Dandy Warhols

Dandy Warhols

Una bohème in chiaroscuro

Il gruppo di culto della scena americana a cavallo tra la fine dei Novanta e i primissimi Duemila viene ricordato soprattutto per la celebre hit "Bohemian Like You". Ma la storia della band di Courtney Taylor attraversa quasi tre decenni, all'insegna di grandi album e capitoli da dimenticare

di Fabio Guastalla

Tra l'estate e l'autunno del 2000, in un'epoca in cui una hit rock aveva ancora qualche chance di fare breccia nel pubblico che oggi chiameremmo “mainstream”, bastava accendere la televisione per venire investiti dalle note di un brano trasmesso praticamente a tutte le ore, accompagnato da un videoclip con i testi trascritti sullo schermo e una schiera di improvvisati cantanti a darsi il cambio al microfono. È così che “Bohemian Like You” è diventata un inno generazionale per chi, al di qua dell'Atlantico, aveva tra i 14 e i 20 anni. La hit dei Dandy Warhols si trasformò in un culto quasi soltanto in Europa, mentre negli States restò abbastanza lontana dalle posizioni che contano in classifica, pur beneficiando di svariate apparizioni al cinema e in spot pubblicitari. Eppure, ancora oggi, la formazione dell'Oregon, più attiva che mai, viene considerata alla stregua di una qualsiasi “one hit wonder”. Ma è davvero così?

Gli esordi

Nato a Portland nel 1967, Courtney Taylor-Taylor (il “raddoppiamento” del cognome arriverà come vezzo in concomitanza con l'uscita del terzo album) racconta la sua giovinezza come quella di un teenager a disagio in un mondo circostante popolato di “ragazzi grandi e maldestri e cheerleader”. Dopo gli studi alle scuole superiori, decide di iscriversi al locale Cascade College per approfondire gli studi di psicologia e sociologia, rifugiandosi però anche nella letteratura e nella filosofia, con una predilezione rispettivamente per Kurt Vonnegut e Friedrich Nietzsche. È proprio al college che conosce Peter Holmström, destinato a diventare l'altra colonna portante della futura band. Conseguita la laurea, Taylor-Taylor inizia a lavorare come meccanico e nel frattempo si cimenta alla batteria in alcuni gruppi della città. Fino a quando, tra il 1993 e il 1994, decide di intraprendere un progetto tutto nuovo e più personale, e interpella Holmstrom. Entrambi suonano la chitarra, Courtney si posiziona anche dietro al microfono. Manca tutta la sezione ritmica: alla batteria viene chiamato Eric Hedford, mentre naufraga subito il tentativo di Taylor-Taylor di mettere al basso la fidanzata dell'epoca. Al suo posto subentra Zia McCabe, musicista in grado di cimentarsi sia al basso che alle tastiere. Considerando che l'album di esordio esce l'anno successivo, si può dire che la formazione ci metta davvero poco a consolidarsi.

La fisionomia che Courtney Taylor-Taylor intende dare ai Dandy Warhols è subito chiara. Imbevuto degli ascolti di Velvet Underground (il cui mentore è colui che “offre” il nome – storpiato – al progetto) e Ride, due influenze che non mancherà mai di negare, il frontman vuole anche aggiungere un lato più festoso e per indole portato all'eccesso: fin dalle prime uscite nei locali di Portland, i live del quartetto sono caratterizzati tra le altre cose dagli atti di nudismo che spesso coinvolgono anche la componente femminile del gruppo. È così che vengono notati dai vertici della Tim/Kerr Records, piccola (ma significativa, per la scena alt-rock americana) etichetta di Portland che propone ai Dandy Warhols di registrare il loro primo album.
Dandys Rule Ok, prodotto da Tony Lash e conosciuto anche come il “White Album” dei quattro per via della copertina, è il manifesto di una band per certi versi ancora acerba ma già diretta, sotto il profilo musicale, verso quelle sonorità che ne faranno la fortuna negli anni successivi: l'indie-rock che vira spesso verso il garage e lo shoegaze, un'indole pop che stempera e caratterizza le sonorità distinguendole in qualche modo rispetto a quelle imperanti in America a metà anni Novanta. “The Dandy Warhols' T.V. Theme Song” mostra il lato giocoso ed estroverso del combo, il tributo “Ride” e la successiva “Best Friend” accentuano il lato ruvido, non senza spingersi un po' timidamente anche in ambito psych. Vera summa di questo acerbo esordio è però “Not Your Bottle”, ballad elettrificata che fa un po' da battistrada per i migliori capitoli della maturità (una versione antesignana di una “Godless”, insomma).
L'imitazione Lou Reed-iana di “(Tony, This Song Is Called) Lou Weed” fa sempre parte di un copione infarcito di citazioni e rimandi esplicitati ai quattro venti che spuntano come funghi dentro una scaletta che, per il resto, trova un altro rimarcabile spunto negli arpeggi fragranti di “Genius”. Gli otto minuti di “Dick” ribadiscono, oltre a un certo interesse per lo shoegaze, pure una certa tendenza alla magniloquenza. D'altronde, l'album si chiude sul trittico di “It's a Fast Driving Rave-Up With The Dandy Warhols”, composto da breve preludio, svolgimento “sonico” di un quarto d'ora abbondante e finale.

La falsa partenza su Capitol e la prima affermazione

La presunzione non manca, ma d'altra parte nemmeno il talento. Ad accorgersene per primi sono quelli di Capitol, che scritturano prontamente Taylor-Taylor e soci in vista del secondo album. Le cose non vanno nel verso giusto. Smaniosi di dare alle stampe l'opera, i Dandy Warhols presentano all'etichetta una serie di canzoni che Capitol boccia senza appello, definendole poco appetibili sotto il profilo commerciale. L'album verrà poi pubblicato, inedito, come “Black Album” nel 2004.
In ogni caso, seppure un poco risentiti per la cocente bocciatura, i quattro tornano a scrivere sotto l'egida del fidato Tony Lash e nel luglio del 1997 sono pronti a pubblicare quello che sarà il loro secondo lavoro discografico: ...The Dandy Warhols Come Down. Quattordici canzoni spalmate nell'arco di un'ora abbondante, a cominciare dai sette minuti esatti di “Be-In”, il lisergico mantra che schiude definitivamente le porte dell'immaginario del combo americano. Se “Boys Better” è (almeno al giorno d'oggi, a due decenni di distanza) la gemma dimenticata, lo si deve al fatto che nell'album sono contenuti altri due singoli destinati a fare breccia nel pubblico – soprattutto europeo – e in qualche modo anche nelle antologie dell'indie-rock a stelle e strisce. “Not If You Were The Last Junkie On Earth” è la canzone da party per eccellenza, beffarda e scazzata quanto basta, dotata di un ritornello appiccicoso a tal punto da dover essere canticchiato (o urlato a squarciagola) a ripetizione, con le tastiere che una volta tanto prendono il sopravvento sulle chitarre. Che poi il videoclip sia affidato nientemeno che a David LaChapelle, beh, non fa che accelerarne una prevedibile consacrazione. A ruota c'è poi “Every Day Should Be A Holiday”, hit dal piglio ancora più weird e incorniciata a sua volta da un chorus quasi epico nella sua calibrata sapienza melodica. La freschezza del sound dei Dandy Warhols è la chiave di volta per accedere a un pubblico europeo, e in particolar modo britannico, a caccia di nuove emozioni in piena scorpacciata da britpop. Entrambe, non a caso, entrano in classifica nel Regno Unito.
...The Dandy Warhols Come Down sdogana definitivamente il lato più spensierato della formazione di Portland. Un brano come “Minnesoter”, con il suo impianto folk e le chitarre elettriche, è caratterizzato dal cantato quasi storpiato di Taylor-Taylor, come a voler accentuare una volontà di disimpegno che finisce curiosamente col farlo sembrare un nuovo Michael Stipe. La canzone d'amore “I Love You” è sospinta quasi a fatica sulle trame nere create dai synth, il ritornello evocato come un sabba. Solare viceversa è la parabola di “Good Morning”, altra ballata seppellita sotto il muro delle chitarre distorte. Le atmosfere rarefatte di “Green” restano sospese nell'aria in attesa di una deflagrazione che non arriva mai e preludono al power-pop su di giri di “Cool As Kim Deal”, l'ultimo punto esclamativo della raccolta che si chiude con i nove minuti cosmici di “The Creep Out”.
Trascinato dai singoli, ...The Dandy Warhols Come Down è la prima affermazione dei quattro dell'Oregon su scala internazionale. Più che negli States, infatti, il loro ibrido indie-rock viene apprezzato in Europa, prima della definitiva consacrazione a cavallo del millennio.

Il successo planetario

Nel 1998, con il secondo album a fare bella mostra nei negozi e una popolarità in costante ascesa, i Dandy Warhols restano orfani del loro batterista. Eric Hedford sbatte la porta per motivi di royalties e Taylor-Taylor decide di riprovare con l'usanza di inserire nella band un familiare: questa volta tocca al cugino Brent DeBoer, che si dimostra all'altezza e resterà nella formazione fino ai giorni nostri. Il ritocco alla line-up è il preludio ai lavori del terzo album, quello che nelle intenzioni della band e della label deve portare alla definitiva consacrazione. Una volta tanto, nella storia della musica rock, alle aspettative corrisponde la realtà. Non può esserci alcun dubbio in merito al fatto che Thirteen Tales From Urban Bohemia sia l'apice commerciale dei Dandy Warhols, ma allo stesso ne rappresenta anche il manifesto artistico.
Registrato a Portland tra il dicembre del 1998 e il marzo del 1999 e infine pubblicato il 1° agosto del 2000, il terzo lavoro del combo fa breccia – ancora una volta – soprattutto in Europa, diventando disco d'oro nel Regno Unito ed entrando in svariate classifiche, ma ottiene un buon successo anche in America, sospinto dalle programmazioni delle college radio. Il primo singolo estratto, “Get Off”, esce nel maggio del 2000 e si permette il lusso di avere quale ospite alla chitarra nientemeno che l'amico Anton Newcombe. Si tratta di un altro brano festaiolo, una perla power-pop che diventerà anche una delle canzoni più celebri dei Warhols.
A entrare direttamente nell'immaginario di un'intera generazione è però il secondo singolo, che vede la luce proprio in agosto, in concomitanza con l'uscita del disco. “Bohemian Like You”, introdotta dai tamburi e dai synth, deflagra in uno dei riff di chitarra più iconici del millennio che si sta aprendo. Un “tiro” irresistibile, liriche che sono un inno alla spensieratezza giovanile e l'immancabile ritornello lanciato in corsa e incorniciato dai cori di un Taylor-Taylor in stato di grazia ne fanno il brano più trascinante della sua epoca, non a caso scelto nel tempo da svariati marchi per accompagnarne le campagne pubblicitarie in televisione.
La vera perla della raccolta, nonché forse il brano più bello mai scritto dai Dandy Warhols, è quello che apre l'album: “Godless” è una ballad orchestrale che dispiega la sua abbacinante bellezza su luci soffuse e melodie calibratissime, uno scrigno che racchiude il folk, l'indie-rock e il chamber-pop nei cinque minuti più ispirati di sempre del quartetto americano. Il medesimo filo della narrazione si riverbera in “Mohammed”, ancora più evocativa nei suoi intrecci orchestrali e nelle liriche quasi oniriche di Taylor-Taylor. Il trittico iniziale è completato da “Nietzsche”, più ruvida a livello sonora ma ammantata di una più spiccata epicità. Stridente è il contrasto con il folk schietto di “Country Leaver”, cui segue l'indie-rock in grande spolvero di “Solid” e “Horse Pills”, che sembrano mettere d'accordo Rem e Beck. “Sleep” riporta tutto a una dimensione privata attraverso una sorta di ninna nanna elettrificata sostenuta da un battito quasi dub. Degni di nota sono anche il rock'n'roll smargiasso di “Shakin'” e l'accorato folk-rock di “Big Indian”.

Un rapido declino

Il successo di Thirteen Tales From Urban Bohemia è propagato soprattutto dalla hit “Bohemian Like You”, che sbuca un po' ovunque: sui canali musicali, ovviamente, ma anche negli spot pubblicitari, nei trailer televisivi (quello di Buffy L'Ammazzavampiri) e pure in scene di pellicole cinematografiche. Nel 2000, ospiti a Glastonbury, i Warhols vengono notati nientemeno che da David Bowie in persona: l'endorsement del Duca Bianco è il punto esclamativo sulla definizione di “band più cool del pianeta” che gli americani sono riusciti a cucirsi addosso, ma anche risvolti più pratici: Bowie li vuole con se come opening act, in particolare nell'A Reality Tour del 2003.
Proprio il 2003 è l'anno in cui Taylor-Taylor e compagni si rimettono in gioco a livello discografico con l'album Welcome To The Monkey House. Le aspettative attorno ai quattro di Portland sono notevolmente cambiate, così come le compagnie che ruotano attorno alla band. Non stupisce più di tanto, allora, che a produrre il disco sia Nick Rhodes dei Duran Duran. Una decisione che porta a due scelte di campo: la prima, quasi spontanea, consiste nello strizzare l'occhio a quell'Europa che negli ultimi anni ha dato più soddisfazioni ai Dandy Warhols di quanto non sia avvenuto, almeno a livello di chart, negli States. L'altra scelta, probabilmente più avventata, è quella che spinge i quattro a far virare il sound verso orizzonti sintetici che poco si addicono al background e allo spirito del gruppo.

Come in passato, sembrano esserci discrepanze tra la band e l'etichetta: il primo mix dell'album è affidato a Russell Elevado, ma Capitol non è soddisfatta e consegna la pratica nelle mani di Rhodes. Il mix originale confluirà poi nel 2009 in The Dandy Warhols Are Sound. In ogni caso, Welcome To The Monkey House è il tonfo che riporta i Warhols sulla terra dopo anni di sogni stellari. Dietro la banana che rappresenta l'ennesimo omaggio ai Velvet Underground c'è ben poca sostanza. Più che altro perché è fin troppo evidente come il pop-rock dei Dandy male si sposi con il synth-pop con il quale si trova suo malgrado ad andare a braccetto. La schiettezza festosa insita nel sound riesce appena a fare capolino nella nuova hit “We Used To Be Friends”, patinata quanto basta per riprovare la scalata alle classifiche, e una “The Last High” che rappresenta l'unico brano in qualche modo influenzato dal tempo trascorso con Bowie.
Il resto del repertorio è francamente scadente: “Plan A” chiama in causa nientemeno che Simon Le Bon alla voce, ma il duetto con Taylor-Taylor si smarrisce nella vacuità di un brano anonimo a dir poco. Non va meglio con l'ansiogena “Wonderful You”, quasi precorritrice dei Kasabian che verranno, con una “I Am Over It” che rispolvera senza motivo né voglia il britpop sponda Blur, con una “Scientist” dalle velleità forse da dancefloor.
Suo malgrado, Welcome To The Monkey House è la porta chiusa in faccia alla breve vita felice dei Dandy Warhols, un Eldorado che gli americani non riusciranno mai più a sfiorare.

Nel 2004, il film-documentario “Dig!” diretto da Ondi Timoner sembra già fotografare il rientro dei Warhols nei ranghi dell'indie-rock americano, raccontando il rapporto complesso esistente con The Brian Jonestown Massacre di Anton Newcombe. Sono un po' le due facce della stessa medaglia: patinata e sfrontata la prima, ruvida e poco incline ai compromessi l'altra. È giunto il momento di ritrovare se stessi e svuotare gli archivi.
Sempre nel 2004, Taylor-Taylor e soci decidono infatti di pubblicare – attraverso la neonata etichetta personale Beat The World – il famoso Black Album che Capitol aveva rispedito al mittente quasi dieci anni prima. Si tratta in realtà di un doppio album, perché la seconda parte, denominata Come On Feel The Dandy Warhols, è la classica raccolta di B-side, cover (tra le altre “Call Me” dei Blondie, “Hells Bells” degli Ac/Dc e “The Jean Genie” di David Bowie”) e inediti assortiti.
Il Black Album ha quantomeno un valore antropologico, perché fotografa i Dandy Warhols nella loro fase ascendente. Va detto che il rock ruvido di “Crack Cocaine Ranger” fa la sua figura e il country sonico di “White Gold” presenta un particolare appeal folkloristico, ma la versione demo di “Good Morning” (poi confluita in The Dandy Warhols Come Down) sembra già di un livello superiore rispetto al resto del repertorio all'epoca scartato.

Ritorno al passato

Mentre rispolverano le origini su disco, i Dandys decidono di fare altrettanto in studio. Dopo il flop di Welcome To The Monkey House, i quattro si rinchiudono nella loro sala prove di Portland, chiamata Odditorium, per dare forma al nuovo capitolo discografico. Un capitolo necessariamente proteso verso il passato, per spazzare alla svelta le ombre del presente.
Odditorium Or Warlords Of Mars esce nel settembre del 2005 per Capitol. La speranza è quella di recuperare il terreno perduto, ma non sarà certo questa nuova raccolta di inediti a far risalire le sorti del quartetto. Nonostante il ritorno a un indie-rock che si fa ancora più psichedelico, è l'ispirazione a latitare. Il primo singolo estratto, “Smoke It”, prova a recuperare lo spirito euforico dei tempi andati, senza lontanamente riuscire nell'intento. Un po' lo stesso si può dire del secondo estratto “All The Money Or The Simple Life Honey”, che gioca le sue carte tra l'anima folk e i fiati che infarciscono la ricetta, ma non riesce mai a spiccare il volo.
Va meglio con il ritorno alle atmosfere oniriche di “Love Is The New Awful”, improponibile come singolo radiofonico (si avvicina ai dieci minuti) ma comunque più ispirata anche della successiva “Easy”, a sua volta lunga sette minuti e mezzo, ma sotto ogni punto di vista ancor più narcolettica – per non dire proprio innocua.
La scaletta prevede altri due mattoni messi in mezzo a pezzi dal minutaggio più svelto: “Holding Me Up” è un'altra versione edulcorata dei migliori Warhols, un midtempo che scorre mite e senza battere colpo; “A Loan Tonight” sfodera in ultimo dodici minuti di weird-rock tutt'altro che memorabili. Un po' come il disco nel suo complesso, insomma.

Che i Dandy Warhols non siano più in grado di scrivere grandi album lo certifica, tre anni più tardi, ...Earth To Dandy Warhols. La collaborazione con Capitol è ormai da considerarsi terminata, anche se nel 2010 l'etichetta darà alle stampe la raccolta The Best Of The Capitol Years: 1995-2007, compendio del meglio del combo di Portland nei quattro lavori pubblicati dalla major. Il disco esce dunque per i tipi della label di casa Beat the World, ma non risolleva di un millimetro le sorti dei Warhols, ormai risucchiati in un vuoto creativo apparentemente senza fine. Lo stile della band è ormai assodato, con l'alt-rock che si muove liberamente tra capitoli pop e territori shoegaze (“Wasp In The Lotus”), infarcendo il tutto con le ormai inevitabili ambientazioni spaziali – fin dal titolo e dalla copertina, quasi a comporre un implicito concept. La narcolettica “And Then I Dreamt Of Yes” riverbera le prove delle origini, e risulta senza dubbio più ispirata delle successive “Talk Radio” e “Love Song”, che appaiono come tentativi minori. “Now You Love Me” accelera i battiti, “Valerie Yum” torna a bazzicare l'ambito garage-rock.
Non manca poi qualche variazione sul tema: “Welcome To The Third World”, ad esempio, strizza l'occhio al funk e alla disco music rispolverando il falsetto di Taylor, ma con esiti ben poco significativi. “The Legend Of The Last Of The Outlaw Truckers Aka The Ballad Of Sheriff Shorty” è un divertissement in chiave weird. “Musee D'Nougat” sfodera un'inedita vena ambient-cosmica nel quarto d'ora che chiude il sipario.

Nel 2009 i quattro decidono di dare alle stampe, sempre per l'etichetta domestica, The Dandy Warhols Are Sound. Si tratta del mix originario di Welcome To The Monkey House, quello realizzato da Russell Elevado e bocciato da Capitol. La copertina ritrae nuovamente la banana sbucciata, mentre il sound risulta meno lavorato e più naturale. Anche perché le canzoni sono praticamente spogliate dalla corazza synth-pop pensata da Rhodes. Discrepanze che si sentono nitidamente in brani come “Scientist” o “We Used To Be Friends”, con quest'ultima che va a perdere parte della carica presente nella versione uscita all'epoca. Sicuramente meno pomposo e forse un poco più calibrato rispetto allo stile della band, il mix firmato da Elevado sarebbe forse apparso più appropriato alle circostanze, ma la sensazione è che non avrebbe spostato granché gli esiti finali per quel che riguarda il disco.

Gli anni Dieci

Mentre la parabola dei Dandy Warhols continua a essere in calando, come detto nel 2010 Capitol chiude definitivamente i conti con i quattro di Portland pubblicando la raccolta The Best Of The Capitol Years: 1995-2007. Ci sono dentro un po' tutte le hit degli americani, ma anche il remix esclusivo di Tony Lash per “Every Day Should Be A Holiday” e qualche versione di brani differente rispetto a quelle originariamente pubblicate nei rispettivi album. Un bel ripassone, utile soprattutto per ricordare che anche i Dandys hanno avuto la loro brava stagione di gloria.

Per ascoltare del nuovo materiale a firma Dandy Warhols, bisogna attendere l'aprile del 2012, quando il combo dà alle stampe per Beat the World e The End This Machine. Rispetto agli episodi precedenti, i toni sono più contenuti, talvolta persino dimessi: è il caso dell'unico singolo estratto, “Well They're Gone”, un lento crepuscolare che attinge di nuovo alla fonte d'ispirazione fornita da Bowie (in questo caso, “The Man Who Sold The World”). L'arco delle collaborazioni si estende questa volta a David J dei Bauhaus, il quale co-firma e si cimenta al basso e ai cori in “The Autumn Carnival”, un brano in cui le chitarre abrasive di Holmstrom accompagnano il nuovo sentimento pop degli americani.
I capitoli più estroversi vanno cercati alle voci “Enjoy Yourself” e “I Am Free” (con trombone e sax a supporto), comunque più sinceri e a fuoco rispetto agli omologhi pubblicati negli anni precedenti. “Seti vs. the Wow! Signal” inietta l'alt-rock di una vena freak, ergendosi come uno dei migliori estratti di questa raccolta. Nella quale, tra l'altro, figura anche una cover: si tratta di “16 Tons”, brano del cantautore country Merle Travis.
Ancora una volta, l'accoglienza da parte del pubblico e della critica è nella maggior parte dei casi tiepida.

Quattro anni più tardi, a riaccendere la speranza per quel che riguarda la vena artistica dei Dandy Warhols è Distortland. Non un capolavoro, né una pietra miliare, bensì un onestissimo album pop-rock che, oltre tutto, inaugura la collaborazione con l'etichetta canadese-americana Dine Alone. Rispetto ai lavori del passato, è forse una più pronunciata componente pop a fare la differenza. Si passa dalle derive lisergiche di “Search Party” (dalle parti dei Primal Scream) al punk-blues sbarazzino di “Pope Reverend Jim” e al midtempo ciondolante “Catcher In The Rye”, senza dimenticare le derive pseudo-garage di “You Are Killing Me”.
I capitoli più raccolti sono strategicamente piazzati a metà scaletta (la calibrata folk ballad “Give”) e in ultima posizione (la ninna-nanna elettrica “The Grow Up Song”). Ma il piccolo capolavoro di questa raccolta è probabilmente “STYGGO”, una canzone che - sia per il titolo che a livello di sound - potrebbe aver scritto Damon Albarn per i suoi Gorillaz: un funk allo stesso tempo tribale e sintetico sospinto da un mood spensierato come ai bei tempi. Che sia l'alba di una tarda riscossa per i quattro dandy di Portland?

Nel gennaio del 2019 è la volta del nuovo album Why You So Crazy. Nel venticinquesimo anniversario dalla nascita della band, il disco rappresenta un nuovo passo all'indietro in una carriera costellata di alti e bassi. 

Delle dodici canzoni, facciamo undici togliendo la falsa partenza di “Fred N Ginger”, non si saprebbe neanche che cosa andare a salvare. A essere davvero magnanimi, accordando ai Dandys quel tanto di simpatia che in fondo ci hanno sempre ispirato, eventualmente la psichedelia solenne di “Next Thing I Know”, giusto per ricordarci da dove proviene la band, o una “Forever” che prova a inabissarsi (dalla vergogna?) in terreni ben più oscuri rispetto a quelli incrociati in questo incerto cammino.

 

“Why You So Crazy” è infatti il trionfo dell'anima weird dei Dandy Warhols, ma ciò che ne esce è nel migliore dei casi terribilmente piatto (“Terraform”) o, peggio, una serie di pezzi freak e apparentemente radiofonici che rasentano l'auto-caricatura: la filastrocca accelerata “Highlife” e il country geneticamente modificato di “Sins Are Forgiven” e “Small Town Girls” rappresentano al meglio l'involuzione creativa degli statunitensi. D'altro canto, i singoli “Be Alright” e “Motor City Steel” hanno almeno qualche chance in più di cavarsela con quei coretti appiccicosi, ma buona parte dello sforzo viene vanificato da arrangiamenti che fanno cascare le braccia.

 

Nemmeno l'inedito brano per pianoforte “Ondine” (probabilmente a firma di Zia McCabe) può risollevare le sorti da cotanto sfacelo. Anzi, dopo quanto sentito fino a quel momento sembra davvero un epilogo beffardo.


Nella primavera del 2024 la band americana dà alle stampe un nuovo lavoro, intitolato ROCKMAKER.

Sparate le cartucce degli ospiti illustri in due singoli a dir poco insapori (per non dire di peggio), vale a dire “Danzig With Myself” con Frank Black e “I’d Like To Help You With Your Problem” a braccetto con Slash, e in attesa di veder fare la stessa fine a “I Will Never Stop Loving You” con Debbie Harry nelle vesti di comparsa, non si può far altro che constatare come la formula degli americani si sia assestata su un alt/pop-rock privo di idee e di spunti, ripiegato su se stesso, totalmente inespressivo – a maggior ragione per chi nemmeno troppi anni fa aveva saputo scrivere brani come “Bohemian Like You” e “We Used To Be Friends”.

 

Dietro questa orribile copertina non c’è purtroppo niente di meglio ad aspettarci, se non una nuova quarantina di minuti che sembrano non passare mai. Magari qualche sparuto midtempo (“Teutonic Wine”) o eventuali sussulti garage-blues (“The Summer Of Hate”) possono ancora riaccendere un poco di luce negli animi dei fan più oltranzistii. La verità, però, è che questa versione dei Dandy Warhols continua davvero a lasciare con l'amaro in bocca.

Dandy Warhols

Discografia

Dandys Rule OK(Tim/Kerr, 1995)

...The Dandy Warhols Come Down (Capitol, 1997)

Thirteen Tales From Urban Bohemia (Capitol, 2000)

Welcome To The Monkey House(Capitol, 2003)

The Black Album/Come On Feel The Dandy Warhols (Beat the World, 2004)

Odditorium Or Warlords Of Mars(Capitol, 2005)

...Earth To The Dandy Warhols(Beat the World, 2008)

The Dandy Warhols Are Sound (Beat the World, 2009)
The Best Of The Capitol Years 1995-2007(antologia, Capitol, 2010)
This Machine (Beat the World/The End, 2012)

Distortland(Dine Alone, 2016)

Why You So Crazy(Dine Alone, 2019)
ROCKMAKER (Sunset Blvd / Beat The World, 2024)
Pietra miliare
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