music” su Pitchfork. Dopo l’uscita dell’album, tra il 2010 e il 2012, l’instancabile due intraprende la canonica trafila di festival, sempre più fitta, intramezzata dal brutto infortunio di Alice Glass a una caviglia (in Spagna) e la successiva rottura (in Giappone).

(III)

Il terzo album (III) (Fiction Records, 2012), prodotto dallo stesso Ethan Kath, è registrato a Varsavia rigorosamente con attrezzatura vintage e senza computer, al fine di creare un sound unico. Il disco viene abilmente centellinato nei mesi precedenti con ben tre singoli estratti prima della pubblicazione: “Plague”, “Wrath Of God” e “Affection” (messa in streaming il giorno di Halloween). Purtroppo per il duo e in barba a tutte le tecniche commerciali, (III) viene comunque leakkato una settimana prima della pubblicazione.
L’album si presenta con un copertina evocativa dalle tinte sature, una sorta di pietà michelangiolesca dei giorni nostri (immortalata da Samuel Aranda), dove una donna yemenita abbraccia il figlio esposto ai gas lacrimogeni durante la manifestazione di Sana’a. Il sound risulta ulteriormente infestato e oscuro, incentrandosi sul tema dell’oppressione e privandosi quasi completamente dei chiptune. Viene invece largamente usata la tecnica chopped’n’screwed (marchio di fabbrica dei Salem e mixaggio usato nel southern hip-hop, dove le registrazioni vengono rallentate e si estraggono impercettibili parti di suono per creare un effetto alternato), mentre la Glass abbandona del tutto la sua attitudine punk à-la Nic Endo e il distorsore, per un ben più massiccio uso del delay e di vocalizzi eterei, avvicinandosi alla connazionale Grimes.
Le atmosfere, ricordando il progetto messicano †‡†(Ritualz), si fanno più occulte, opprimenti ma ipnagogiche allo stesso tempo, e la velocità diminuisce rispetto ai precedenti lavori, nonostante si mantenga su alti livelli se paragonata all’haunted house prodotta nel 2012.
Come sempre la tracklist risulta molto variegata, passando dai bassi choppati “Telepath” alla trasognata melodia di “Child I Will Hurt You” fino alle (belle) prove vocali della Glass in “Pale Flash” e “Transgender”, dove non mancano comunque spunti colti dall’album precedente, così “Insulin” rimescola le idee di “Doe Deer”, mentre “Violent Youth” sembra voler essere il seguito di “Violent Dreams”.

Continuando sulla strada intrapresa nel secondo Lp, (III) è esattamente il lavoro che ci si può aspettare dal duo a questo punto della carriera. La quadratura del cerchio con un genere da loro ispirato che ha finito per influenzarli, facendone una band witch house a tutti gli effetti. L’album è comunque ricco di personalità, senza mai cadere nei cliché o nella banalità del genere. Certo, per i Crystal Castles sarà ancora più difficile rinnovarsi ora, ma Ethan e Alice, nonostante vengano dati per spacciati prima dell’uscita di ogni disco, riescono sempre a stupirci con uno spirito innovativo, rimettendosi in gioco con la loro indiscutibile vena pop.

Amnesty (I)

Quattro anni dopo la pubblicazione di (III), è la volta del ritorno del progetto con un nuovo album. Non fatevi fregare dal brand, perché dietro al nome Crystal Castles nel 2016 si cela in realtà tutt'altra ragione sociale. La storia, perlomeno per molti, è già nota: a seguito di incomprensioni personali e professionali, sfociate poi in uno strascico di frecciatine e rimandi indiretti tra i due membri del progetto, Alice Glass ha deciso di tagliare tutti i ponti con Ethan Kath, e imbarcarsi in una carriera solista, che nel singolo di lancio “Stillbirth” ha già evidenziato di tenere fede all'attitudine punk e abrasiva che ne ha contraddistinto il percorso di gruppo (nonché le incendiarie performance dal vivo). Al di là dei botta e risposta anche piuttosto violenti tra i due, l'abbandono non sembra aver scomposto più di tanto il producer e strumentista dell'ex-duo. Reclutata alla causa la vocalist Edith Frances, non ha poi faticato a rimettersi in carreggiata e dare alle stampe, a un anno dalla riformazione del suo progetto di gruppo, il tanto atteso, nel bene e nel male, ritorno discografico del duo, intitolato Amnesty (I) (a suggerire anche l'affiliazione del duo ai programmi umanitari di Amnesty International), ad indicare l'apertura di un nuovo ciclo e un totale cambio di rotta rispetto a quanto offerto ai tempi di Glass. Eppure, i legami con il passato si sono tutt'altro che dissipati.

Il problema del quarto album targato CC, a dispetto di chi sostiene che sia da identificarsi nella nuova vocalist, consiste essenzialmente nel manierismo produttivo e compositivo di Kath, in una sequela di trucchi collaudati e progressioni risapute che fanno ben poco per testimoniare l'avvenuto superamento delle formule electro-witch dei precedenti due lavori. In questo senso, Frances davvero rappresenta la più tangibile novità apportata allo spettro espressivo del duo: decisamente più mesmerica e onirica, incapace delle rabbiose scariche punk contrassegno di Glass (una “Doe Deer”, di questi tempi, apparirebbe come un brano del tutto fuori luogo), la voce dell'interprete arricchisce di suggestive qualità ambient i tappeti sonori e i beat, con una duttilità e una docilità addirittura amplificate rispetto alla sua, pur dotata, antesignana. Laddove quindi è data maggiore possibilità al cantato di emergere (anche in chiave chopped and screwed, come in “Kept”, la più vicina all'universo video-ludico del primo album), è anche dove si intravedono i maggiori (per quanto piccoli) segnali di vivacità artistica, per il resto purtroppo sepolta sotto strati di pilota automatico, che ben poco giustifica il velleitario tentativo di svolta da parte di Kath.

Nonostante l'introduzione di elementi ritmici in fascia trap (a contornare la witch-house rumorista di “Chloroform” o a fornire un po' di brio allo stacco estatico di “Ornament”), il gioco del producer canadese mostra prestissimo la corda, in un alternarsi puntuale di momenti electro più carichi e dinamici (l'affilata mitragliata Ebm di “Enth”, i rumorismi technoidi di “Concrete”, in cui affoga una melodia quasi inintelligibile) a momenti di maggiore distensione atmosferica, per un'operazione di contrasto già abbondantemente approfondita e di conseguenza arrivata da tempo al traguardo. A voler individuare qualche momento saliente, incuriosisce la sporcizia produttiva di “Sadist”, in cui le modalità witch-house del duo tirano fuori il proprio lato più aggressivo e iconoclasta, e le spinte electro di “Frail”, in cui il pattern ritmico esprime una brillantezza insolita per gli standard dei Crystal Castles. Per il resto, la zuppa riscaldata è servita. Come tentativo di rivalsa e diversificazione nei confronti del bel terzetto di prove passate, si è ben lontani insomma anche soltanto dalla parvenza di una simile manovra. Quel che si spera è che i prossimi capitoli della serie “Amnesty” sappiano mostrare il coraggio e la creatività sonora di cui Kath è stato dotato nel primo quinquennio discografico di carriera.

Ad un anno e qualche giorno dall'uscita dell'ultimo capitolo discografico di Ethan Kath sotto la ragione sociale Crystal Castles, alquanto deciso a non far rimpiangere il contributo della sua ex compagna d'avventura, giunge la replica da parte di Alice Glass, nella forma del suo primo Ep d'esordio, intitolato semplicemente come il suo nome d'arte. Con la co-produzione di Jupiter Hoover-Keyes, ex membro dei HEALTH, a dare manforte alle melodie e ai testi firmati dall'autrice canadese, il lavoro vede la stessa riprendere il discorso, tematico e sonoro, avviato col singolo “Stillbirth” due anni fa, e ampliarlo in un carnet di sei brani, in cui esplicitare al meglio i tratti, violenti e profondamente elettrici, di un'estetica già manifesta ancora prima di essere incisa su disco.

In effetti si ha partita facile, anche senza aver ascoltato il mini-album, a indovinare cosa si agita nei diciotto minuti di Alice Glass. Fedele all'immagine da diva electro-goth, bella e dannata, che ha un po' costituito la sua fortuna sin dai tempi di “Alice Practice”, con il know-how del vecchio progetto a rappresentare un inevitabile punto di partenza, l'Ep si divide tra caotici rumorismi di marca post-industrial, esacerbati dall'assetto vocale dell'autrice (la caciarona e totalista “Natural Selection”, con tanto di urla in fascia “Doe Deer”, la più ordinata “Blood Oath”, con ballabile evoluzione Ebm), potenti sbalzi ritmici in fascia future-pop (“Forgiveness”, co-scritta assieme ad Atticus Ross), straniti bozzetti memori della witch-house dei tempi che furono, farcita delle più svariate influenze (l'omaggio alla Grimes k-poppara in “White Lies”, gli stacchi trap del singolo “Without Love”). È una prevedibilità che piuttosto che tradursi in un rafforzamento di tratti stilistici a loro modo unici, sconfina nel banale, o ancora peggio nel tristemente premeditato, in un fan-service musicale in cui tutto pare rifuggire ogni possibilità di rilancio o ridefinizione.

Linee canore eteree e pitchate, poderosi beat electro e improvvise (ma proprio per questo attese) deviazioni noise, e il piatto è servito, un piatto che Alice Glass, da sola o in combutta con Kath, ha preparato in precedenza infinitamente meglio. Tra scopiazzature malcelate della ex-band del suo co-produttore, e spente riproposizione di un'attitudine oramai ampiamente tramutatasi in maniera, l'avvio effettivo della carriera solista della canadese presenta fin troppe ombre per lasciare indurre ad un possibile assestamento successivo. A scapito di cambiamenti reali, il percorso pare essere segnato sin dall'inizio.

Nel marzo del 2022 Alice Glass dà alle stampe l'album PREY//IVIl più grande equivoco nel valutare il primo album da solista di Alice Glass sarebbe quello di inquadrarlo nel filone witch house. Sebbene il titolo suggerisca una continuità con il percorso dei Crystal Castles, il disco si muove, con deliberata malagrazia, sull’orizzonte sfilacciato di un hyperpop un po’ datato, tant’è che i brani collegabili al passato della cantante si riducono a "The Hunted" e "Fair Game". Ed è proprio quest’ultima canzone a ricordarci che ciò che stiamo ascoltando non è la mis en place musicale del diario di un’adolescente in pieno fermento emotivo, come il patetismo dei testi potrebbe spesso fare intendere, bensì un concept album sulle relazioni abusive. Nel 2017 Glass aveva infatti raccontato gli abusi, mentali e fisici, che l’ex compagno di band Ethan Kath avrebbe perpetrato nei suoi confronti sin da quando aveva 15 anni.   

Vicessitudini traumatiche che in “PREY//IV” trovano sbocco talora in forma di bubblegum pop in salsa elettronica (“Suffer and Swallow", il singolo "Love Is Violence"), più raramente rincorrendo pitch altissimi e deliranti e spunti post-industrial (“The Hunted”) o addirittura scivolando in territori eurodance (“Baby Teeth”). Ci sono poi momenti particolarmente melodici, come “I Trusted You” e, soprattutto, il singolo “Everybody Else”, che riecheggia la Melanie Martinez di “Cry Baby”. 

Grazie a “PREY//IV”, l’autrice canadese sveste il ruolo di preda e incarna quello di predatrice, in un gioco febbrile di catarsi e decadenza morbosa ma, eccezion fatta per qualche bella intuizione qua e là, i momenti realmente abrasivi scarseggiano e la produzione, ad opera di Jupiter Keyes, risulta piatta e anacronistica. Più che “traumacore” (definizione coniata dalla stessa Alice), PREY//IV suona, purtroppo, come un disco di elettro-goth liofilizzato.

Contributi di Vassilios Karagiannis ("Amnesty (I)", "Alice Glass"), Giulia Quaranta ("PREY//IV")

Crystal Castles

Discografia

Alice Pratice (Ep, Merok Records, 2006)

6,5

Crystal Castles (Last Gang, 2008)

6,5

Crystal Castles II (Fiction Records, 2010)

7

Doe Deer/Celestica (Ep, Fiction Records, 2010)

(III) (Fiction Records, 2012)

7

Amnesty (I) (Fiction Records / Casablanca, 2016)

5,5

ALICE GLASS
Alice Glass (Ep, Loma Vista, 2017)
5
PREY//IV (Misery Labs, 2022)5,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Crimewave
(videoclip, da Crystal Castles I, 2008)

Baptism
(videoclip, da Crystal Castles II, 2010)

 

Celestica
(videoclip, da Doo Deer/Celestica, 2010)

Plague
(videoclip, da III, 2012)

Crystal Castles su OndaRock

Crystal Castles sul web

Sito ufficiale
Facebook
Testi