Deerhunter

Deerhunter

Il suono dei ricordi

Band fra le più celebrate della scena alternativa americana, la band di Bradford Cox ha creato uno stile personale puntando sull’evocazione della nostalgia attraverso l'applicazione di melodie pop su chitarre shoegaze e tratti ambient, firmando dischi fra i più importanti degli Anni Zero

di Federico Romagnoli, Claudio Lancia, Gioele Sforza

Prequel

I Deerhunter nascono intorno al 2001, in quel di Atlanta, per mano del cantante-chitarrista Bradford Cox e del batterista Moses Archuleta. Cox è la mente principale, il creatore di suoni e di atmosfere, quasi interamente a lui si deve l’immaginario legato alla band, per quanto il progetto si dimostrerà piuttosto collaborativo. La sua principale fonte ispirativa è il proprio vissuto. Individuo molto emotivo, Cox non ha mai fatto segreto del suo passato. I suoi genitori hanno divorziato quando era piccolo e l’evento ha segnato la sua infanzia, che descrive come un periodo desolato in cui si è sostanzialmente cresciuto da solo. Il suo carattere timido ha dovuto affrontare un’ulteriore sfida quando, intorno ai dieci anni, la sindrome di Marfan, da cui è affetto, ha cominciato a mostrare i suoi sintomi, deformandone l’aspetto e allungandone gli arti.
La combinazione fra difficoltà relazionali e sembianze fisiche lo ha portato a un periodo di isolamento in cui la musica è diventata l’unico appiglio, il che spiega piuttosto bene come mai in seguito alcune sue opere punteranno molto sul potere nostalgico della seconda arte. Alle scuole superiori è comunque riuscito a stringere delle amicizie, avvicinandosi alle persone che percepiva più affini alla propria condizione di isolamento. Si lega in particolare a Lockett Pundt, che sarebbe in seguito entrato a far parte dei Deerhunter. La prima formazione stabile dei Deerhunter conta Cox, Archuleta, il chitarrista Colin Mee e il bassista Justin Bosworth, che viene purtroppo a mancare a seguito di un incidente con lo skateboard, ancor prima che la band arrivi a registrare L'album di debutto. Lo sostituirà Joshua Fauver.

Gli esordi

Turn It Up Faggot esce nel giugno del 2005 per la piccola etichetta locale Stickfigure. Il titolo si riferisce a una frase che venne gridata da uno spettatore a Cox durante uno dei primi concerti della band. Certo sarebbe stato difficile pretendere che uno spilungone scheletrico, che si professa asessuale e sul palco indossa sovente abiti femminili, venisse accolto a braccia aperte in uno stato non esattamente progressista come la Georgia. L’album è quasi inascoltabile, un coacervo di suoni distorti, ritmi pulsanti quasi sempre senza variazione, voci filtrate, urletti scalcagnati, tutto ammassato alla meno peggio senza che uno strumento riesca a distinguersi dall’altro, in un pastone sonoro amatoriale e urticante. I brani non mostrano alcuna volontà di sviluppare melodie comprensibili e sembrano letteralmente suonati a casaccio.
Cox ammetterà in seguito che la morte di Bosworth lo spinse verso un approccio estremista e negativo durante quelle sessioni, nel cui risultato già a distanza di pochi mesi non si sarebbe più riconosciuto. L’ingresso di Pundt alla chitarra cambia le carte in tavola. Introverso quanto Cox, con cui si trova perfettamente a suo agio, riesce a portare il suono della band su territori più definiti e a farle sviluppare trame sonore piuttosto curate, evitando la facile scappatoia del rumore fine a se stesso.

Il secondo album, Cryptograms (2007) è un deciso passo in avanti. La title track è un incalzante esperimento nella scia del kraut-rock e del rock sperimentale britannico, correnti di cui Cox e Pundt sono entrambi appassionati. Ascoltandola vengono in mente in particolare i Neu! per il battito ipnotico e i primi Stereolab per la melodia cantilenante. “Lake Sommerset” con le sue chitarre ispide e le sue declamazioni distorte svela l’ammirazione per i Fall di Mark E. Smith. Il tour de force del disco è “Octet”, quasi otto minuti di pulsazioni sincopate e voci che fluttuano incomprensibili, mentre Pundt prende il controllo in “Strange Lights”, creando un muro di suono degno dello shoegaze storico, pur non abbinandovi una melodia ben definita.
Lo stile Deerhunter, quello che li renderà distinguibili in poche battute, sarebbe stato messo a fuoco nel successivo doppio album. Qui i modelli di riferimento suonano ancora un po’ ingombranti, tuttavia il talento inizia a emergere in maniera evidente. Cryptograms è senza dubbio un’opera di formazione, ma sorprendentemente solida e meritevole di rispetto. Dopo la sua pubblicazione Mee lascia la band, ormai superfluo visto l’equilibrio che gli intrecci chitarristici fra Cox e Pundt avrebbero raggiunto di lì a breve. Nel frattempo la band comincia a essere notata e le riviste alternative la premiano con recensioni entusiaste. Pur senza mai raggiungere grandi platee, i Deerhunter si ritaglieranno così un posto d’eccezione nell’universo indie.

I capolavori

DeerhunterMicrocastle fa la sua comparsa nella primavera del 2008, con un famigerato leak uscito allo scoperto ben prima della pubblicazione ufficiale, pianificata per ottobre. Non ci vuole molto a capire che si tratta del disco che porta i Deerhunter a uno stato di completa maturità, stabilendo sin da subito una nuova asticella da battere per tutto il resto della scena alternative americana. Ancora oggi, il disco non ha perso una stilla del suo elemento di novità e diversità. Pienamente calato nella modernità, col suo carico di ansia, frustrazione, alienazione, ma troppo personale e sentito per essere emulato, Microcastle suona come il parto più sofferto di Cox, la cui schizofrenia in quel periodo aveva raggiunto preoccupanti livelli, ben testimoniati dai continui cambi di copertina dell’album, addirittura quattordici! Beata pazzia diremmo, a giudicare dall’estasi e dalla grazia celestiale di questi dodici, immacolati pezzi. Dell’ossessione kraut di Cryptograms rimane poco, fatta eccezione per il singolone “Nothing Ever Happened”, con il suo ritmo frenetico e le sue geometriche deviazioni chitarristiche, culminanti in una coda che ha definitivamente svelato al mondo il talento di Pundt. Tra stratificazioni vocali e complesse texture strumentali, il brano è un bignami dell’arte dei Deerhunter, capaci di suonare “avanti” ridefinendo stili e generi ben collaudati. Che si tratti di ambient, o di folk-pop, o di shoegaze, ogni canzone porta inconfondibilmente il loro marchio. Laddove molti ritengono che sia sempre più difficile creare qualcosa di effettivamente “nuovo”, i Deerhunter rielaborano idee e suoni con una sensibilità che li distingue nettamente dalle schiere di emulatori senza una precisa personalità.
Sono tanti i momenti indimenticabili di questo album ormai classico: la metronomica filastrocca di “Agoraphobia”, intonata da uno svogliatissimo Pundt con disinvolta noncuranza, l’estatico folk-pop di “Never Stops”, compendio di leggerezza e emotività con una bellissima coda che lambisce lo shoegaze, i due volti della title track, ora indolente, ora propulsiva. La parte centrale del disco prende una svolta in territori ambient, languidi e sognanti (ascoltare il distantissimo pianoforte di “Green Jacket”, quasi cinematografico). La sezione finale, invece, costituisce il momento emotivamente più alto dell’intero lavoro: di “Nothing Ever Happened” si sono già tessute le lodi, ma non sono da meno “Neither of Us, Uncertainly”, dilatata e ariosa come nello stile caratteristico di Pundt, e soprattutto “Twilight At Carbon Lake”, con la sua inaspettata e improvvisa deflagrazione che chiude il disco in modo epico. Una cosa che questo album ha mostrato in modo chiaro è l’attitudine fondamentalmente pop della band, che finora era emersa solo nella seconda parte di Cryptograms, e in alcuni passaggi dell’Ep Fluorescent Grey. Quelle di Microcastle sono invece canzoni pop fatte e finite, dalla struttura certamente inusuale e poco immediata, ma frutto di una mente che la storia del pop, specie quello anni Cinquanta e Sessanta, la conosce decisamente bene. Dai testi emerge tutta la sensibilità sofferta di Cox, il quale si sente intrappolato in una rete inestricabile di incubi e sogni irrealizzabili. Emblematico a tal proposito è l’incipit di “Never Stops”: “I had dreams that frightened me awake, I happened to escape, but my escape would never come”. E ancora: “Winter in my heart, it never stops”. Ciò che rimane è il desiderio di abbandonare ogni cosa, rinunciare a tutto per una buona volta, farsi seppellire per non essere tormentati dalla sensazione di essere costantemente emarginati dalla società: “I have  a dream, no longer to be free; I only want to see four walls made of concrete” (“Agoraphobia”). Tale messa a nudo di sentimenti per tanto tempo repressi rende i Deerhunter una band molto vicina alla sensibilità di persone escluse o messe da parte a causa della loro diversità. Altro elemento di primaria importanza nell’immaginario creato dai Deerhunter è l’ineluttabilità della vecchiaia, costante spettro anche per i ragazzini: “Kids walk behind, slowly stalk that old man, to get older still”, recita la delicata “Little Kids”. Ben più che la mera somma delle sue parti, Microcastle ha un tono e un concept unitari che lo rendono un corpus unico e singolare anche all’interno della discografia degli stessi Deerhunter.

Distribuito in coppia con Microcastle, ma ben più che mera raccolta di scarti, Weird Era Cont. è indispensabile, sebbene tenda a essere adombrato dalla maggiore statura del suo compagno. Sarebbe un crimine non dargli la giusta attenzione. Il disco sforna una serie di perle squisitamente pop, insieme a una profonda esplorazione del versante ambient che in Microcastle veniva coperto solo nella sezione centrale. ”Backspace Century” apre il disco con un noise pop sbilenco e colmo di effetti; “Operations”, tra continui cambi di ritmo e una linea melodica ballabile, dimostra ancora una volta il talento di Cox nel pennellare originali brani pop. Pundt firma l’eterea “Dot Gain”, luminescente e radioso indie-pop dalle tinte sfocate. Quasi commovente, “Vox Celeste” riporta la mente al periodo a cavallo tra Ottanta e Novanta, quando le prime germinazioni shoegaze iniziavano a fiorire (echi di My Bloody Valentine e Dinosaur Jr. fanno capolino). La melodia psichedelica di “Vox Humana”, quasi parlata (si percepisce una sottile vena erotica), suona indistinta e sfuggente, mentre il maggiore dinamismo ritmico di “VHS Dream” e “Focus Group” , in odore Smashing Pumpkins, rileggono nuovamente il noise pop anni Novanta in chiave del tutto personale. Il capolavoro del disco è la conclusiva “Calvary Scars II/Aux Out”, tenera ninna nanna che esplode in un emozionante crescendo finale, pullulante di suoni celestiali nel mezzo di una torrenziale e catartica base ambient/shoegaze.
Weird Era Cont. è la quiete dopo la tempesta emozionale di Microcastle, ma ciò non implica che sia un disco soporifero. Nel corso della sua durata la band sposta il focus su suoni maggiormente dilatati e onirici, ma senza perdere in consistenza. È un disco perennemente indecifrabile a livello di testi (a malapena distinguibili), misterioso, senza precisi punti di riferimento, entità ancora una volta unica. È l’introversione di Microcastle che, portata all’estremo, diventa dolente autismo. Le atmosfere gelide, i titoli criptici, la costante sperimentazione, da un lato riprendono certi passaggi di Cryptograms, dall’altro anticipano soluzioni che saranno sviluppate maggiormente nel side project Atlas Sound (e in particolare in Logos). Album inscindibile in singoli pezzi, da vivere come flusso continuo, è una quanto mai significativa declinazione del suono Deerhunter, nonché parte integrante della definizione del loro status di giganti della scena indie.

DeerhunterAlla luce di un così glorioso predecessore, Halcyon Digest, prodotto da Ben Allen, è il primo disco dei Deerhunter capace di generare un hype quasi spasmodico prima della sua uscita. Il fatto che sia arrivato nel loro momento di massima notorietà, soddisfacendo in pieno tutte le aspettative, lo rende di fatto l’album della loro consacrazione, affiancando Microcastle come lavoro da tramandare ai posteri. La genesi di Halcyon Digest è meno sofferta di quella del disco precedente: Cox, forte di un successo insperato, si apre a un rapporto più aperto coi suoi fan e li coinvolge direttamente nella promozione dell’album, lanciando un contest per la diffusione di un volantino promozionale in ogni angolo delle rispettive città. Ai generosi fan che avevano inviato via mail le foto di quanto fatto, la band rivela in anticipo tracklist e artwork, condividendo anche il primo singolo di lancio, “Revival”.
Il concept di Halcyon Digest, secondo quanto detto dallo stesso Cox, è il ripescaggio di ricordi appartenenti a un passato a volte vero, a volte fittizio, con l’obiettivo di creare una sorta di memoria collettiva a cui ciascuno di noi possa ricollegarsi e ispirarsi. Il modo in cui la nostalgia ci faccia mitizzare momenti anche brutti della nostra vita, la gioia di riscoprire una sensazione non più provata dai tempi dell’adolescenza, eccitarsi alla riscoperta del passato in qualche cosa di nuovo che si palesa davanti a noi. Tutte queste molteplici sfumature della memoria sono contemplate nel disco attraverso una serie di racconti e riflessioni. Rispetto a Microcastle, si fa largo un raggio di speranza tra gli angoli oscuri dell’animo, la fiducia nella condivisione come viatico per il superamento di traumi e dolori radicati sin dal passato. A tale scarto tematico, fa eco uno scarto stilistico piuttosto pronunciato: meno prettamente chitarristico e più ampio in quanto a soluzioni sonore, Halcyon Digest fa un passo ancora più deciso in territorio pop, risultando più immediato e diretto.
L’incipit del disco è subito un tuffo al cuore: “Do you recall waking up on a dirty couch in the gray fog?”, recita “Earthquake”, facendosi spazio tra la nebbia dei ricordi con l’incedere celestiale impresso dall’autoharp. Forte di una produzione più professionale, l’album suona ricco di dettagli da apprezzare anche dopo numerosi ascolti. Due pezzi come “Revival” e “Memory Boy”, pur brevissimi, non smettono di offrire stimolanti chiavi di lettura: il folk dalle tinte southern gothic della prima, persa tra le spire di presenze non meglio specificate (“I felt his presence heal me”) e ossessioni a sfondo religioso, e il garage-pop della seconda, sono pregiati esempi di come la band riesca a coniugare sintesi e immediatezza senza scadere nella banalità. Ne escono fuori canzoni universali, come il brano simbolo di Halcyon Digest, la bellissima “Helicopter”, che aggiorna il loro repertorio di ballate ultra-sognanti con una cascata di suoni elettroacustici (su una base che è già in territorio r’n’b) che fanno da contorno alla dolente melodia, storia di una prostituta russa ritrovata uccisa.
Se da un lato la band amplia il proprio spettro sonoro, dall’altro perde in coesione rispetto a Microcastle. Ciò che, a conti fatti, rende questo disco lievemente inferiore al suo predecessore, è qualche passaggio a vuoto che stona con l’armonia interna creata nel resto della tracklist. “Don’t Cry” è un pezzo che i Deerhunter potrebbero sfornare col pilota automatico (prendete “Operations” e già ne avrete un esempio decisamente superiore), “Sailing” è esageratamente catatonica e piazzata male in scaletta, “Basement Scene” stona con la produzione generale suonando incompiuta. Tuttavia, i picchi sono tali da far perdonare ogni riempitivo. “Desire Lines”, vero e proprio inno indie, nonché pezzo più noto ad opera di Pundt, sfodera una melodia epica e indimenticabile, e una coda chitarristica da perdita dei sensi. Il sax fa capolino nelle strokesiane “Coronado” e “Fountain Stairs”, mentre la conclusiva “He Would Have Laughed”, commosso omaggio all’amico Jay Reatard, chiude il disco tra languidi riverberi elettronici.

Progetti paralleli

Parallelamente alla carriera con i Deerhunter, sia Cox sia Pundt hanno dato via a progetti paralleli. Cox ha pubblicato diverse prove a nome Atlas Sound, fra le quali ha ottenuto particolare risalto Logos, del 2009. Al suo interno si distingue “Quick Canal”, in cui Cox realizza il sogno di collaborare con Lætitia Sadier, cantante degli Stereolab. La canzone è  un capolavoro, quasi nove minuti di ritmi ipnotici, tastiere che si fanno liquide e chitarre che si espandono in suoni indefiniti, mentre la voce di Sadier si fa in due, quattro, otto, rincorrendosi e intrecciandosi in un gioco di riflessi stupefacente. Per il senso di serenità che emana, rappresenta il definitivo esorcismo delle ansie esistenziali di Cox.

Se Cox come Atlas Sound ha conferito una vena ancora più evanescente al suono dei Deerhunter, Pundt come Lotus Plaza ha dato libero sfogo alla sua passione per le texture ambientali, pubblicando The Floodlight Collective (2009). Pur costituendo un ascolto elegante in sottofondo, il disco non riesce però a scrollarsi di dosso la sensazione di vago e generico, senza mai raggiungere i vertici di scrittura di cui Pundt è capace.
Con Spooky Action At A Distance (2012) il discorso cambia. Pur non avvicinandosi alle melodie brillanti dei Deerhunter (se non nel fantastico singolo “Strangers”), l’album offre per buona parte della sua durata dell’ottimo guitar-pop cristallino. E così la già citata “Strangers” si dilegua in fughe chitarristiche memori dei Real Estate, mentre il gusto gli andamenti sbilenchi emerge in brani come “Rhodes” o “Jet Out of The Tundra”. Spuntano pure momenti di epica corale, come nel secondo singolo, “Monoliths”, che si distende su un chorus liberatorio e avvolgente.

Progetti paralleli che sottolineano quanto la magia dei Deerhunter sia il frutto dell’alchimia di due estri diversi: quello melodico di Cox e quello chitarristico di Pundt.

Il processo di "normalizzazione" dei Deerhunter

Ricevuto molto bene da una critica che si mostra sempre più arrendevole nei loro confronti, ma meno apprezzato dal loro pubblico, Monomania (2013) conferma la capacità dei Deerhunter sia nel maneggiare il caos (“Leather Jacket II”, un garage-rock con spiccata personalità, eleggibile come miglior traccia del disco) che nell'assecondare i mai sopiti istinti pop (“The Missing”, “Sleepwalking”); sanno farsi più americani in “Pensacola” ma anche assumere un passo da spy-story in “Blue Agent”, oppure diventare carezzevoli in “T.H.M.” e “Nitebike”, relegando l’unica digressione sonica sulla coda strumentale della title track. Rispetto al passato si scorge una forma canzone più nitida, un formato più canonico, che spesso svolazza verso certo pop obliquo concedendo minori spazi a sperimentalismi e divagazioni sul tema. Il risultato è una parziale sterzata che fa allontanare il quintetto di Atlanta da certe esplorazioni ambient-punk.
Più diretto e immediato dei suoi predecessori, Monomania cattura l’attenzione sin dal primo ascolto, ma rivela con altrettanta velocità l’evidente mancanza di spessore. C’è meno epicità e più concretezza in un disco che si presenta più fruibile ma al contempo più ripetitivo e meno sorprendente rispetto ai lavori del passato. Scompare quasi completamente la vena psichedelica, così come viene meno la produzione raffinata del precedente album. Le strutture vengono lasciate in uno stato volutamente più grezzo e meno ricercato. Nel disco debutta il bassista Josh McKay, in luogo del dimissionario Joshua Fauver, scomparso prematuramente nel novembre del 2018.

Fading Frontier (2015) è una netta marcia indietro verso i territori rassicuranti di Halcyon Digest e Microcastle, di cui accentua non a caso levigatezza e morbidezza. Dopo una delle loro prove più chiassose, i Deerhunter hanno partorito quella più rilassata, come in una sorta di rigetto melodico. L’incanto jangle-pop di “All The Same” si piazza nei territori di “Agoraphobia” (di cui riprende la strofa sognante) e “Never Stops” (di cui riprende il ritornello, distorto ma con garbo). “Snakeskin” è un singolo brillante, un funk contaminato che fa venire voglia di sentire la band più spesso alle prove con chitarre sincopate e ritmi incalzanti. Considerando lo stacchetto strumentale che la introduce, potrebbe essere considerata la “Sex Machine” dei Deerhunter.
Se Cox domina come al solito, Pundt conferma la sua attitudine “poche ma buone”, con la splendida “Ad Astra”, lenta marcia evocativa con batteria echeggiante, coltri di tastiere e melodia incantata che proviene da lontano, attraversando spazi e intercettazioni radiofoniche. Nel finale spunta il traditional “I Wish I Was a Mole in the Ground”, nella versione di Bascom Lamar Lunsford risalente al 1928. Si spegne in un groviglio di interferenze, lasciando chiaro e tondo come poche band, al massimo della forma, possano al giorno d’oggi competere con i Deerhunter nella manipolazione dei ricordi e delle emozioni che il passare del tempo incrosta sulla musica. Il resto non è forse così brillante, ma l’elettronica rilassante della pur ritmata “Duplex Planet”, nonché l’introduzione con basso dub di “Breaker”, mostrano una band ancora in forma e lasciano speranzosi per il futuro prossimo.

Nel 2018 la band annuncia che il nuovo disco sarà prodotto da Cate Le Bon. Nel frattempo, a maggio, viene immessa sul mercato una cassetta limited edition autoprodotta nello studio domestico di Atlanta, che sarà distribuita esclusivamente durante i concerti della band, divenendo oggetto da collezione. Nei due lati di Double Dream Of Spring prendono posto più che altro delle prove tecniche di trasmissione, e lo sono tanto il pianoforte con effetti in reverse di “The Primitive Baptists” quanto il vento e i gabbiani trattati della terza traccia senza titolo, così come i rumorismi assortiti di “Lilacs In Motor Oil”, appena addolciti dalla presenza di un carillon. Poi qualche canzone “vera” dentro Double Dream Of Spring Bradford Cox e compagnia ce l’hanno anche inserita, a partire dalla lunga “Dial’s Metal Patterns”, espanso motorik basato sulla ripetizione, oltre undici minuti che fanno il filo alle recenti peripezie architettate dai Cavern Of Anti Matters, miscelando elettronica e sassofoni, chitarre acustiche e piccoli trucchetti da sala di registrazione. Oppure “Strang’s Glacier”, altro giochino di loop con al centro questa volta un pianoforte che flirta con vari altri strumenti pronti ad adagiarsi su un giro ripetuto ad libitum. Per ascoltare la voce di Cox occorre attendere la straniante “Denim Opera”, avanguardismo lo-fi denso di distorsioni ed effetti, e le due tracce conclusive, “How German Is It?” – condita da quello che sembrerebbe un sitar - e il funereo minimalismo di “Serenity 1919”. Ma questo non è un progetto concepito per lanciare proclami lirici, piuttosto è pensato per testare l’opportunità di nuove direzioni/dimensioni musicali. Tutto ciò lo rende appetibile in particolare ai maniaci completisti dei Deerhunter. Sono bozze, appunti, idee, solo in alcuni casi portate a totale compimento, ma dentro ci troverete germi più interessanti di tanti lavori realizzati da chi lo “sperimentatore” pretende farlo di professione.

Il 18 gennaio 2019, co-prodotto da Cate Le Bon, arriva Why Hasn't Everything Already Disappeared?, aperto proprio dal clavicembalo suonato da lei in “Death In Midsummer”, istantanee della rivoluzione d’ottobre, racconti di morte, un crescendo emozionale, atmosfere che da barocche si trasformano gradualmente in elettriche. Nella successiva “No One’s Sleeping”, squarci di sax si fanno largo in un’andatura alt-folk-pop e un testo che trae spunto dal barbaro omicidio della parlamentare europeista laburista britannica Helen Joanne Cox per opera del militante neonazista Thomas Mair. Scenari di vittime e sangue, dal passato e dal presente. Poi Berlino, tardi anni Settanta, il Bowie pre-wave sfrutta le illuminazioni di Brian Eno e architetta “Low”, “Greenpoint Gothic” è la “Speed Of Life” dei Deerhunter, giusto un paio di minuti che ci teletrasportano in uno spazio atemporale.
Fin qui tutto perfetto, persino leggero, nonostante i temi trattati, ma dietro l’angolo ecco stagliarsi qualche giro a vuoto, qualche traccia riuscita a metà, dall’accessibilità un po’ telefonata di “What Happens To People?” alle robotiche vedute dallo spazio di “Détournement”, fino agli sperimentalismi di una “Tarnung” che si salva più per il bel sax notturno che per i backing vocals della Le Bon. Why Hasn’t Everything Already Disappeared? complessivamente regge comunque più che bene: fra le irresistibili delizie indie di “Futurism”, i richiami al “Village Green” dei Kinks, i ricordi dell’ultima estate di James Dean (nel funk quasi Jamiroquai di “Plains”) e le istanze ecologiste di “Element”, si scivola verso la bella e lunga coda strumentale di “Nocturne”. E' il sigillo di un lavoro che prosegue il percorso di “normalizzazione” dei Deerhunter, concentrati sull'elaborazione di un formato canzone più “canonico” rispetto al passato, a discapito del maggior gusto per l’avventura che lì caratterizzò fino ad “Halcyon Digest”. Resta intatta la capacità di centrifugare tante influenze costruendo un prodotto che – con spiccata personalità – si sgancia dai tanti riferimenti per brillare di luce propria.

Il 2019 si chiude con la pubblicazione di una collaborazione fra Bradford Cox e Cate Le Bon. Myths 004 è un progetto realizzato per una serie di pubblicazioni promosse dal texano Marfa Myths Festival. Radunato un gruppo di amici (Stella Mozgawa delle Warpaint, Stephen Black dei Sweet Baboo, Tim Presley dei White Fence e Samur Khouja), il disco è stato scritto e registrato nello spazio di una settimana, suona quindi immediato e verace, senza troppe sovrastrutture. Nelle sette tracce assemblate di getto convergono slanci alt-pop e clangori rumoristi, specie nella conclusiva “What Is She Wearing” (che sintetizza Patti Smith e Velvet Underground).
Ma i due protagonisti estraggono dal cilindro anche ipnotiche movenze da dancefloor alternativo (“Constance”) e incubi metropolitani declinati in filastrocca (“Fireman”, con tanto di sassofono a sorpresa nella seconda metà del brano, strumento che emergerà anche in altri frangenti del disco). Cate e Bradford, due anime artisticamente irrequiete, qui perfettamente integrate, si dividono gli spazi senza mai pestarsi i piedi, prendendo il centro della scena ora lei (“Secretary”), ora lui (“Canto!”, che inevitabilmente richiama i Deerhunter), oppure lasciando che i propri slanci sperimentali restino allo stadio strumentale (“Companions In Misfortune”, “Jericho”). Valutare Myths 004 un mero progetto estemporaneo significherebbe limitarne il significato: preferiamo immaginare il tutto come delizioso assaggio di future colorate trasmutazioni.


Autori:
Federico Romagnoli
Claudio Lancia ("Monomania", "Double Dream Of Spring", "Why Hasn't Everything Already Disappeared?", "Myths 004", integrazioni e aggiornamenti)
Gioele Sforza ("Microcastle", "Weird Era Continued", "Halcyon Digest", Lotus Plaza)