Duran Duran

Duran Duran

La fiaba dorata dei wild boys

Da fan di Bowie e Roxy Music a profeti dell'estetica neoromantica anni 80. La saga dei golden boys di Birmingham, tra musica e jet-set. Bollati come eterni teen-idol, riemergeranno inaspettatamente. Una storia che è quasi la parabola di un decennio intero e che abbiamo voluto raccontare così. Come un avvincente romanzo pop

di Davide Sechi

Prologo provinciale: dai poster in cameretta ai locali punk

C'è una leggera brezza che soffia in quel di Birmingham. Un pomeriggio come tanti che volge verso la sera. Laggiù, nei pressi del palazzetto che ospita solitamente almeno un paio d'ore di eccitante pop-rock, si è formata una fila già discretamente folta. Giovani alle prese con la coda che porterà all'agognato ticket d'ingresso. Circa tre sterline sotto quel cielo di metà anni 70. In città sono appena giunti i Roxy Music, molto più che un'icona da classifica, quasi una filosofia di vita. L'eleganza e l'incisività melodico-ritmica dell'ensemble guidato dal ciuffo impomatato di Bryan Ferry profumano di rivalsa per i ragazzini costretti a sottomettersi ai voleri di una città economicamente depressa, priva di stimoli. Tra l'altro, sono da poco approdati per la quarta volta nei negozi con una nuova raccolta di canzoni battezzata "Country Life". Roba da leccarsi le labbra ancora glabre.
In mezzo alla folla fremente qualcuno ha cominciato a prendere appunti. Soprattutto due ragazzini. Il primo è uno spilungone occhialuto, prototipo del timido sfigato, solitario e forse anche un po' sognatore. Di nome fa Nigel Taylor, ma chi lo conosce lo chiama John. Giovannone coscia lunga ha 14 anni e una cameretta tappezzata di manifesti che fotografano gli eroi della sua adolescenza: Mick Ronson, Phil Manzanera (Roxy Music), David Bowie. Vicino al letto, attaccata alla bene in meglio, anche un'immagine di uno svagato Johnny Thunders. Ogni tanto Nigel imbraccia la sua chitarrina acustica da 12 sterline e prova a specchiarsi in quelle foto. Giusto accanto, ecco il minuto Nicholas James Bates. Un baschetto nero per un fanciullo di appena 12 anni. E' sveglio Nicolino, idee chiare votate al pragmatismo. Da quando ha cominciato a masticare pane e vinile, è sempre stato avvinto dalla figura di Brian Eno, il genio pazzo e assai intellettuale dei Roxy. Ma il piccolo Brian son già due anni che ha deciso di mollare la combriccola RockSexy. Poco male, Andy McKay e compagni hanno continuato a disegnare le linee dei suoi pensieri, dei suoi desideri. Una perfetta colonna sonora utile a far volare fuori da Birmingham l'irrequieto Nick. Un commento riguardante il puntuale battito di Paul Thompson, l'applauso convinto giunto all'unisono dopo l'ultima nota di "Prairie Rose" (canzone elogiata spesso da John) e i due proseguono la loro vita di sempre, che consiste nel frequentarsi a volte solo per il puro gusto competitivo di mostrare i propri cimeli di guerra: edizioni limitate di album culto, 45 giri dotati di foro stretto, i presunti lacci delle scarpe calzate da Bowie durante il concerto tenuto l'anno prima da quelle parti.
Tra una schitarrata e un tè all'ombra del giradischi sempre acceso, i due continuano a calcare con assiduità le sale da concerto e nell'estate del 1975 bissano con i Roxy di "Siren" (mix lussurioso di dance sofisticata, aneliti futuristici e rime oblique che profumano di jet-set, e il quaderno degli appunti di cui sopra si infittisce), per poi accorrere con la massa sui prati dell'Hide Park per assistere a una regale esibizione dei Queen, offerta gratuitamente dalla Regina. Ambedue frequentano con discreto profitto l'art school della loro città d'origine, un passaggio quasi obbligato per certo pop di stampo anglofono. Si fa però impellente il desiderio di dedicarsi alle sette note. Un traguardo fino a poco tempo prima precluso ai dilettanti della chitarra. Ma l'alba del 1977 cambia le carte in regola: all'improvviso sembra che tutti possano salire su un palco per eseguire le proprie composizioni. E scriverne addirittura di convincenti. Il movimento punk esplode in un battibaleno, incendiando gli animi e facendo tabula rasa di vetuste ambizioni sinfoniche. Ora contano l'attitudine e la voglia di organizzarsi.
Il primo a lanciarsi senza paracadute ma con molto entusiasmo è John, che insedia la propria chitarra a cinque corde all'interno dei Shock Treatment, provando a fare la sua migliore interpretazione di Mick Ronson. La prima fuga della sua ancora giovane carriera musicale la escogita Nick, che lo coinvolge in un primo progetto a tre. Con loro alla voce e al basso c'è Stephen Duffy. Nicola ha da poco convinto i propri genitori ad acquistargli un synth. Intanto la situazione lì fuori è ulteriormente cambiata. Alla furia primordiale del primo punk dei Pistols e dei Clash, in un ambiente profondamente soggiogato dalla vicenda Ramones, si sono inserite suggestioni elettronico meccaniche. I Kraftwerk hanno definitivamente sfondato, di fatto creando una corrente tecnologica che viene sapientemente miscelata con l'aggressività chitarristica, puntando sovente verso la discoteca, con le nere sonorità disco che dallo Studio 54 newyorkese stanno avvincendo anche le platee europee. Un minestrone assai saporito e dai connotati avventurosi.

Il dott. Duran Duran: dal primo nucleo ai pantaloni rosa di Simon Le Bon

I tre amici in fuga di cui sopra vengono raggiunti da un affannato Simon Cooley. Nella sua valigia un clarinetto e un altro basso. I primi esperimenti, definiti piuttosto stravaganti, quando non assurdi, vengono presentati dallo scolaro John Taylor a un paio di insegnanti perplessi. Manca il nome: John e Nick risolvono il tutto nella living room, mentre la televisione rimanda le immagini del vecchio lungometraggio di Roger Vadim, "Barbarella". E chi era il cattivone che insediava la sexy e seminuda Jane Fonda?! Ma il dottor Duran Duran. Ecco, Duran Duran, suona bene.
La difficoltà ora sta tutta nel difficile compito di mediare all'interno di uno stile personale le fresche influenze: Ultravox!, Magazine, Simple Minds, Wire, Gary Numan, il solito Bowie ora in uniforme tedesca. Ma anche Giorgio Moroder e il vecchio pallino Brian Eno.
Peccato che dopo qualche esibizione Duffy e Cooley non si fidino dei primi acerbi applausi e sbattano la porta. Nick e John ne approfittano per dare una sistemata più consona ai loro sogni. Incontrano Roger Taylor, si fanno due risate durante una festicciola e decidono di unire le proprie forze a quelle del giovane drummer (il quale aveva iniziato il proprio apprendistato perso dietro i fumi del progressive). Roger molla senza preavviso i suoi Scent Organs e convince definitivamente John a innamorarsi dei groove funky. Il Taylor, futuro e ancora inconsapevole sex-symbol, in un bel pomeriggio passato al bar rimane scosso da due canzoni scaturite dal jukebox: la prima è dei Pistols, già idoli insieme ai Clash, la seconda è della premiata ditta Rodgers-Edwards, ovvero gli Chic. John si chiede come sia possibile unire le due influenze. Per intanto corre a comprarsi "Le Freak". Una volta nella sua stanza suda freddo di fronte al mangiadischi che diffonde nell'ambiente le possenti e sinuose linee di basso di Bernard Edwards. Perde la testa, vende l'annata 1974 di "Spiderman" e si compra un Wal. Sotto le luci stroboscopiche del dancefloor, Rodgers e Edwards stanno facendo lievitare una scena nella scena, un po' lo stesso traguardo raggiunto in una campo differente dai Kraftwerk.
Intanto, la line-up viene provvisoriamente completata da un certo Andy Wickett, voce cupa e liriche stravaganti, e con lui i ragazzi mettono giù una prima, rustica versione di "Girls On Film". Ma anche Wickett dimostra di non avere pazienza. Per un Andy che se ne va ce n'è un altro che arriva. John e Nick sono ormai alla frutta nella disperata ricerca di un chitarrista. Ovvero di uno che possa miscelare con sapienza le atmosfere liquide e dilatate di un David Gilmour come pure la ferocia di Mick Ronson e la ritmicità di Carlos Alomar. Copiano i Genesis e mettono un annuncio sul Melody Maker per rintracciare il proprio Steve Hackett. Rispondono in trenta, ma poi John incontra Andy Taylor, un bassottino di 18 anni proveniente da Newcastle. Gli chiede quale sia il suo eroe del momento e lui d'istinto risponde Gary Moore. I gusti coincidono. E l'audizione funziona peraltro alla grande, rivelando una storia curiosa e ricca di passione rock. Andy ha cominciato a prendere le prime lezioni a sei anni, poi si è dovuto arrangiare con i soldi che scarseggiavano in famiglia. A 14 anni ha abbandonato la scuola e si è imbarcato nelle prime esperienze rockettare finendo per suonare lungo tutta la Germania, addirittura nelle stazioni aeronautiche. E' un musicista sul serio. Con un background profondamente diverso, che va dal rock'n'roll chiassoso (gli Ac-Dc rappresentano il suo totem, Keith Richards la sua guida spirituale, Jeff Beck il modello sonoro definitivo), al blues, al soul funky, senza disprezzare qualche stratagemma jazz. E si trova di fronte a dei principianti volenterosi.
La base del quartetto è intanto divenuto il Rum Runner, originario pub trasformato in men che non si dica in sala di ritrovo dalle caratteristiche decadenti, a imitazione del leggendario Blitz di sede a Londra. Da quelle parti sta esplodendo il movimento del New Romantic, dance futuristica e parecchio imparentata con l'elettronica. Fuori la capitale londinese è presa d'assalto dalle nuove armate new wave. Musica sincopata, non dimentica dell'irriverenza punk, ma parecchio più sofisticata nei contenuti e nelle forme, volentieri mascherate con abiti e acconciature fatali. In quel di Birmingham non vogliono essere da meno e si impegnano in serate dedicate al Bowie berlinese, al solito Ferry, tra cocktail e moine d'avanspettacolo. Una deriva estetica che nasconde però malessere e concretezza d'intenti. John e Nick convincono gli altri due a passare del tempo dentro il locale dei sogni. Tra lavori in cucina e sul banco da deejay (con Rhodes che si sbizzarrisce in mix azzardati tra "John I'm Only Dancing" e "Both Ends Burning", studia e prende nota del comportamento del pubblico pagante, lo sfida comprimendolo con folate di hit per poi passare a materiale underground), i ragazzi cominciano a non dormire in attesa delle nuove uscite di Human League e soprattutto Japan. Il gruppo di David Sylvian diviene fonte d'ispirazione e riferimento più costante. Al punto che Nick e John non stanno nella pelle quando viene annunciato come imminente l'arrivo in città del nuovo singolo giapponese, quel "Life In Tokyo" che i fratelli Jansen hanno realizzato con l'aiuto di Moroder. Ad appoggiare la loro passione ci sono i padroni del Runner, Paul e Michael Berrow. I quali un giorno chiedono in coro: "Dov'è il cantante?". Non c'è. Non ancora almeno. Ci pensa la nuova barista che, guarda caso, esce da qualche tempo con tale Simon John Charles Le Bon. Il tipo studia drammaturgia e pare sia anche intonato. Gli concedono un'audizione.
Lui si presenta con un paio di pantaloni di leopardo colorati di rosa e degli occhiali da sole impenetrabili. In mano ha dei block-notes che racchiudono scarabocchi e poesie. Tra i titoli si riconoscono una prima stesura di quella che più tardi diverrà "The Chauffeur", "Sound Of Thunder", "Tel Aviv". Decidono di musicarle e durante la prima session riescono a scrivere pure una canzone. Tutto bene quindi. Mica vero: Simon, che ha lavorato in precedenza in un kibbutz israeliano, non sa fare niente, immaturo vocalmente, improbabile ballerino, può però contare su un naturale magnetismo che fa la differenza. O almeno è questo ciò che pensano gli altri quattro, coadiuvati ormai stabilmente dai fratelli Berrow, divenuti manager a tutto tondo. Il ragazzo si sente dentro il movimento punk, proviene da band che si fanno chiamare Dog Days o Robostrov, ma le passioni attuali contrastano non poco con l'idolatria adolescenziale che permane, sebbene segretamente, nell'animo di Le Bon: tra i feticci ci sono infatti Peter Gabriel e i Genesis, Patti Smith, ma anche la fresca vicenda della Yellow Magic Orchestra (trovandosi d'accordo con la forte passione dimostrata da Nick verso il pop giapponese).
Le cronache raccontano di una sera, durante un party a base di alcol un po' tirato per le lunghe, in cui Simon si trova impegnato con i primi effetti di una solenne sbronza, quando il frastuono dei Pistols viene squarciato dall'ambiente sonoro fuoriuscito dalla pianola di Ray Manzarek. La nenia di "Riders On The Storm" dei Doors sveglia la futura popstar che, lasciati sul pavimento i compagni di baldoria, punta il giradischi e non lo molla fino alle primi luci dell'alba. Più tardi ammetterà che le liriche sovente astruse di suoi brani, quali "Hungry Like The Wolf" e "Union Of The Snake", debbano non poco all'immaginario visionario del Re Lucertola. Con lui i Duran affrontano i primi impegnativi palchi: suonano al Festival di Edimburgo e perseverano a frequentare con solerzia gli stage dei club della propria città.

New Romantic Style: Emi, Japan, Pianeta Terra, Andy Warhol e la rivoluzione del videoclip

I fratelli Berrow ci credono sempre di più, si vendono la casa e con i soldini ricavati organizzano altre sortite extraurbane. Debuttano a Londra supportando Pauline Murray, che fu cantante dei Penetrations, e sostituiscono gli Associates di fronte al pubblico del Marquee. Se la sudano e cercano di evitare gli sputi dell'era punk durante la tournée affrontata in compagnia di Hazel O'Connor. Una mattina John scende nell'edicola sottostante casa e si compra una copia di "Sounds". All'interno del magazine, un'intervista a un gruppetto londinese: gli Spandau Ballet stanno infuocando le notti neo-estetiche della Londra di questo inizio anni 80. L'articolo è anticipato da un titolo eloquente: "Entrate nell'era new romantic". Il bel Taylor ci pensa su e capisce che l'avventura potrebbe essere giunta a una svolta. La sera al pub convince gli amici ad abbracciare un look fatto di pizzi e merletti, senza però cadere nella facile leziosità, mantenendo un'identità comunque personale. Intanto, i cinque che un giorno diverranno favolosi si mettono di buzzo buono e continuano a girare i locali dentro e fuori Birmingham, personalizzando la propria proposta, interagendo con personaggi più o meno importanti, imparando ad apparire nei momenti giusti e nei luoghi adatti. Affidano le prime registrazioni a cinque alle cure di Bob Lamb, l'uomo che aveva da prodotto il debutto degli UB40. Betty Page, cronista di "Sounds", si fa raccontare aspirazioni e strategie. Qualcuno se ne accorge, si fa due conti e propone una bozza di contratto.
Alla fine le richieste di adesione alla propria scuderia si fanno numerose e portano alla classica battaglia senza esclusione di colpi dalla quale emergono Phonogram e Emi. E i Duran, da veri patrioti, innamorati della tradizione britannica e dei ricorsi storici (Beatles e Queen), votano per la seconda. La Emi sigla l'affaire, corredandolo da 50 sterline a settimana per ciascuno dei cinque, con la promessa di un cospicuo aumento qualora la band rispetti i patti e porti a compimento il primo album nel giro di sei mesi. Nel novembre 1980 i discepoli di Barbarella entrano negli Air Studios, concentrati e professionali. Fuori impazza il neo-romanticismo di Steve Strange e dei Visage, gli Ultravox sono ora capitanati da Midge Ure e raccontano di trame decadenti ambientate in città decadenti, Bowie ha messo le cose in chiaro tra arlecchini marziani e lo smodato "Fashion" che sta invadendo le strade. E' il momento giusto per accodarsi a un trend preciso e uscire allo scoperto in maniera repentina. La Emi li affida alle cure di Paul Edmond e i primi scatti patinati cominciano a diffondersi nelle tipografie.
I Duran intanto sostano in un albergo dalle parti di Fulham, non lontani dagli studi di registrazione. Con l'affettuosa compagnia di Colin Thurston, assoldato come produttore, Nick (che ha preso a farsi chiamare Rhodes, forse per eliminare ogni possibile diceria riferita a una parentela con il Norman Bates di "Psycho") e compagni partoriscono il primo singolo "Planet Earth". Quasi quattro minuti di pop-dance elegante, incalzante, una bubblegum song ammantata di tecnologia, funky-disco robotica, cantato decadente, effetti tastieristici curati maniacalmente. Una resa sonora sorprendentemente matura con le linee di chitarra di Andy sferzanti ma sinuose, la carica ritmica di un Roger metronomico, che bene si sposa con l'andamento terzinato del quattro corde di John. I synth di Rhodes omaggiano alla grande la "Quiet Life" di japaniana memoria. Coincidenza vuole che nella sala di registrazione accanto allo loro Mick Karn e soci stiano completando le sedute dedicate a "Gentlemen Take Polaroids". A tal proposito si vocifera che i cinque abbiano esplicitamente richiesto i servigi in studio di David Sylvian. L'allora cantante più bello del mondo sta però per trovare le vie del successo quasi aperte e si tira indietro. Oggi Rhodes tende a minimizzare quel mitico approccio, ma Richard Barbieri ha più volte confermato: "I Duran erano sempre in prima fila ai nostri concerti e qualche loro demo finì nelle nostre mani... Si capiva quanto fossero in gamba e determinati ma, sebbene la nostra influenza fosse palese nella loro proposta, avevano già maturato uno stile personale... All'interno di un background comune noi tendevamo verso un approccio più oscuro, loro modellavano le loro linee in chiave maggiormente pop. La comunanza di intenti trovava però una conferma nell'aspetto esteriore. Quando recentemente ho visto in tv Nick ritirare il British Award, non era cambiato per niente: sembrava come allora un membro dei Japan".
Duran DuranComunque sia, i Duran non fanno in tempo ad accompagnare gli Sweet al Lyceum di Londra che il due febbraio del 1981 il "Pianeta Terra" atterra nei negozi raggiungendo, nel giro di qualche settimana, la dodicesima posizione in classifica con 300.000 copie smerciate. Le parole di Simon riecheggiano i temi spaziali di David Bowie nonché, con qualche riferimento esplicito, la corrente neo-romantica. Il retro del quarantacinque giri mostra la facciata meno elaborata e sofisticata della giovane compagine: "Late Bar" è un piccolo brano, diretto, condotto da una chitarra rasoiante, sostenuto da una ritmica tanto minimale quanto corposa, benedetto da un uno-due, stroffa-ritornello, talmente efficace da risultare disarmante, mostra una delle qualità principali che condurranno i Duran alla gloria: la capacità di essere esatti, privi di fronzoli, senza mai perdere in eleganza e immediatezza.
Il singoletto scuote i pomeriggi di molti adolescenti britannici e comincia a preoccupare non poco i possibili rivali di classifica. La stampa ha appena creato ad arte una presunta rivalità con i cugini Spandau Ballet, di casa a Londra e quindi considerati più nobili rispetto ai provinciali esponenti della scena di Birmingham. I fratelli Kemp hanno anche qualche mese di esperienza in più sulle spalle e due singoli da top ten. L'album di debutto non tarderà a sbancare le chart britanniche. Ma parole poco gentili provengono anche da altre sponde, come dimostrano le frequenti ironie di Midge Ure. Al contrario, il sempre più controcorrente John Foxx invia sinceri biglietti carichi di complimenti. L'istantaneo successo è dovuto anche, e forse soprattutto, all'intuizione fulminante di legare le immagini ai suoni.
Al tempo il videoclip è ancora un'arte per pochi. Gli stessi futuri wild boys sembrano non crederci più di tanto. La casa discografica consiglia loro di farsi una chiacchierata con tale Russel Mulchay, già dietro la macchina da presa per i Buggles di "Video Killed The Radio Star", gli Ultravox di "Vienna" e gli Spandau di "To Cut A Long Story Short". Dopo un paio di birre, Simon e compagni accettano e finiscono all'interno di un fumetto fantascientifico, quasi macchiettistico, dove tutti gli stereotipi della moda new romantic vengono esaltati. Ritornati in studio poi, ci riprovano con un secondo episodio: "Careless Memories" (con i due inediti della versione 7'', la malinconica "Khanada" e una secca ripresa della "Fame" che regalò a Bowie il suo primo numero uno americano) dell'aprile 1981 è una filastrocca più ambiziosa, sincopata, certo, ma non propriamente adatta ai dancefloor. Claustrofobico e quasi rabbioso, il brano accentua la componente minimale ed esplode in una resa sonora, dove, sorta di ulteriore caratteristica del gruppo, nessuno prevale sull'altro, in una comunione d'intenti che favorisce l'equilibrio dell'insieme. La qualità che John ammira di più nell'operato di uno dei suoi hobby preferiti, i Japan, ensemble che fa dei rapporti musicali democratici un punto d'onore. Peccato solo che i primi tifosi non siano ancor così affezionati da volersi sobbarcare una prova così distante dal debutto. Infatti non lo fanno e il dischetto rimane fuori dai top 30. Uno smacco clamoroso mentre la concorrenza avanza e sogghigna senza pietà. E siccome piove sempre sul bagnato, anche il video d'accompagnamento è uno dei meno riusciti della prima stagione dei filmati musicali.
Dopo le precipitose condoglianze, i Duran Duran si levano di dosso i frettolosi abiti a lutto e completano l'album di debutto. Omonimo e dalla cover bianca corredata da una fotografia dei cinque in costume d'epoca, il 33 giri annovera nove canzoni che rispettano i canoni melodico-ritmici dell'era synth-romantica, pur proponendoli da subito all'interno di un concentrato pop-rock più classico, tra danza e senso di depressione: con il fulminante disco-funk di "Girls On Film" che nel refrain assume i connotati di inno senza per questo scivolare troppo in fretta in una vuota dimensione da stadio. La band tiene bene accesa la fiamma del mistero, del fascino tra le righe, dell'eleganza mai ostentata ma palese, cresce alla distanza tra l'edita "Planet Earth", la classicità pop rivisitata di "Anyone Out There", lo struggimento disperato di "To The Shore", con Andy mascherato da Robert Fripp, l'incalzare di "Careless Memories", la cinematografica e sinistra "Nightboat", con tastiere ultra-dark e giochi d'armonici al basso di un John Taylor assai ispirato, l'omaggio moroderiano di "Sound Of Thunder", batteria disco, comunione sintetica e suggestiva di chitarra e tastiere, quattro corde sopra le righe a colorare e a sospingere il treno lanciato a grande velocità, il ritornello ipermelodico della misteriosa "Friends Of Mine", lo sperimentalismo strumentale per archi, synth e chitarre di "Tel Aviv", dai sapori orientali.
Le parole che affiorano dalla penna di Simon assecondano il pessimismo a volte plumbeo del pop dell'epoca e indulgono spesso su tematiche care alla solitudine, alla gioia frenata, preferendo fotografarle all'ombra di ambientazioni oscure.
Il disco onora le passioni del quintetto ma segue subito strade personali. Un mese dopo viene rilasciato il terzo singolo, quella "Girls On Film", antico tesoro del gruppo, che funge da opening-song del 33 giri. Il videoclip che si muove a ritmo diviene pietra dello scandalo puritano e biglietto d'ingresso verso la gloria imperitura. I cinque si affidano alla regia di Godley&Creame, che furono leader dei 10CC, i quali imbastiscono una serie di immagini ad alto contenuto erotico: modelle desnude, chiappe al vento, seni turgidi, sguardi equivoci e orgasmici. Un macello mediatico fatto esplodere da una casalinga di Sloihull che aveva sorpreso il figlioletto impegnato nella visione del video e in contemporanee pratiche onanistiche. Denuncia e bando del filmato dai primi palinsesti musicali, dalla Bbc, dall'appena nata Mtv. Un possibile disastro che si trasforma in pochi giorni nel definitivo viatico verso il successo duraniano.
Il 45, con il retro riempito dalla ritmica asciutta di "Faster Than Light", nuovo episodio dance decadente, con uno spunto rock inusuale in quei mesi, raggiunge l'agognata top five britannica e prova a impossessarsi della programmazione delle discoteche statunitensi. E i cinque in America ci vanno sul serio. Sbarcano nel nuovo continente per le prime date a stelle e strisce. Invero non apprezzate granché nella terra che va in estasi per l'hard da stadio, l'Aor e qualche spunto black fuoriuscito dalla deriva disco. In quell'occasione i Duran fanno la conoscenza di Andy Warhol, guru dell'art-business, idolo incontrastato di Nick. Un invito a pranzo, un photo session e Warhol diviene il loro primo supporter. Un sogno che si avvera per mister Rhodes, da tempo convinto della grandezza suprema del debutto dei Velvet Underground, fan ai limiti del collezionismo di Lou Reed e Nico.
Il maestro della pop art sosterrà le vicende del gruppo sino al giorno della morte e confesserà sui suoi diari: "Amo Nick Rhodes, è un genio. Ogni notte mi masturbo guardando i video dei Duran!". Un'ulteriore conferma del primo status di fama arriva intanto dalle chart di casa, dove l'album omonimo si insedia in terza posizione e vende oltre mezzo milione di copie. La permanenza in classifica durerà per 118 settimane.
D'un tratto i Duran si ritrovano protagonisti sulle pagine dei più svariati periodici, soprattutto di quelli espressamente indirizzati al mondo dei teenager, una mossa che costerà ai cinque la poca considerazione da parte della stampa cosiddetta seria. Eppure anche Bowie, Roxy e Bolan al principio di carriera erano stati acclamati come eroi dalle giovanissime legioni di fan, senza per questo smarrire un pizzico di credibilità... Ai Duran Duran, invece, si comincia a non perdonare niente. I media sembrano avere un conto aperto con Le Bon e compagnia. Rhodes fa finta di niente e prende in prestito una delle parabole del suo guru Warhol: "Non ho mai letto in realtà ciò che i giornali scrivevano sul mio conto, ho solo e sempre pesato il mucchio di riviste che ogni settimana parlavano della mia vita. Quanto più ragguardevole fosse stato il numero dei fogli di carta, miglior pubblicità avrei ottenuto".
Non conta insomma cosa si dice, l'importante è che se ne parli. Anche perché i cinque di Birmingham vogliono la fama, soprattutto. E, improvvisamente, complici articoli, interviste e fotografie sempre più ricercate, la realtà unitaria del complesso viene segmentata in ruoli precisi, proiettando una serie di fotogrammi che contribuiscono a creare l'immagine di ogni componente: Andy è il rock'n'roller senza macchia e senza paura sempre con la birra in mano, Nick è l'intellettuale androgino, Roger è uno schivo James Dean del pop, Simon è il nuovo Romeo alla ricerca di varie Giuliette, John è il prototipo dell'eroe romantico, misterioso, attraente, perfettamente truccato. E mentre la stagione estiva volge al termine, il gruppo ritorna on the road, tra Inghilterra e Nord Europa, con una puntata francese. Chiudono i battenti alla vigilia di Natale con tre esibizioni di fronte al pubblico di casa. E non vanno in vacanza. Intanto un quarto singolo, "My Own Way" ha provato a impadronirsi delle graduatorie di vendita. Fallendo nel suo tentativo dichiarato di fama veloce, peraltro biasimato più volte da un pentito Rhodes. A metà dicembre si inerpica sino al 14° posto per poi scivolare giù per mancanza di fiato. E' una sorta di disco-funk superbianco, con archi sintetici riecheggianti la tramontata disco-music, un episodio saltellante e sin troppo carico di elementi che tradiscono di fatto la filosofia minimale del complesso.

Her name is Rio e lei balla sulla sabbia: spiagge senza fine, jet set e America

Un morso al panettone e l'appuntamento è ancora una volta in studio di registrazione, sempre sotto l'attenta regia di Thurston. A fine gennaio 1982 l'album è praticamente finito e i Duran volano con l'affezionato Russel Mulchay verso lo Sri Lanka, il paradiso terrestre dell'isola di Ceylon. Giusto in tempo per inaugurare una nuova stagione del videoclip, quello che guarda al cinema, preferibilmente avventuroso, tra citazioni di "Apocalypse Now" e i "Predatori dell'Arca Perduta". Dopo solo un mesetto i tizi che scendono dall'aereo in terra indiana non sembrano neanche lontani parenti dei Duran new romantic: abiti dai tagli più misurati, casual, freschi, estivi, firmati dallo stilista britannico Antony Price, colui che ha disegnato il look del Brian Ferry più classico. Volti rilassati, anche abbronzati, con il trucco meno opprimente. Playboy incalliti che si dilettano con la musica. Girano tre clip tra serpenti che spuntano all'improvviso, elefanti ribelli, virus malarici e gli sguardi incazzati della popolazione indigena. Rhodes li raggiunge con qualche giorno di ritardo: è rimasto a Londra e non si dà pace di fronte alle deludenti, a detta sua, registrazioni dell'imminente secondo capitolo a 33 giri. Dirà più tardi: "Solo in volo mi sono reso conto del lavoro superficiale che sta alla base dei synth di "Hold Back The Rain". Un errore che non mi sono mai perdonato".
Tra febbraio e marzo i cinque sponsorizzano la loro nuova immagine musical-visuale di fronte al pubblico australiano e giapponese (popolazioni che hanno accolto in cima alle loro classifiche "Planet Earth", come anche il Portogallo che ha da poco abbracciato con lo stesso affetto e medesimi esiti commerciali "Girls On Film"). Tra i canguri Andy rimarrà vittima della febbre tropicale. Ad aprile la Emi pubblica il singolo "Hungry Like The Wolf", felice approdo alla sintesi tra sequencer e chitarre quasi hard. Un omaggio elettrorock al Bolan di "Get It On" per una struttura che si è completamente ripulita degli echi romantico decadenti di qualche settimana prima. Batteria secca e metronomica, basso che puntella incessante. Il sequencer che spadroneggia incisivo, la voce di Simon ora più personale che parla di sesso in chiave metaforica. Una canzone che diviene manifesto di un'epoca e che sembra studiata con estrema precisione. E' invece nata e cresciuta quasi per caso nel giro di qualche ora, da un'idea ritmica di Nick su cui Andy ha istallato un giro classico eppure fresco, sferzante. La top cinque britannica è di nuovo conquistata. Il 29 maggio le vetrine dei music shop ospitano per la prima volta il volto di una donna disegnato e stilizzato dall'illustratore Patrik Nagel: giovane, sbarazzino, moderno, sorridente, il dipinto è la cover del nuovo album, la cifra stilistica del nuovo corso.
Solo qualche settimana prima, dietro le telecamere di "Top Of The Pops", Simon aveva scambiato quattro chiacchiere con Ian McCulloch, fascinoso frontman degli Echo And The Bunnymen appena ritornati a casa dopo un lungo giro statunitense. A un Le Bon curioso di conoscere le impressioni americane del collega si contrappone un McCulloch disincantato e quasi schifato: "E' una tristezza amico, gli States sono solo un ammasso di plastica, accattivante, ma sempre plastica", pare che gli dica. Ma è proprio su quella dimensione controversa e rischiosa che il biondo cantante e i suoi amici voglio dirigersi. Cominciano subito, a tutto gas. Un intro sinistro, quasi agghiacciante (ottenuto da Nick facendo cadere delle piccole barre di metallo sulle corde di un pianoforte), implode e viene inghiottito da uno scatenato e nitidissimo connubio basso batteria sparato a tutta velocità; la risolutiva rullata squarcia il sipario e introduce a una nuova epoca dorata del pop.
La title track di Rio è solare, energica, entusiasta, funambolica: le sequenze di Rhodes pervadono l'intero spettro sonoro ma, al contrario di quello che accade nella maggior parte della musica popolare alla moda, la volontà di delegare ogni forma d'ispirazione al solo uso della tecnologia viene qui completato da un utilizzo più tradizionale dello strumentario pop. La ritmica aggressiva ma controllata di Andy insaporisce un ritornello perfettamente costruito, privo di buche, di riempitivi, che si nutre di un'attitudine quasi fusion. A metà brano i Duran sposano sotto un'altra prospettiva i Roxy, riattualizzandoli: su un imponente sottofondo di sax, suonato da Andy Hamilton, membro aggiunto all'ultimo istante, John Taylor scatena le proprie voglie al quattro corde (che ora è diventato un Aria Pro II), ampliando con egregio tempismo e buona fantasia la circolare linea di basso che puntella la canzone (una progressione tecnica che, a suo dire, avrebbe ricavato dall'ascolto ripetuto della corrente jazz-funk che infilzava ripetutamente l'ambito wave di quelle settimane). Finale epico e sfavillante.
Il secco slapping del solito Taylor introduce la già edita "My Own Way", nella quale i Duran dimostrano di aver capito la lezione: la canzone viene spogliata degli orpelli originari, asciugata e trasportata in una dimensione più moderna, un synth-rock musicalmente gaio che si contrappone a liriche di nuovo oscure. Andy Taylor, intanto, fraseggia tra le righe. La festa prosegue con un ennesimo omaggio al pop che conta, questa volta nel suo versante più malinconico: "Lonely In Your Nightmare" è una ballata limpida, dai tratti acustici, la cui grazia viene motivata dall'agile drumming e dal basso fretless di John. Manco a dirlo, Rhodes colora con misurata eleganza la tela sottostante. Dopo l'exploit di "Hungry Like The Wolf", i battiti aumentano con un altro esempio di discoteca rock, "Hold Back The Rain", sequenze moroderiane ossessive, chitarre chiassose, ritmica disco-funky, voce aggressiva come mai prima, parole che Le Bon pare scriva per rammentare a John Taylor i rischi della sua sempre più pronunciata adesione ai canoni del sex, drugs&rock'n'roll.
Girato il lato del vinile, "New Religion", lungo e avventuroso brano caratterizzato dalla verbosità lirica di Le Bon, mostra un'altra volta il lato oscuro della band, tra un Nick Rhodes che cammina tra spunti eniani e omaggi da ambient ecclesiastico (l'intro sepolcrale e organistico), il basso sincopato di John che si muove tra stacchi e ripensamenti con l'ormai classico batterismo di Roger, tra tom sudati e sezioni elettroniche, la chitarra funky e spesso affilata di Andy, canti e controcanti ancora non ben disegnati. Molto buono comunque il risultato finale e appuntamento sui palchi per apprezzarne una migliore resa dinamica. Cosa che effettivamente avverrà. "Last Chance On Stairway", brano considerato spesso secondario e di passaggio, restituisce i cinque inglesi alla dimensione gioiosa eppure articolata della title track. Sezione ritmica incisiva e svolazzante, John Taylor sincopa a più non posso, Andy si prodiga in assolo, stacchi e break condensano il tutto.
L'epilogo è poi da standing ovation: prima gli scenari paradisiaci di "Save A Prayer", synth-ballad dai richiami acustici, che qualcuno sostiene sia nata armonicamente dalla vena di John, benedetta dal talento melodico di Le Bon, impreziosita dalla versatilità strumentale del gruppo, con le suggestive carezze esotiche di Rhodes, i mini assoli semplici quanto memorabili di Andy, la ritmica funzionale che si concede piacevolezze al quattro corde. Diventerà una sorta di inno da accendino perenne tutt'altro che pacchiano. Il finale è invece sorprendentemente virato in chiave dark: "The Chauffeur" è un'altra ballata, questa volta gelida, completamente synth-oriented, con Simon che non mantiene a freno la pretenziosità della sua scrittura, disegnando paesaggi sensuali ed evocativi, spesso però volutamente incomprensibili. Escamotage che lungi dall'affossare la prova, la arricchisce. E il pubblico, invece di soffermarsi per il solito applauso caloroso, impazzisce letteralmente.
Rio raggiunge subito il numero due della classifica inglese e seduce la sospettosa critica: Steve Sutherland su Melody Maker non crede alle sue orecchie e confessa di essere uscito fuori di testa. Baci e abbracci, dal sapore vagamente patriottico, arrivano anche dal resto della carta britannica. L'album comincia a spopolare in tutto il Nord Europa, ma i Duran vogliono colpire il bersaglio grosso. Partono per un secondo tentativo alla volta dell'America dove sta prendendo sempre più piede quella che verrà chiamata la seconda British invasion. E in Nord America, dove i synth di Human League e compagnia hanno fatto esplodere il banco, i Duran vogliono andare oltre, desiderano accodarsi allo status dei Police, divenire i Rolling Stones del pop.
Viene organizzato un giro di ben 34 date, destinato soprattutto ai club, se non fosse per una decina di apparizioni di supporto ai Blondie ormai allo sbando, ma sempre protagonisti di fronte all'enorme pubblico degli stadi e delle capienti arene. Una lunga estate calda quella del 1982, nella quale Andy fa anche in modo di convolare a nozze con la parrucchiera di fiducia del complesso. Là fuori intanto cresce la popolarità di un canale via cavo, Mtv. I cinque se ne accorgono e con loro la Emi. Il secondo singolo estratto dall'album, "Save A Prayer", viene accompagnato da un'altra sequenza di immagini girate in India, tra spiagge e riprese aeree di tempi buddisti, in una fotografia che esalta il senso di pace rilassata espresso dalla canzone. E mentre i Duran calcano i palchi autunnali del Nord Europa, la ballata cattura i cuori giovanili e s'insedia al numero due della classifica inglese. In una stagione straordinaria per i sudditi di Elisabetta, con il Costello crooner pop-blues di "Imperial Bedroom", il Joe Jackson jazzy di "Night And Day", le eleganti lezioni d'amore impartite dagli Abc, la perfezione assoluta raggiunta dai Roxy Music di "Avalon", il sogno dorato dei Simple Minds, il debutto bianco soul degli Scritti Politti, sembra che il pop abbia riscoperto aggettivi ormai dati per morti, un arcobaleno di colori in cui i Duran si ergono come il gruppo del momento, una sintesi perfetta delle moderne possibilità della musica leggera. Tra ottobre e novembre la Gran Bretagna esaurisce a tempo di record i biglietti dei concerti previsti in madrepatria. E neanche debutti mirabolanti come quelli di Culture Club e Tears For Fears sembrano scalfire la notorietà assoluta di questi signori che, in un riflesso beatlesiano, sono ormai definiti "Fabolous Five".
Alla fine esce allo scoperto anche Lady Diana, giovane icona popolare e futura regina, ma soprattutto appassionata sostenitrice del gruppo, per il quale pare che, con riserbo regale, si strappi i biondi capelli. Sul finire dell'anno la Emi pubblica per il solo mercato americano la compilation "Carnival" e i cinque appaiono per la notte che accoglie il 1983 di fronte alle telecamere del "Rock'n'Roll Ball" di Mtv, per un concerto ripreso sul palchi della Grande Mela. Quasi dieci milioni di americani se li gustano in un'esagitata esibizione di un'oretta. Buone mosse pubblicitarie. E l'airplay della rete musicale sembra sempre più presa d'ostaggio dalle loro immagini. A febbraio vengono invitati a esibirsi al "Saturday Night Live", la trasmissione satirica americana più celebre del paese, la stessa che ha dato luce ai Blues Brothers e a tutta una teoria di nuovi comici che stanno influenzando i costumi di una nazione. Sono accompagnati dal padrino Warhol, che li riprende pure per la sua tv via cavo, suonano due canzoni e spiccano il volo definitivo. "Hungry Like The Wolf" irrompe al numero tre di Billboard trascinando con sé anche l'album che vola nei top five.
In breve Rio supera il milione di copie vendute e si guadagna un disco di platino. Rimarrà ben saldo tra i top 200 statunitensi per 132 settimane consecutive. Di nuovo l'Inghilterra, che li premia con il British Rock & Pop Award. Ancora qualche settimana e "Save A Prayer" raggiunge la nona posizione nella chart americana. Viene pubblicato il terzo singolo, la title track, coadiuvata da uno strepitoso video girato nel mare dei Caraibi, ad Antigua, con parte delle scene filmate a bordo di una barca a vela, tra colori sgargianti, telefoni blu elettrico, cocktail rosa shocking, trovate umoristiche, perfetta comunione d'intenti tra suono e immagine; e i Duran impegnati nel vano e spesso tragicomico tentativo di conquistare le attenzioni di un'avvenente fanciulla. Il 45 giri di "Rio" si issa nella top ten in Gran Bretagna e la sfiora anche in Usa. Un mesetto appena e i Duran intensificano la loro strategia d'attacco e pubblicano la prima videocassetta che raccoglie i temi visuali che fino a quel momento hanno accompagnato la loro carriera di giovani hitmaker uniti da una sorta di trama filmata a parte. Vanno a presentare il tutto a New York e si ritrovano assediati in quel di Times Square: 10.000 fanatici richiamano l'intervento repentino delle forze dell'ordine. Urla, sospiri, baci al vento e pure qualche manganellata non si negano a nessuno. Un affetto di stampo beatlesiano che si diffonde a macchia d'olio.

Duranmania: Lady D, sex, drugs and rock'n'roll e l'odissea del terzo album

Duran DuranE i cinque battono il ferro finché è caldo: al principio di marzo sono di nuovo nei negozi con un singolo nuovo di zecca. "Is There Something I Should Know" mescola con abilità le capacità del complesso, tra riff di chitarra pulita ricamati dalle tastiere di Rhodes, una ritmica sincopata e mai fuori dalle righe, perfettamente coesa, con il Taylor più alto che costruisce le solide fondamenta del groove, cori quasi sixties e l'ugola di Le Bon che singulta liriche quanto mai stravaganti, in un testo fra i più eccentrici e oscuri organizzati dal frontman. Con un finale, anticipato dal suono di un'armonica a bocca, più marcato, quasi epico, in cui John Taylor insiste nello slap, tecnica sempre più di moda in ambito dance-pop. In console, accanto al solito Thurston, siede Ian Little, rifinitore dei recenti preziosimi di "Avalon". Una canzone che determina un altro cambio di direzione: dai suoni più aspri, secchi, gelidi, lontani dal decadentismo originario come pure dalla gioiosità pop di "Rio", con richiami persino prog, anche se in maniera velata, il 45 giri, accompagnato da un retro, "Faith In This Colour", strumentale dominato dai synth, in poche ore si proietta al primo posto della graduatoria inglese, posizionando i cinque nella ristretta classifica di quelli che hanno raggiunto la vetta britannica in un batter d'occhio. Il filmato d'accompagnamento asseconda con le sue figurazioni geometriche le inedite aspirazioni del quintetto. Che vola sul finire della primavera al numero quattro della chart americana. La Emi ridisegna l'album di debutto inserendovi proprio il singolo spazza record. Detto fatto e il long playing sfonda nuovamente la top ten a stelle e strisce.
Due album e quattro singoli differenti presenti dal principio dell'anno nella graduatoria americana. E' duranmania delirante. Qualche settimana prima Rhodes aveva voluto sondare il proprio tocco di re Mida. Eccolo quindi incontrare in un night un tizio stravagante, tale Limahl, prestare orecchio alle sue chiacchiere da promettente divo, proporre il suo gruppo alla Capitol Emi, produrne il disco d'esordio. I Kajagoogoo e il loro catchy-pop "Too Shy" raggiungono la vetta britannica e di altri sette paesi europei e il quinto posto in Usa. L'album segue degnamente gli stessi percorsi dorati. Ma per i Duran è già ora di dare un valido seguito sulla lunga distanza. I fratellini manager convincono i giovani dei a trasferirsi in Francia per aderire agli agognati paradisi fiscali, quasi una replica della vicenda Stones periodo "Exile". Soprattutto per quel che riguarda i bagordi. John Taylor decide di seguire la via della perdizione, tra party, alcol e droghe varie. Lo accompagnano volentieri quel gran bevitore di Andy e un Simon Le Bon sempre più compreso nel suo ruolo di sex-symbol. Cannes rappresenta un moderno paese dei balocchi con i Duran nelle vesti di Lucignolo. Roger comincia a estraniarsi, Rhodes si illude che il lavoro proceda bene. Si accorgono delle continue perdite di tempo, fanno armi e bagagli e si trasferiscono nei Caraibi, a Monteserrat, all'interno degli studi di Sir George Martin. Ambiente paradisiaco, distese di sabbia a perdifiato, mare cristallino e lavoro che non decolla. Nick arriva addirittura a lamentarsi della caducità delle strutture messe a disposizione. Arriva uno squillo e ai ragazzi viene chiesto di fare da supporto ai Dire Straits in occasione di un avvenimento di beneficenza per il Prince Of Wales Trust, un fondo che si occupa dei meno abbienti. A presenziare al Dominion di Londra ci sono anche Carlo e Diana che, finalmente, tra sbavanti flash, può stringere la mano ai suoi idoli. Il concerto però non si dimostra granché e la coppia reale abbandona il palchetto d'onore assordata dalle feroci urla dei duraniani. I quali pedinano con ossessività il gruppo al punto da costringerlo a ricorrere a un passaggio privato. Anni dopo si verrà a sapere che l'organizzazione terroristica Ira aveva messo gli occhi e pare anche qualche bomba difettosa sul luogo dell'evento.
La stampa non si dimostra tenera e riprende a punzecchiare con solerzia Le Bon e compagni. Anticipandone la fine a vantaggio dei nuovi eroi, Boy George e i suoi Culture Club, deflagrati anch'essi in tutto il globo (intanto, in piena estate, ben 18 singoli britannici stritolano la top trenta americana). E anche i colleghi non riserbano buoni complimenti: oltre il sempre polemico Midge Ure, si fanno sentire gli insulti di vecchi idoli quali Joe Strummer e Johnny Lydon, mentre Paul Weller li addita senza mezzi termini come prodotto adatto per consolidare la politica della signora Thacher. E per un Mick Jagger che si chiude in un silenzio neutrale e un Keith Richards che offre a Le Bon i migliori coltelli per potersi difendere dai nemici (!), arriva anche qualche applauso da Lou Reed, Robert Plant e Jimmy Page.
I Duran provano a rifarsi di fronte al pubblico di Birmingham, una folla di 40.000 affezionati accorsi allo stadio. Una quindicina di brani, tra i quali la nuovissima "Union Of The Snake", il cui battito ritmico si rifà dichiaratamente al groove del Bowie di "Let's Dance". Finita la breve vacanza fanno poi ritorno a Monteserrat, giusto in tempo per alimentare e portare allo scontro reciproco i propri ego ormai smisurati. Cominciano gli screzi e le ripicche. La Emi affianca a Ian Little Alex Sadkin, rinomato produttore new wave,
Ma i cinque non riescono a carburare. Decidono di cambiare nuovamente sede e se ne vanno a Camberra, Australia. Qui tra malumori e mezze risse terminano i lavori. Come titolo optano per Seven And The Ragged Tiger, dove i sette sono proprio loro, cinque più i due manager, mentre la tigre rappresenta il successo che li sta divorando. Di nuovo la propensione all'avventura, tra Jules Verne e Indiana Jones, che fa capolino. Il terzo album rappresenta da sempre lo snodo fatale per la carriera di un gruppo. Può essere la conferma dei meriti raccolti sul campo o finire in una desolante Caporetto.
L'inizio è senza dubbio galvanizzante: "The Reflex" è uno scioglilingua dotato di grande verve, una dance-song che gode delle ricercatezze sonore di Rhodes, della misura chitarristica di Andy, di una sezione ritmica strabordante eppure sempre coincisa, di un cantato che si è fatto più personale. Le Bon butta giù un testo che, lungi dal significare qualche cosa di concreto, possiede la funzionalità di sposarsi perfettamente con gli incastri ritmico melodici. Il prosieguo è affidato al crooning mai così ferryano di Simon, che disegna gli scenari notturni di "New Moon On Monday": la canzone si giova di un battito ritmico straordinariamente simile a quello che caratterizzava la "Ain't That So" dei Roxy (difatti le due canzoni iniziano nello stesso modo), di un andamento dapprima soffuso che poco a poco si inerpica fino a esplodere in un refrain che non può lasciare indifferenti. Buon incipit, dunque, ma previsioni non rispettate fino in fondo.
Da questo momento, l'album si perde in un lezioso perfezionismo che mina la riuscita dell'intero lavoro: tutto appare iper-prodotto, gelido, privo di una qualsivoglia scintilla di calore. Per la prima volta la democratica spartizione dei compiti viene meno, con Rhodes che pervade l'intero ambiente sonoro e la chitarra di Andy che ne esce offesa quando non cancellata. "Looking For Cracks In The Pavement" è una lagna che non decolla, priva di tiro, "I Take The Dice" è dominata dalle tastiere e invoglia alle danze, ma si fa subito ripetitiva, "Of Crime And Passion" riscatta gli ultimi minuti con rabbiosa convinzione, ma la sua aggressività è solo apparente e mortificata da una produzione sin troppo patinata. L'hit "Union Of The Snake" si fa apprezzare maggiormente grazie a una linea melodica di presa immediata, ma "Shadows In On Your Side", benché registrato con tutti i crismi (troppi), è solo un trascinante riempitivo. Rhodes impone l'ambient sofisticato di "Tiger Tiger", con il fretless espressivo di Taylor tra le righe e gli spazi sonori carichi di attesa e pause di silenzio di chiara derivazione eniana. Buona prova, ma l'impressione è che si voglia allungare il brodo. La conclusiva "The Seventh Stranger", inusuale ballata, riscopre per un momento comunione d'intenti e pathos dimenticato. Troppo tardi, verrebbe da dire. E la critica, infatti, non si fa attendere nel cantarle chiare: delusione, indecisione, scarsa vena, passo indietro, conferma di una mediocrità prima baciata solo dalla buona sorte, sono questi in concetti più ricorrenti. E' come se i Duran avessero legato le proprie ambizioni, confezionando un lavoro adatto a tutti ma privo di sorprese e di canzoni memorabili. Fine della storia quindi... Non proprio. Il pubblico inglese spedisce il disco in cima, l'Europa fanatica applaude con la stessa intensità. E mentre "Union Of The Snake" si posiziona al terzo posto su ambedue le sponde anglofone dell'Atlantico, "Seven..." irrompe nella top ten statunitense.
E' il terzo album su tre incisi capace di conquistare nella stessa stagione il pubblico americano. I Duran festeggiano organizzando un mega-tour che prende il via da Australia e Nuova Zelanda, finendo per far esplodere le arene inglesi (con cinque serate tutte esaurite alla Wembley Arena di Londra a ridosso delle festività natalizie).

1984: The Reflex, il boom di Arena e la rottura del giocattolo

Quando il 1984 si apre, i cinque sono pronti a sferrare il colpo decisivo. La Emi diffonde i dati di vendita globali: l'album di debutto ha conquistato due milioni e mezzo di persone, Rio ha sfondato il tetto dei cinque milioni, Seven... ne ha totalizzato quasi due in un mese! Il Parlamento inglese li ringrazia pubblicamente con un'onorificenza che testimonia l'aiuto che i Duran stanno dando all'economia di Sua Maestà. Intanto anche il Sol Levante si inchina di fronte al fascino di Simon e soci e, a fine gennaio, tutto è pronto per la parentesi più lunga del giro del mondo: 54 date nelle arene nordamericane, in spazi che possono contenere di volta in volta dai 10.000 ai 20.000 esagitati. Il circo allestito e sponsorizzato dalla Coca Cola prevede anche l'utilizzo in pianta stabile di un mega-schermo che renda accessibili le movenze della band anche da distanze siderali. Tappe di autentico delirio si succedono, da Seattle a Los Angeles, da Chicago a Pittsburgh. E finalmente si avvera uno dei sogni adolescenziali di Rhodes e Taylor: suonare al Madison Square Garden di New York. Due esibizioni e 40.000 biglietti che spariscono in un attimo. Il fido Mulchay li filma in attesa di raccogliere le immagini un documentario celebrativo.
L'industria discografica americana li premia con due Grammy Award, ma i Duran non sono presenti alla cerimonia perché impegnati on the road. La Emi rilascia il secondo singolo, "New Moon On Monday", top ten in America e in Inghilterra, con la compagnia di un video girato in Francia con il quale i Duran vorrebbero descrivere la ribellione giovanile che sfocia nella rivolta. Un omaggio al '68 francese? Ma il clip, in pratica un cortometraggio di 15 minuti, soffre di pretestuosità e delude le aspettative, soprattutto quelle dei protagonisti.
Acclamati e venerati, i cinque di Birmingham devono però far fronte alla prime controverse delusioni di una giovane carriera: Seven..., dopo i primi trionfi pare eclissarsi e abbandonare i vertici alti delle classifiche. Una debacle che provoca qualche chiacchiera. Il gruppo ha forse raggiunto il proprio zenith? Non ancora. Durante una delle due tappe al Madison newyorkese Simon introduce Tony Thompson e Nile Rodgers in qualità di special guest, annunciando tra le righe che il leader degli Chic ha appena finito di remixare il nuovo singolo "The Reflex". Il 45 giri, che sul retro mostra i cinque impegnati sui palchi londinesi del 1982 in una movimentata versione della "Make Me Smile" che fu di Steve Harley and Cockney Rebel, è animato da uno scioglilingua iniziale di rara presa e contornato da una mistura di suoni campionati. Fa il suo ingresso nei negozi all'indomani della fine del tour americano che ha visto partecipare 600.000 persone. Ed è il boom. Totale quanto inaspettato in queste dimensioni. Il dischetto raggiunge la cima delle chart inglesi e vi rimane per un mese e mezzo. Subito dopo il singolo si arrampica anche sulla vetta delle classifiche americane ed esplode in ogni dove vendendo oltre tre milioni di copie. E si porta dietro l'album che, improvvisamente rigenerato, riappare nelle top ten mondiali.
Quando tutto questo accade, i Duran (che di lì a poco festeggeranno i fastosi matrimoni di Roger e Nick) sono in studio, a Londra, intenti nella registrazione di un nuovo 45 giri. Poco più di tre minuti nati e cresciuti tra dispetti e musi lunghi. Si intitola "Wild Boys" e le liriche prendono corpo da un racconto omo-erotico firmato William Borroughts. Ma è soprattutto un episodio che comporta una svolta stilistica nello stile del gruppo. Al principio pare quasi di trovarsi di fronte a un brano heavy: su una pulsazione ritmica che omaggia la "Relax" dei Frankie Goes To Hollywood si stagliano i synth minimali e profondi di Rhodes, il basso cupo di Taylor e delle svisate di chitarra che così roboanti non si erano mai udite in ambito duraniano. Ma quello che fa realmente la differenza è l'interpretazione fornita da Simon Le Bon, appassionata, calda, rude, urlata allo spasimo. In realtà la canzone è di una semplicità banale quanto efficace, tra cori e un recitato che sembra quasi propedeutico a un ritornello che esplode all'improvviso. Un urlo che travolge una generazione senza avere in realtà niente di importante da dire. Quello che conta è l'effetto finale, che ha come fonti ispirative la rabbia formato Mtv mostrata in quei mesi dall'amico Billy Idol. Synth-rock da classifica, prodotto e suonato con tutti i crismi, ma soprattutto interpretato con grande convinzione. Una canzone da sabato sera che espugna anche le ultime resistenze dei più ritrosi alla duranmania. Esce a fine ottobre del 1984 in tutto il mondo e non trova concorrenti. Numero due su entrambe le sponde dell'Atlantico, permette al gruppo di sfondare definitivamente sul mercato tedesco e più tardi anche dalle nostre parti.
Il singolo funge da apripista all'ennesimo colpo di genio mediatico dei Duran: un album live che ripercorre tre serate californiane in quel di Oackland, quasi 50.000 fan in delirio, una scenografia decadente contornata da colonne romane, per un gruppo che ha maturato una coesione invidiabile. Prodotto dagli stessi Duran e mixato sapientemente con l'ausilio di Jason Corsaro, Arena irrompe nei negozi sul finire di novembre, accompagnato da ben due film, la riproposizione video dell'album, con l'aggiunta di "Rio" e "Girls On Film", intitolata "As The Lights Go Down", e il documentario "Sing Blue Silver" con il tipico taglio da dietro le quinte. Il disco, che opta intelligentemente per il formato singolo, purifica il suono della band dalle frementi urla del pubblico e fa esplodere le reali potenzialità del complesso, così sacrificate dall'iper-produzione di Seven And The Ragged Tiger. Nove canzoni, con l'aggiunta di "Ragazzi Selvaggi", che rifioriscono e acquistano un'inedita vitalità pur senza mai scegliere la via della riscrittura in toto. "Is There Something..." opta per un soluzione più energica rispetto all'originale, con la batteria di Roger che mai si era udita così potente, la perfetta coesione con il basso di John Taylor, probabilmente il principale protagonista strumentale dell'operazione, le tastiere massicce ma sempre sobrie, la chitarra di Andy che, sebbene controllata, stavolta si sente eccome.
Il finale, percorso da una tensione epica inaspettata, è decisamente travolgente. "Hungry Like The Wolf" perde i connotati adolescenziali per mascherarsi da fremito synth-rock'n'roll. "New Religion" trova finalmente la sua reale dimensione, in un crescendo ritmico-melodico prima solo accennato. E i controcanti, stavolta affidati alle ex coriste degli Chic, funzionano alla grande. "Save A Prayer", "Seventh Stranger" e "The Chauffeur" beneficiano delle corde vocali di Simon, mai perfette, ma calde, versatili e uniche. "Union Of The Snake" suona rock, ma non abbandona la discoteca, "Planet Earth" e "Careless Memories" non hanno quasi più niente dell'ingenuità new romantic mostrata quattro anni prima, con la seconda che appare quasi trasfigurata da un'interpretazione al cardiopalma.
Sotto l'albero di Natale ci si accorge con qualche sorpresa che i Duran, ormai votati a una dimensione americana, sono ora il gruppo più famoso del pianeta Terra, una conferma ai propositi espressi da Le Bon all'inizio dell'anno olimpico "L'obiettivo è la dominazione del mondo". Quello che pochi sanno è che il complesso non esiste più, al di là delle dichiarazioni di circostanza, franato sotto il peso del successo, diviso in tronconi che sembrano non avere più niente a che vedere l'uno con l'altro, proiettato verso nuove e non più comuni soluzioni musicali.

The most famous band in the world, Power Station, Arcadia, 007 e uno strano incidente in barca

Ma qualcosa sta cambiando nel dorato mondo del pop anni 80: sembra che qualcuno ne abbia le tasche pieno di disimpegno, jet set e individualismo. Bob Geldof si commuove di fronte alle immagini trasmesse dalla Bbc che raccontano gli stenti degli abitanti del profondo continente africano. Telefona a Midge Ure, si confida e lo invita a scrivere un brano a quattro mani. "Do They Know It's Christmas" è il messaggio che il parlamentino del nuovo rock inglese invia al mondo. Basta chiudere gli occhi, qui c'è gente che muore di fame mentre noi spendiamo un mucchio di soldi in droghe! Detto fatto il 45 giri, un innocuo pop sintetico dai connotati corali ed epici, entra nelle case di svariati milioni di utenti in tutto il globo che, come ricompensa, fanno affluire nelle casse milioni di sterline da utilizzare per il bene dell'umanità meno abbiente.
Nella session si alternano i nuovi idoli del momento: Paul Young dà il via con la sua voce stentorea, prosegue il tono squillante di Boy George che culmina nella potenza soul di George Michael. A questo punto la palla passa a Simon Le Bon, che si divide il microfono con Sting e un rabbioso Bono Vox. Un successone, con Phil Collins che doppia il ritmo della drum machine ben coadiuvato da John Taylor al basso. I quotidiani sottolineano come le riprese del video mostrino un Le Bon a occhi chiusi, visibilmente commosso. Sarà lo stesso cantante a rivelare di essere stato in difficoltà causa un soffio di coca volatogli sul viso...
Intanto i Duran sbancano le chart di mezzo mondo. A gennaio Arena è l'album più venduto del momento, a marzo la Emi diffonde cifre da capogiro: in poco più di tre mesi l'album ha diffuso quasi quattro milioni di copie nelle camerette di ogni dove. In America raggiunge la quarta posizione, guadagna un doppio di disco di platino e costringe la casa discografica a realizzare la versione live di "Save A Prayer" a 45 giri. Durante l'ennesimo giro promozionale, i cinque capitano in Italia, dove peraltro si erano presentati più volte di fronte alle telecamere televisive. Questa volta il palcoscenico è quello del Festival di Sanremo. Tre serate a ritmo di "Wild Boys" e lo Stivale si ammala di fanatismo. La vicenda duraniana rapisce media e pubblico, e diviene uno dei temi più discussi. Anche a livello sociologico. Arena e il singolo selvaggio si impossessano della cima delle classifiche per settimane, mesi. Alla fine il live rimarrà tra i primi venti per quasi un anno. In quei giorni, intanto, John e Andy Taylor sostano ai Power Station Studios di New York, intenti a rifinire gli ultimi particolari di un misterioso album che vede tra i protagonisti anche Robert Palmer, Tony Thompson e Bernard Edwards, drummer e bassista degli Chic, rispettivamente alla batteria e alla produzione. Tutto sembra nato casualmente da un incontro risalente alla tournée americana del 1982, tra i due Taylor capelloni e il duo più chic del reame. Complimenti reciproci, telefonate di auguri di compleanno e di Natale e l'affare decolla sul serio.
La frustrazione di John e Andy, incastrati in un ingranaggio tanto dorato quanto avvilente per chi si sente musicista più che modello di Vogue, era salita alle stelle. John prende in mano la situazione, crede di poter far risorgere l'ardore primigenio ormai annacquato. Vira su un soul-funk condito da rock'n'roll piuttosto duro. Al principio pensa a un lavoro dove ogni brano debba essere cantato da star curiose: Bowie, Jagger, Billy Idol, Richard Butler. Poi Palmer risolve la situazione, scrive i testi, registra le basi e vola a New York per il fatidico incontro. Il 17 febbraio il quartetto, denominatosi Power Station, compare a sorpresa durante una diretta del "Saturday Night Live", suona due brani, il singolo apripista "Some Like It Hot" e una rivisitazione heavy della "Get It On" che fu di Bolan. I due Taylor si presentano agghindati da rocker fintamente slavati, Thompson è addobbato come un vero Duran, Palmer, in doppio petto con cravatta, pare appena uscito da una seduta di Wall Street. Se la ridono, regalano una performance energica e tecnicamente perfetta. L'indomani i giornali strillano lo scioglimento dei Duran.
Il dado è tratto: John ammette di essere rinato, contento di non dover pensare sempre e solo al prossimo taglio di capelli ("Non sono il più bello dei Duran, sono solo il più disponibile...", ma anche "300 anni fa saremmo stati dei buffoni di corte, oggi casualmente siamo delle popstar"), Andy alimenta la su fama di scavezzacollo prestato alle classifiche, i fan cominciano a preoccuparsi. A marzo la Emi rilascia il singolo di "A Qualcuno Piace Caldo", una cavalcata ritmica con Thompson e JT che si incastrano mirabilmente, Palmer che sincopa erotico in uno stile vocale più deciso, Andy che si lancia un effettato solo in stile Van Halen. E in America gioiscono non poco: critiche entusiaste, sorprendenti e sperticati elogi ai due Taylor. L'album omonimo Power Station contiene nove brani, caracolla tra citazioni e vecchie passioni, appare compatto nel suo smaccato rincorrere tentazioni funk, blues, rock e soul, gode di una produzione accurata che esalta la vena esecutiva del quartetto.
Dopo la citata opening track, il 33 giri fa esplodere Andy nell'irruenta "Murderess", mostra il grande impatto ritmico ovunque, soprattutto in "Lonely Tonight", nel funky-disco a presa istantanea di "Communication", nell'andamento ansimante di "Go To Zero". Scatena la bolgia nella torrenziale versione hard di "Get It On", con tanto di doppio assolo basso-chitarra, fotografa con flash il duetto vocale tra Andy e Palmer nella cover di "Harvest For The World" degli Isley Brothers, Chiude con il lentone sofisticato di "Still In Your Heart", che fa molto New York in notturna con tanto di grattacieli illuminati e solo di sax in coda. Mica male, insomma. E in America il lavoro ottiene un ottimo riscontro mercantile: top five e disco di platino. Ma soprattutto la folla che richiede un ennesimo giro di concerti. Palmer si tira indietro e va a registrare "Riptide" (con Andy Taylor tra i protagonisti), ovvero quello che sarà uno dei cinque dischi più venduti al mondo nel 1986. John Taylor lo sostituisce con una vecchia volpe del rock, il signor Michael De Barres, marito di Pamela, la groupie più celebre di tutti i tempi, sorta di mix vocale tra Rod Stewart, Peter Wolf e lo stesso Palmer.
Ma intanto in casa Duran l'hanno fatta grossa: una sera il solito John vaga sbronzo in uno degli innumerevoli party della sua vita. Sbanda su Albert Broccoli, il produttore della saga di 007 e gli dice: "Ciao sono JT dei Duran. Quando ti decidi ad avere un bel tema sonoro per i tuoi film, perché gli ultimi erano veramente terribili!?". Broccoli, pacato: "Ok, John, può essere la tua occasione, parliamone".
I Duran si ritrovano in studio un po' annoiati, si scontrano con John Berry, titolare delle soundtrack di James Bond, finisce male, lavorano separati dal compositore e tirano fuori "A View To A Kill", definitivo approdo della formula inaugurata con "Is There Something...": un synth-pop-rock aggressivo, con un retrogusto drammatico, come si conviene a un vero sonoro da spy-film, un inciso dove le parole si legano ai suoni, un ritornello ben disegnato e galvanizzante, un esecuzione pulita e minimale. Come sempre. Dominatore sonoro è ancora una volta Rhodes che prova a chiamare in sede di produzione l'idolo Brian Eno. Niente da fare, ci pensa di nuovo Edwards a esaltare le qualità armoniche del gruppo. Lo fa bene e il singolo cattura ancora una volta le attenzioni del pubblico: numero uno in Europa, tranne che in madre patria, dove deve accontentarsi della piazza d'onore, battuto dalla "19" di Paul Hardcastle. Negli Stati Uniti rimane tutt'ora l'unica canzone tratta dalle vicende di James Bond ad aver conquistato la vetta delle chart.
A Parigi girano sulla Torre Eiffel un video dalla trama convenzionalmente spionistica. Ma proprio nella capitale francese Rhodes, Le Bon e il Taylor dei tamburi si sono rintanati per realizzare un nuovo progetto a loro accreditato. Liberi da pressioni commerciali, da contratti troppo frenetici, i tre rallentano il ritmo. Anche nella struttura dei brani. Che si fanno più dilatati, atmosferici. Tutto è ancora avvolto nel mistero, nessuno parla.
Ma l'Africa chiama e il pop risponde: Geldof organizza il Live Aid, mega-concerto in diretta via satellite, tra Londra e Philadelphia, con una marea di star che si rincorrono, fanno sognare e spingono a versare anche un bel po' di quattrini. Serve anche l'aiuto degli sponsor, i quali chiedono: "I Duran saranno della partita?" "Certo", risponde Geldof. Peccato che i Fab 5 non ne abbiano la minima intenzione. Geldof tratta e poi ammette: "Ragazzi, se suonate riceviamo dieci milioni di dollari in più". E Le Bon e soci ci vanno. Saliranno sul palco americano sul finire, tra le attrazioni più attese, con il singolo di James Bond al numero uno, stritolati tra Led Zeppelin e Mick Jagger. Provano a mettere insieme una manciata di note dopo un anno e mezzo di lontananza dall'ultimo concerto. Durante il pomeriggio i due Taylor più irascibili si mostrano con i Power Station con i quali stanno mettendo a ferro e fuoco l'estate americana. Poi, eccoli, alle dieci di notte, timorosi ma orgogliosi, quasi sfrontati. O stralunati... John Taylor guarda nel vuoto (o forse pensa alla sua nuova fidanzata, Renée Simonsen, ovviamente senza niente sotto il vestito...), Andy svolazza in stato di trance agonistica da heavy-metal kid, Rhodes ha i capelli nerissimi, Roger pesta ma non si ritrova nella sintonia generale. E Simon non sta un attimo fermo. Non è la serata più adatta per lasciarsi andare a commenti artistici. All'inizio sembra andare tutto per il meglio, poi Le Bon incespica abbastanza clamorosamente sull'acuto finale di "A View To A Kill" e tutto un mondo dorato si dissolve. Da questo momento, senza accorgersene, i Duran imboccano la china che porta al declino. Artistico, ma soprattutto commerciale. E a nulla servono le esecuzioni più tranquille di altre tre canzoni.
Spente le luci, i cinque neanche si salutano e fanno ritorno alle loro separate attività, l'album parigino e il tour americano. E le feste americane. Che John e Andy apprezzano alquanto, vivendole in maniera dissoluta. Donne, droghe, acquisto di appartamenti, concerti a sorpresa in disco-club in compagnia di amici come Billy Idol, Jeff Beck, Psychedelic Furs. A tal proposito si racconta che Andy Taylor passi un'intera notte di alcol in compagnia del suo idolo Keith Richards, con la bandiera bianca, e conseguente ritiro, sventolata dal chitarrista degli Stones!
ArcadiaIn piena estate si viene a sapere che l'album imminente dei tre "parigini" si intitolerà So Red The Rose accreditato al nome di Arcadia. Durante la fase di missaggio, Le Bon prende la sua barca a vela e, invece di godersi un bel cocktail a bordo, decide di iscrivere se stesso e l'equipaggio alla "Whithead Round The World Race", la gara più sfiancante in giro per i mari del mondo. Per allenarsi sceglie le acque della Gran Bretagna. Così una bella mattina, a pochi chilometri dalla costa, la barchetta, denominata Drum, vede spezzarsi l'albero e si capovolge, imprigionando il cantante e la sua truppa sott'acqua, salvi per effetto di una bolla d'aria. Un'ora dopo, un'ora di terrore, arrivano i soccorsi e Le Bon se la cava per il classico pelo. A terra riabbraccia la nuova fidanzata, si asciuga le lacrime e poi sfida la stampa: ci riproverà...
A settembre la Emi dà alle stampe il singolo "Election Day", dance-song ambiziosa che si appoggia su una melodia di synth che richiama i Metro di Peter Goodwin come pure i sempiterni Roxy e, perché no, i più recenti Yes. Dentro sapori mediorientali, il cantato di Simon votato a inusuali equilibrismi, la ritmica sostenuta dall'egregio tempismo di Roger Taylor e di Carlos Alomar alla chitarra. In coda un lungo solo di sax cortesemente offerto da sua maestà Andy McKay. Pop di classe, elegantemente movimentato. Il suono nello spazio di un anno si è fatto più corposo, qualcuno direbbe maturato. A suggerire le direttive un Nick Rhodes assai lucido e determinato. Soprattutto non condizionato da pressanti esigenze di mercato. E' tempo di lasciare le briglie sciolte alle proprie fissazioni, all'indole sperimentale troppe volte frenata. Chi se ne frega se alcuni parleranno di autoindulgenza.
L'album, composto da otto canzoni, più un piccolo frammento strumentale ad aprire la seconda facciata, prosegue con "Keep In The Dark" che disegna su una ritmica modern-funky paesaggi sahariani e mostra la sofisticata ma decisa coesione tra batteria e il basso di Mark Egan, fusionista già compagno di viaggio di Metheny e Davis. Le sue linee fretless rievocano l'esempio di Mick Karn e dei suoi Japan. "Goodbye Is Forever" è un altro pop-funky sincopato, ma non fastoso, con le tinte dark che si fanno sempre più protagoniste. "The Flame", con in apertura un recitato firmato da Grace Jones, ritorna per un attimo alla discoteca senza peraltro mancare l'appuntamento con il mistero. "Missing", registrata addirittura in presa diretta, precipita il disco in un ambient onirico, sussurrato, esotico. A condividere la sei corde di Alomar si sono intanto avvicinati anche David Gilmour e Masami Tsuchiya, con McKay che continua a soffiare qui e là l'anima. L'aspetto percussivo, oltre ai tamburi di Taylor, è affidato a due adepti all'Africa metropolitana di David Byrne, i signori Rafael De Jesus e David Van Thiegen. Un incipit virtuosisitico ai synth inaugura invece l'imperiosa "The Promise", epica ballata roxyana, solcata in più frangenti da break strumentali, con l'accompagnamento al piano di Herbie Hanckok, la chitarra struggente e liquida di Gilmour, i controcanti di Sting. Un Simon melodicamente ispirato si cala per la prima volta e in maniera diretta nei problemi che affliggono il mondo, McKay e un "pastourioso" Egan duettano a più non posso.
"El Diablo" parte con una linea di flauti andini e si sviluppa in una pop-song epica e articolata, con fraseggi acustici di chitarre sudamericane, anche in questo caso più votate alla malinconia che alla festa. Il finale è affidato alla lunga e glaciale "Lady Ice", sinistra e innervata di tastiere invernali, con il cantato di Simon che passa da toni tenui e distaccati alla decadenza più disperata. Durante gli oltre 40 minuti dell'esperienza, Rhodes domina lo spettro sonoro preferendo per la prima volta la realtà digitale a quella classica dell'analogica, che comunque non viene del tutto estromessa. La produzione di Alex Sadkin, pur perfetta, questa volta non sacrifica un'oncia dell'emozione.
A oltre vent'anni di distanza se qualcosa soffre la prova del tempo non è il convincente songwriting, bensì il suono ormai appassito del Fairlight, all'epoca massima espressione della tecnologia musicale. Ma Rhodes ha centrato il punto culminante delle proprie ambizioni, libero dalle catene rock e più ruvide dei transfughi Andy e John. Un lavoro convincente che cementa la fratellanza tra Le Bon e il tastierista, ma non riceve una buona accoglienza dalla stampa. Le recensioni, critiche quando non caustiche, accusano la palese imitazione di schemi roxyani e japaniani, la pretestuosità delle composizioni, la prolissità del risultato. Ma soprattutto il tradimento della linea madre. In realtà l'album rimane duraniano nel cuore, solo sposta l'ottica su un versante più atmosferico e meno epidermico. Anche il pubblico rimane disorientato, e dopo un debutto convincente, con il singolo top five in Usa e in buona parte d'Europa, il disco segna il passo. Non supera il numero trenta in Inghilterra, il numero venti in America, dove pure raggiunge alla fine il disco di platino, non cattura le attenzioni durature del fan dedito alla discoteca e al sabato sera. Nessuna tournée per gli Arcadia, bensì un giro promozionale globale in formato playback. Mtv concede al duo una serata di presentazione, una stanza bianca dove Rhodes e Le Bon spiegano i loro perché, mentre l'amico Keith Hearing riempie l'ambiente con i suoi graffiti. Giungono anche in Italia nel mese di dicembre, con cinquemila fan che stringono d'assedio il Teatro delle Vittorie a Roma, blindato per una comparsata a "Fantastico".
Tra voci e sussurri, a fine anno i Duran annunciano in una conferenza, con Roger assente, un concerto da tenersi il 27 dicembre a Los Angeles in diretta tv mondiale. Ma l'affare non va in porto. E Le Bon ne approfitta per convolare a clamorose e segrete nozze con una modella di origine iraniana.

1986-1994: dalla scissione al ritorno in formato ridotto, da Hitchock ai matrimoni

Con l'album degli Arcadia che arranca nelle classifiche, mentre la presenza mediatica del nome Duran Duran si fa invece insostenibile, in quel di New York Nick e Andy si ritrovano per cominciare a buttare giù le prime idee di un fantomatico ritorno su cui la gente comincia a dubitare non poco. John Taylor, da parte sua, registra una canzone per la colonna sonora del fenomeno cinematografico dell'anno, "Nove Settimane e Mezzo": suona e se la canta pure nella tenebrosa ed erotica "I Do What I Do", synth-noir elettronico e pulsante con vocalità ferryane.
Ad aprile arriva il primo shock: Roger Taylor, sfinito dallo stress, entra in paranoia e molla il colpo. Meno uno. Il batterista fa perdere le proprie tracce, si compra casa in campagna e comincia a coltivare il grano. Il gruppo è nei casini, la Emi seriamente preoccupata. John Taylor prende in mano la situazione: rintraccia il nero Steve Ferrone, virtuoso dei tamburi, gli offre una cospicua somma e lo assolda. Le Bon, invece, è impegnato con la sua barca nella lunga regata della Whithead. Dopo qualche mese riapproda in Inghilterra e si accorge di essere arrivato terzo. Applausi e pacche sulle spalle, ma la Emi non si commuove e intima al cantante di correre in studio. Agli Air di Londra ad attenderlo ci sono Nick, John, il produttore Nile Rodgers, Ferrone, ma non Andy. Il chitarrista firma due synth-rock divertenti ma trascurabili, "Take It Easy" e "When The Rain Comes Down", e pare seriamente intenzionato a portare a termine un album solista. Viene richiamato dagli avvocati. Lui risponde e porta i suoi legali. Consiglia lo scioglimento del gruppo. Lo mandano al diavolo. Lui li denuncia e mina per settimane le registrazioni del nuovo disco duraniano. Meno due. La sei corde viene affidata allo stesso Rodgers, ma in studio pare accorra anche Steve Stevens. Anzi, si vocifera che la sodale spalla di Billy Idol voglia mollare il patinato punk per unirsi alla famiglia Duran. Il posto se lo prende però Warren Cuccurullo, italo americano, già con Zappa nonché axe man degli appena disciolti Missing Persons.
A Ferragosto si diffonde la voce che l'agognato disco si chiamerà Notorious, omaggio esplicito al vecchio Alfred. Il 20 ottobre 1986 appare nei negozi il singolo omonimo: un pop-funky tirato, pulito ma non freddo, meno ricco di colori e dall'esecuzione secca.
Una canzone che poco ha a che vedere con il passato dei tre di Birmingham. L'agile impostazione funky si palesa nel batterismo magistrale di Ferrone, che fa decollare una ritmica in cui il basso di Taylor si fa più minimale, con staccati rigorosi e pulsanti. Le tastiere di Nick sono totalmente nere e mai sovraccariche, la chitarra è in stile Chic. Completano il tutto fiati veri (dei Borneo Horns) e artificiali e un Le Bon che ritorna ai fasti nasali pur sporcandoli in omaggio alla tradizione soul. Un anthem con una buona strofa e un ottimo ritornello. E anche le discoteche sono accontentate. Il video a completamento disegna paesaggi in bianco e nero, con una fotografia sgranata.
Il 24 novembre viene dato alle stampe l'album. Dieci canzoni che dovrebbero rappresentare la definitiva consacrazione, la maturazione tanto chiacchierata. Invece è un passo falso. La produzione di Rodgers e la situazione di sbando interna stritolano la resa finale del lavoro. Che è formalmente perfetto, ma dimentica quasi tutto ciò che di buono si era fatto. Compreso lo stile. Dopo la notoria apertura si prosegue con il bel pop di "American Science", basso melodico in evidenza, drum machine e batteria, tastiere penetranti ed evocative, cantato da soulman bianco di Le Bon. Due break di chitarra heavy fischiante sanciscono il saluto di Andy. "Skin Trade" smaschera definitivamente il proposito dei nuovi Duran: copiare i Power Station e le varie maschere che hanno fatto grande la musica black. Simon in falsetto spiazza tutti e fa il verso a Curtis Mayfield e Prince, Ferrone domina e si trascina un Taylor convincente anche se non appariscente, trombe e i fiati sintetici di Rhodes ricamano il tutto, Cuccurullo smista tra funky e disco. In mezzo anche un mini solo di batteria. Si continua con una ballata, "A Matter Of Feeling", malinconica e un po' lagnosa, con Taylor che puntella sul quattro corde e Simon che canta un discreto ritornello. Banale e poco sviluppata appare invece "Hold Me", con un refrain che si basa su un riff, chitarra in power-chord, aggressività rock stemperata da una produzione necessariamente più pop.
La seconda parte prende il via con il pezzo più bello del lotto, "Vertigo (Do The Demomlition)", altro scoperto omaggio al cineasta: melodia ipnotica, ritmica danzante sintetica ma assai calda, Rhodes che riscopre antiche passioni, Le Bon egregio nel suo equilibrio vocale instabile ma sempre efficace, quando non imita gli altri... "So Misled" invece non può neanche essere considerata una canzone nel vero senso del termine, sorta di mero esercizio di stile ritmico, una sorta di riscaldamento per Taylor e Ferrone che si divertono non poco. Gli altri perdono tempo. "Meet El Presidente" viceversa è un tirato r'n'b che più nero non si potrebbe da queste parti: ritmica sostenuta, Taylor on slapping, Simon carico e caliente. Qui e là appaiono anche riferimenti latineggianti. La sbornia danzante cessa all'improvviso e si perde nella spettrale ballata "Winter Marches On", con tastiere glaciali degne della disintegrazione che sarà di Robert Smith. Il basso sostiene, Le Bon interpreta non benissimo il tutto. Il finale è affidato al più brutto episodio della collezione, "Proposition", aggressiva ma volgare funky-soul-dance, dove Le Bon crolla e gli altri pur impegnandosi non incidono.
Anche se accompagnato dagli applausi della critica il disco mostra sulla lunga distanza la corda e non scalda le classifiche. Di fatto è il primo album duraniano che non vende. E non crea neanche le suggestioni fanatiche di un tempo. Il prestigio del gruppo è minato, ma qualcuno fa finta di niente. La prima punizione arriva dalla Gran Bretagna che relega Notorious in 16esima posizione e fuori dai cento in poco più di un mese. Il singolo omonimo tiene invece a galla la leggenda e avvolge l'Europa, fermandosi al numero due in America. Nel paese di Reagan i Duran ripartono all'interno di un panorama cambiato repentinamente: a un certo punto nei primi trenta dischi più venduti ci sono solo due nomi inglesi, i Genesis e appunto i Duran. La British invasion si è dissolta. L'album arriva sino al numero 12 e conquista il disco di platino, placando in parte i mugugni. Ma la pubblicazione del singolo "Skin Trade" e il suo insuccesso riacutizzano le difficoltà.
Dopo un'intensa attività promozionale radiotelevisiva, i tre sopravvissuti partono per un tour di 100 date. Cominciano dal Giappone e tutto va bene, quando non alla grande. Vorrebbero proseguire in Australia, ma cambiano idea. Troppi biglietti sarebbero rimasti invenduti. Approdano allora in Europa e riempiono, tra alti e bassi, arene e stadi del Vecchio Continente. Il finale porta il complesso anche dalle nostre parti, per un giro epocale di dieci giorni. Sette stadi per altrettante città, Palermo, Bari, Cava dei Tirreni, Roma, Modena, Milano e Firenze. Duecentoventimila persone complessive, ma anche biglietti invenduti. Delusioni arrivano da Bari e Cava, buone notizie dai 40.000 fan di Roma e Firenze e dai 50.000 e più in quel di San Siro. Sul palco l'impostazione nera viene esaltata da una sezione fiati, due coriste, un Ferrone leader oscuro, sui cui colpi Taylor si esalta, la chitarra elettronica di Cuccurullo in bella presenza. Al resto pensa la verve di Le Bon, con meno fiato e meno movenze di un tempo, ma più consapevolezza dei propri mezzi. I brani stessi ne escono modificati, rallentati, votati persino a qualche sprazzo di improvvisazione.
Sono invece 34 i concerti americani, accolti con buona partecipazione, con tappe deliranti al Madison di NY, al forum di Los Angeles, a San Francisco, ma anche qualche buco neppure tanto isolato. In Canada si accodano all'orribile "Glass Spider Tour" di Bowie, al Beacon Theatre di New York chiudono chiamando sul palco Lou Reed per un memorabile (soprattutto per loro) duetto sulle note di "Sweet Jane".
Ritornati a casa i tre si accorgono che i conti non tornano. L'esito del terzo singolo è stato fallimentare. Vacanze e poi si ritorna al lavoro.
Parigi è la meta designata, con i tre sempre accompagnati da Ferrone e Cuccurullo, ma non da Rodgers. Il disco se lo produrranno da soli, con l'aiuto di Daniel Abhram e Jonathan Elias. Intorno curiosità ma non certo l'attesa fremente di un tempo. E mentre qualcuno scommette sulla conferma della propensione americana, i Duran si riappropriano dei loro suoni. Nel settembre del 1988 nei circuiti televisivi mondiali fa la sua prima apparizione il video che accompagna "I Don't Want Your Love", dance-song semplice e coinvolgente che svela suggestioni house. Ritmica marcata e sintetica, tastiere che doppiano e triplicano ogni intervento, ritornello corale. A metà un break, con la chitarra super distorta di Chester Kamen sparata in primo piano che sorprende.

Neanche un mese dopo ed è la volta dell'album. Si intitola Big Thing, non è proprio una grande cosa ma un passo avanti sì. Un ritorno allo spirito europeo, più congeniale e appropriato alle vicende artistiche del gruppo. Si parte subito in quarta con la title track: le martellate di Ferrone percuotono e introducono un uptempo sincopato, con la voce di Le Bon quasi recitante, il basso di Taylor che si muove per ottave, un ritornello ampio e convincente. Dopo il risaputo singolo, arriva "All She Wants Is" con le sue tentazione tecnocratiche aggiornate all'era house-music, le tastiere di Rhodes che modellano insieme alla chitarra frippiana di Cuccurullo un brano non commerciale ma avvincente. Si prosegue con la morbida "Too Late Marlene", ancora synth in versione vellutata in primo piano per una semi ballad elegante. "Drug (It'Just A State Of Mind)" finisce dritta dritta in discoteca con i suoi ritmi frenetici. La resa finale è però un po' banalotta.
La seconda parte dell'album è diametralmente opposta. Lo dichiara subito "Do You Believe In Shame", sussurrata ballad dedicata alle vergogne di amicizie disattese. La strofa plagia, chi sa quanto consapevolmente, la "Susie Q" dei Creedence Clearwater Revival. "Palomino" è un altro pulpito meritato alla vocalità sentita di Le Bon, con Rhodes e Cuccurullo che giostrano tra effetti elettronici e atmosfere quasi ambient. "Land" è un altro lentone suggestivo con chitarra acustica incorporata, cori e un ritornello cattura fiammelle. In "Edge Of America" Le Bon se ne esce con una critica nemmeno tanto metaforica all'imperialismo americano, all'interno di una struttura delicata, dove l'elettronica imperante lascia ancora spazio alle chitarre controllatissime ed evocative di Cuccurullo. Si chiude in maniera chiassosa con "Lake Shore Driving", strumentale energico privo di idee ma non di entusiasmo.
Buon lavoro nel complesso, ma il popolo non sembra interessato. Il singolo apripista spinge di nuovo i Duran nella top five americana, ma l'album non va oltre il 15° posto in Inghilterra e il 25° negli States. Discreto il risultato del secondo 45 giri, "All She Wants Is" (accompagnato da un video avveniristico), top ten in madre patria e in giro per l'Europa. Pochi applausi viceversa per la terza release "Do You Believe In Shame" (con un altro bel clip metropolitano e misterioso girato dall'emergente Chan Keige), subito fuori dai giochi.
I Duran, però, vogliono suonare: imbastiscono così un tour che prende il via a ottobre e si concluderà solo nel mese di luglio. Ma anche il giro concertistico conferma gli alti e bassi del momento. Sold-out e cancellazioni si susseguono. In America i Duran provano un warm-up nei club, ma poi si accorgono che le arene non riescono più a riempirle. In Italia si arriva a trasmettere la semi-diretta di un loro concerto milanese, ma davanti agli schermi si avventurano solo un milione e mezzo di persone. E' un peccato perché sul palco il complesso non è mai stato così convincente. La verve soul-funk è stata mitigata, ma i fiati sono rimasti, ci sono però più tastiere e anche la chitarra sofisticata se ne giova. La batteria è finita nelle mani di un giovane session-man, Sterling Campbell, nero e potentissimo. Lo stesso Taylor al basso regala ottime quando non eccellenti prove. Peccato solo che Le Bon sia giunto al momento più basso della sua carriera: gli abusi hanno minato le corde vocali, che faticano a esplodere e spariscono per lunghi frangenti.
Nei camerini la situazione conferma la vertigine da montagne russe: Taylor, mollato dalla bella Renée Simonsen, cade in depressione, nella droga e nella moltitudine di braccia femminili disposte ad accoglierlo. Il matrimonio di Rhodes avverte le prime crisi. Nel tardo autunno nei negozi appare l'album "Requiem For The Americas", lavoro concepito da Johnatan Elias in onore e a supporto delle popolazioni indiane d'America. Protagonisti del disco, fra gli altri, Jon Anderson, Stewart Copeland, Tony Childs, Tony Levin, la voce di Jim Morrison che recita due poesie inedite, gli stessi Duran. Un'operazione sofisticata, giocata su atmosfere drammatiche, dai suoni pregevoli. Singolo di introduzione la ballata "Follow In My Foosteps", testi e voce di Le Bon.

A fine anno la Emi suggella il decennio, concluso in affanno, con la prima raccolta di successi, Decade, top five in casa propria, buon successo europeo, disastro americano. I Duran sono solo un nome ancorato al passato. Se ne accorgono i cinque quando si ritrovano agli Olympic Studios di Londra. Sì, proprio i cinque. I tre membri originari, per dare una scossa mediatica ma anche personale, hanno deciso di assumere in pianta stabile Cuccurullo e Campbell. Peccato che l'entusiasmo non corrisponda a una buona infornata di idee. Il gruppo è allo sbando. Taylor ha conquistato il cuore di una giovanissima starlette televisiva, tale Amanda De Cadenet, e con lei si è gettato in una favola-incubo fatta di droghe pesanti.

Nella confusione più totale, Cuccurullo comincia a impadronirsi della vita artistica del gruppo. Il risultato è un pasticcio intitolato Liberty, ovvero siamo liberi di fare quello che ci piace. Porcherie soprattutto. Il disco contiene 11 canzoni tra le più brutte della storia della pop-music. L'apertura è affidata a "Violence Of Summer", pop-glam danzante di una banalità scoraggiante. Perdipiù prodotto in maniera pessima. Un piccolo risveglio lo offre la title track, vellutato omaggio ai Roxy caratterizzato dalla buona interpretazione vocale di Le Bon, da un assolo simil knopleriano a metà brano, ma anche da sonorità confuse e troppo plastificate. "Hothead" è un'orrida declamazione su base funky hip-hop. "Serious" è perlomeno un classico pop venato di soul, bella voce, discreto supporto strumentale, sonorità più vere, ma niente di trascendentale. "All Along The Water" vorrebbe essere la risposta duraniana all'esplosione del crossover ma, priva di ritornello e contornata da un sound fasullo come pochi, non si merita neanche una briciola di attenzione. Sintetica e onirica è la ballata "My Antartica", decente, con Nick e John sugli scudi.
La tripletta seguente fa invece letteralmente cadere le braccia: "First Impression" è un hard-rock fracassone con tanto di lungo assolo di Cuccurullo in coda; che conduce a "Read My Lips", song disgraziata con strofa ridicola e refrain copiato dalla gloriosa "Get It On"; "Can You Deal With It" è una saltellante e caricaturale dance-song con molta infamia e poche lodi. In chiusura sono posti i due brani forse più interessanti: "Venice Drowing", rock atmosferico e drammatico, con Taylor che regge la baracca, i synth di Rhodes dominanti, Cuccurullo che ricama aggressivo ma sofisticato, Le Bon convincente tra le misteriose calle di Venezia; "Dowtown" è un'originale pop corale, caratterizzato da fiati sintetici e tastiere intrecciate, nel quale vecchie tentazioni glam affiorano e si aggiornano. Ambedue le song soffrono purtroppo dell'indecisione affiorata in sala di regia.
Un disastro artistico e ancor più commerciale: numero otto in Gran Bretagna ma anche fuori dai top 40 statunitensi. E a fine 1990 è come se l'album non fosse mai uscito. I Duran fanno qualche comparsata televisiva, cancellano ogni idea di tour e si ritirano con la coda fra le gambe.
Spariti dalle scene, gli ex-idoli ammirano da casa l'esplosione della scena grunge e il trionfo del rock duro. Ma hanno un contratto da rispettare. La Emi li richiama al dovere con poca convinzione. Serve un bagno d'umiltà. Il budget messo a disposizione è risibile rispetto ai fasti del passato. Taylor è disperso a Los Angeles, tocca a Cuccurullo riorganizzare i destini del complesso. L'italo-americano si costruisce una studio casalingo e lì, con Le Bon e Rhodes, comincia a buttare giù qualcosa che assomigli a un nuovo canzoniere. Campbell fa le valigie, approfitta del calare delle tenebre e fugge via. Entrerà a far parte dei Soul Asylum e poi diverrà batterista di fiducia di Bowie.
Nell'estate del 1992 la band l'album l'avrebbe anche portato al termine ma la casa discografica si vocifera lo rigetti senza ritegno. Si parla di scarso appeal commerciale. Sussurri mai confermati, ma il ritardo sui tempi di pubblicazione è effettivo. Alla vigilia di Natale la Emi tasta il polso radiofonico e lancia sulle frequenze medie americane una ballata intitolata "Ordinary World". Una decina di passaggi coast to coast e le stazioni vengono prese d'assedio da telefonate bramose di notizie. Ebbene sì, dietro quella suadente melodia ci sono i Duran Duran. Qualcuno fiuta il gran colpo. Il singolo viene schedulato per il mese successivo. Una volta nei negozi il dischetto vola subito nella top ten inglese e si avventa tra i primi tre in America. I quattro superstiti non credono ai loro occhi. Di nuovo in cima senza neanche l'appoggio di un videoclip. Che di fatto non hanno neanche pensato di girare. Non ce n'era bisogno. La canzone si regge da sola senza alcun supporto di immagini. Una struttura che nasce pulita e sostanzialmente acustica, Le Bon canta, disilluso ma alla fine speranzoso, i mali di una società fracassata da guerre e violenze varie. Cuccurullo accarezza con la sei corde ispirato dall'armonia che fu alla base della "Wartermelon In Easter Way" di Frank Zappa (da "Joe's Garage", e c'era anche lui). Taylor sostiene e puntella melodicamente, Rhodes condisce sobrio, uno spruzzo d'archi, la batteria impersonale di Ferrone, una grande interpretazione del cantante. Il gioco è fatto.

A febbraio ecco l'album, dal titolo omonimo ma ribattezzato The Wedding Album, il disco del matrimonio, con la cover che riporta le foto del giorno fatidico dei genitori dei quattro. Immagini anni 50 per un pop pulito, compatto, variegato e al passo con i tempi.
Inizia Cuccurullo con le zampate elettro acustiche di "To Much Information", aggressiva accusa al mondo dei media che prima ti esalta e poi ti mette alla gogna. Sezione ritmica potente, synth rumorosi e pulsanti, Le Bon in versione rock, bell'incipit. Dopo la ballata, che intanto ha preso a furoreggiare in ogni dove, si prosegue con la melodia straniante di "Love Voodoo", sensuale passeggiata acida su territori erotici. Poi, dopo lo scherzo dance umoristico di "Drowing Man" la cui coda si trasforma nei campionamenti di "Shotgun", per rumori di pistola e basso sincopato che ripete un giro ossessivo, è la volta di "Come Undone", altro lento suadente ma stravagante, con chitarra filtrata e melodia acchiappa cuori.
La prima parte si chiude con il connubio inaspettato tra Duran e la bossa nova di Milton Nascimento: il cantautore brasiliano presta voce, chitarra e parte delle liriche in brasiliano e duetta con un Le Bon particolarmente ispirato. Pezzo soave e ritmicamente etnico, con bei tocchi di pianoforte. Si riparte con "UMF", funky-soul dance bianca, con basso in prima fila e la variegata voce di Simon a condurre i giochi. Altra sorpresa: "Femme Fatale" è proprio la cover del pezzo dei Velvet, piano synth leggiadro in evidenza, voce che si inerpica e che diventa aggressiva nella coda finale. Manca il mistero di Nico dove si esalta invece la linea melodica primigenia. "None Of The Above" è un altro brano soul-dance, con tanto di assolo di chitarra rumoroso, divertente ma trascurabile.
Cresce il numero di giri con "Shelter", synth in primo piano, cantato insinuante, ritmica dance, ritornello aggressivo e corale. Più classicamente pop-rock appare "To Whom It May Concern", arpeggio iniziale di Cuccurullo che sostiene via via tutto il giocattolo pop, basso staccato, discreta resa melodico armonica, Simon canta quasi istericamente. Finale in grande stile con la lunga "Sin Of The City", pop-rock con venature funky e frequenti intrusioni hip-hop, ben congegnata e ancora meglio suonata, con Taylor protagonista al quattro corde e la coda super-noise di Cuccurullo.
In men che non si dica l'album rastrella un successo che da queste parti non si vedeva dai tempi di "Wild Boys": numero sette in Usa, numero quattro in casa propria, ma delirio sempre più spinto un po' ovunque. E la critica non sa che farci. Si propende per la stroncatura, d'obbligo in tempi "nirvaniani". Poco male, i Duran sfruttano la moda unplugged, mettono su uno show acustico con quartetto d'archi e prendono a girare il globo per vedere l'effetto che fa. Peccato solo che alcuni locali non siano granché ampi per far fronte a richieste improvvisamente moltiplicatesi. Si sfiora la rissa più volte, a Roma in una serata di inizio febbraio volano le botte sul serio.
A un mese dalla pubblicazione l'album ha già raggiunto il milione di copie vendute sul suolo americano. A stupirsene è John Taylor, il primo a non credere più nel progetto, imbottito di droghe e alcol, neopadre, costretto a fare armi e bagagli e partire per un tour mondiale, quello vero, di proporzioni enormi. Il giro prende il via negli Stati Uniti a giugno, mentre il secondo singolo "Come Undone" ripete quasi gli stessi esiti del "Mondo Ordinario", e rimane tra i cowboy fino a settembre, con supporting act quali Terence Trent D'Arby, Suede e Cranberries (che si gioveranno di questo giro on the road), mentre la prima scelta, gli Auters, i preferiti del momento di John, rifiuteranno inopinatamente.
Poi l'Europa, penalizzata da seri problemi vocali di Le Bon. Tra spostamenti e rinvii, i Duran si affacciano anche sugli schermi di Mtv per la consueta esibizione senza fili, giusto il giorno dopo il mitico spettacolo di Cobain e amici. Propendono per uno show, acustico sì, ma senza l'ausilio di sedie: si balla e si sballa, insomma. Ritorno in Europa a bordo da una scenografia fantascientifica che potrebbe persino fare invidia agli U2 dello Zoo Tv Tour.
All'inizio del 1994 sono di nuovo in Nord America, poi volano in estremo oriente. La casa discografica intanto fa i conti: a un anno dalla pubblicazione, l'album della riscossa ha venduto sei milioni di copie. Chiudono i battenti dopo un anno e si ritirano per registrare una collezione di cover, come vuole la moda del periodo. Un'inaspettata mossa nella direzione sbagliata...

Cover flop, ...e rimasero in tre, rottura con la Emi, pop spazzatura e resurrezione

Simon Le Bon - Duran DuranSe un po' tutti si erano dimostrati sicuri nel tracciare l'albero genealogico musicale dei Duran Duran, non molti avevano capito fino in fondo i gusti del gruppo inglese. Assai variegati, curiosi, a volte sorprendenti. I quattro, che qualche mese prima hanno ottenuto la stella sulla Walk Of Fame di Hollywood, decidono di incidere un disco di rivisitazioni di brani altrui. Lo registrano in più location, si contornano di session man dietro i tamburi e lo intitolano Thank You. I ringraziamenti vanno alla "White Lines" di Grandmasterflash And The Furious Five, hip-hop, che racconta i danni della cocaina e si tramuta in un funky-rap sintetico con l'accompagnamento vocale dei titolari originari, culminando in uno stralunato solo di Cuccurullo. Segue la scatenata reprise di "I Wanna Take You Higher" di Sly And The Family Stone, con la sezione ritmica dei Power Station che si ricongiunge, e John Taylor che nel break centrale fa il verso a John Deacon che a sua volta si rifaceva a Bernard Edwards. Il classico cerchio che si chiude. "Perfect Day" è lì, con la sua melodia incantevole e immortale; Simon la rende in maniera soffice, mentre dietro Rhodes e Cuccurullo lavorano su atmosfere oniriche, John Taylor regala squarci melodici al basso, e... Roger Taylor, mollata la fattoria, si rifà vivo per un attimo con un paio di spazzole.
"Watching My Detectives" è un plastico remake del primo Costello, troppo addomesticato e patinato. "Lay Lady Lay" è puro Dylan riscritto in formato pop-synth, con le chitarre che riecheggiano "Come Undone". "911 Is A Joke" è la caustica denuncia dei Public Enemy trasformata in una versione che ringrazia Beck, tra soul, hip-hop e country-blues. "Success" è la rilettura glam-soul di un classico di Iggy Pop, invero non particolarmente incisiva. "Cristal Ship" è solo una copia carbone dei sogni di Jim Morrison. "Ball And Confusion" sono addirittura i Temptations fatti a pezzi da una resa strumentale iper-moderna e un'interpretazione vocale non degna. Si chiude con "Driven By", che su un recitato sognante di Le Bon si tramuta nell'autocitazione corposa e strumentale di "The Chauffeur".
A che pro realizzare un simile progetto? Capriccio da popstar ritrovate? Passione sincera? Ferro da battere quando è ancora caldo in mancanza di idee nuove? Sia come sia, l'album viene distrutto quando non boicottato dai mezzi d'informazione, non certo adorato dai fan (numero 12 in Inghilterra, 19 in America), determina una nuova crisi, stavolta irreversibile.
I Duran, peraltro, lo promuovono con una serie di date in giro per gli States tra le migliori della loro pluridecennale carriera (spettacolare a tal proposito una versione rallentata electro-country-western di "Girls On Film" che diventa d'un tratto "The Model" dei Kraftwerk).
Fisicamente in forma smagliante i Duran nascondono però la realtà di un John Taylor allo sbando: separatosi dalla moglie, sempre sbronzo, forma con Steve Jones, Duff e Matt Sorum dei Gunners i Neurotic Outsiders, con tanto di album prodotto dalla testa parlante Jerry Harrison, pubblica un lavoro solista dalle tinte dark-punk, si disintossica e molla la nave duraniana durante le registrazioni del nuovo disco.
I tre superstiti si guardano negli occhi, buttano nel cestino buona parte del lavoro già ultimato e ricominciano da capo. Bella mossa. Ma i vertici della Emi hanno la calcolatrice a portata di mano e le regole vogliono dettarle da soli, che la band ci stia o meno. Al principio della primavera 1997 viene pubblicato il singolo "Out Of My Mind", ballata semi-elettronica, di richiami dark, dalle cadenze depechemodiane, inclusa all'interno della colonna sonora di "The Saint", edizione cinematografica delle avventure che videro impegnato un Roger Moore pre-agente 007 negli anni 60. I synth di Rhodes ritornano a farsi presenti come non accadeva da quasi dieci anni, Cuccurullo cesella discreto, Simon interpreta con grande gusto melodico su una base ritmica assai agile, con i piatti in bella evidenza. Ma la canzone, accompagnata da un filmato cinematografico e piuttosto plumbeo, non spopola.

Al principio dell'autunno 1997 appare sui mercati giapponese e nordamericano l'album Medazzaland, in pratica la terra del Mezzarin, sorta di limbo procurato dal medicinale-bomba in cui era caduto Le Bon durante una lunga seduta dentistica. Undici brani imprigionati tra giochi duplici di tastiere, di nuovo preponderanti, e chitarre effettate, groove allergici e ballate cristalline, ritmi stravaganti e rumori stranianti, oriente e occidente a braccetto, in bilico tra pazzia metropolitana e quiete bucolica. Un disco proiettato verso il futuro del "nuovo" electroclash, senza smarrire le muse che da sempre hanno ispirato i suoi autori. Lo si evince subito dal recitato cupo di Rhodes su base elettronica dell'iniziale brano omonimo: dentro ci sono i fantasmi del Bowie berlinese, Giorgio Moroder che incontra Donna Summer, la linee di basso sporcate che ricordano i principi della disco europea, un'atmosfera dark-wave a condire il tutto.
Il prosieguo è affidato alla contagiosa danza electro di "Bing Bang Generations", dove Cuccurullo e Rhodes mischiano le carte, intrecciano le loro armi, affondano creando un magma sonoro personale e omogeneo. E dove inizino le chitarre e finiscano le tastiere si continua a non percepirlo sul singolo "Electric Barbarella", vicenda surreale di una domestica elettronica, sexy e talmente reale da poterle chiedere di tutto... La canzone, accompagnata da un ironico video curatissimo e censuratissimo, riporta i Duran dalle parti di "Rio", di nuovo protagonisti di quella lunga teoria di strofe e ritornelli che ne aveva sancito le giovani fortune: un disco beat irrefrenabile, tecnicamente sofisticato, con il chitarrista italo-americano che riempie ogni angolo con trovate "alla Fripp" ed effetti magistrali, ben appoggiato da un Rhodes di nuovo leader, Le Bon ispirato interprete di un refrain appiccicoso.
Più classico appare l'andamento di "Who Do You Think You Are", aggressiva ballata corale, maggiormente guitar-oriented. Il passo successivo, "Silva Halo", è un breve episodio elettronico, sporcato da effetti, che gode del convincente recitato dark di Le Bon. "Be My Icon" è uno degli ultimi lasciti di Taylor, elettronica rock quasi isterica. "Burried In The Sand" rappresenta il malinconico saluto di Rhodes allo stesso bassista dimissionario, inusuale canzone sprovvista di un vero ritornello, con percussioni che rendono l'atmosfera orientaleggiante.
Ma la parte migliore del disco inizia dal brano successivo, "Michael You'Ve Got a Lot Of Answer For", ballata elettro acustica, monito di Le Bon all'Hutchence cantante iper-vizioso degli Inxs, sin troppo dedito all'autodistruzione, con il quale sta portando avanti da un biennio, con la presenza fissa anche di Bono, un periodo dedicato alle feste e al divertimento più sfrenato; Cuccurullo conduce, con finale dissonante e accordi che regalano l'idea del suono tipico delle campane tibetane, Rhodes condisce, Le Bon interpreta soffuso. "Midnight Sun" è un'altra ballata straniante, ancora con qualche sapore orientale, interpretazione lontana e quasi disperata del cantante, Cuccurullo e Rhodes orchestrali, quasi una riedizione dei primissimi Duran, per una decadenza romantica riattualizzata ai suoni odierni, forse il capolavoro del disco. Il finale viene affidato alla sguaiata "So Long Suicide", passo decisamente rock anche se sofisticato, con sprazzi persino punk, finale quieto a calmare l'energia sprigionata, e alla stravagante "Undergoing Treatment", sorta di trip-hop per chitarre acustiche e atmosfera sintetica, mentre Le Bon si prodiga in una filastrocca dai colori ironici ma dai significati sarcastici: dietro c'è infatti la poco velata accusa verso la stampa che prima ti esalta e poi ti fa cadere nel dimenticatoio.
Uno dei migliori episodi della quasi ventennale carriera del gruppo britannico, il disco soffre però di una produzione sonora non sempre lucidissima che ne nasconde a tratti i notevoli meriti. I tre promuovono il lavoro con un tour americano, il giro di concerti più sperimentale mai effettuato dai Duran Duran: si apre con un frammento tratto dal progetto strumentale avanguardistico Tv Mania, nato dalla mente di Cuccurullo-Rhodes ma mai pubblicato, e tra i brani del nuovo repertorio, si insinuano i classici e canzoni sempre ritenute secondarie, come la b-side "Sekret October, ampiamente rivisitate e allungate.
Debuttano a Los Angeles e salgono sul palco insieme a una serie di gruppi nordamericani resisi contemporaneamente protagonisti di un disco tributo, tra punk, ska e dark. Tra questi anche i celebrati Deftones. Ma l'album non decolla e la Emi decide di non promuoverlo, facendo slittare la pubblicazione nel resto del mondo fino a cancellarla definitivamente. I tre, offesi, rompono il contratto e proseguono le esibizioni senza l'apporto di una label. Durante il giro muore Hutchence e Simon non canterà più il brano a lui dedicato. Proprio Le Bon appare nel tour rivitalizzato, mai così bravo nel suo ruolo, giovatosi di appropriate lezioni di canto e, pare, da una rinfrescante operazione alle corde vocali.
Anche durante il 1998 il gruppo alterna momenti di stasi a esibizioni lungo i palchi americani. Intanto tutto intorno sembra essersi rinvigorito l'interesse verso il nome Duran, non già verso gli ascoltatori quanto fra i colleghi della nuova generazione: cominciano i britpopper Mansun, proclamatisi nuovi Duran, la scena nu metal si propone come baluardo per il ripristino dell'importante influenza duraniana sulla scena rock attuale, con Johnatan Davis dei Korn che grida ai quattro venti il suo amore per Fabolous Five, o Three che dir si voglia, Moby che esalta le qualità terapeutiche di "Save A Prayer", mentre Simon Le Bon sale sul palco degli Smashing Pumpkins modello "Adore" che gli rendono omaggio rivisitando insieme "Nightboat".
Sul finire dell'anno la Emi pubblica Greatest, portando nei negozi europei anche il singolo "Electric Barbarella". L'album funziona bene e ritornerà svariate volte in classifica nell'arco delle seguenti stagioni. I tre ne celebrano i fasti suonando in Inghilterra nell'enorme teatro dell'Earl's Court di Londra.
Nel 1999 si comincia a parlare di un nuovo lavoro e di una label che possa pubblicarlo. L'offerta migliore sembra arrivare dalla Disney e dalla sua etichetta discografica, la Hollywood Records. E nei concerti infiniti il trio, coadiuvato da una nuova sezione ritmica, comincia a proporre del materiale inedito. All'alba del nuovo secolo comincia il countdown, invero nell'indifferenza generale. A maggio viene diffuso il primo singolo, la cantilenante e parecchio brit-oriented "Somebody Else Not Me". Si tratta di una ballata, ripulita dalla verve elettronica del recente passato, totalmente in mano a Cuccurullo, con un Simon che appare poco convinto nell'interpretazione.

Sarà anche l'opening track dell'album, Pop Trash, rilasciato su distribuzione Edel il mese successivo. Confezione glitter, dodici brani, chitarra in primo piano, un'alternanza classica tra momenti dancerecci, il passo insicuro di "Lava Lamp", ma anche il più convincente groove di "Mars Meet Venus", il classico pop-rock di presa immediata di "Playing With Uranium" e "Last Day On Earth", dove l'aggressività viene mitigata dal consueto andamento sintetico, talvolta epico, stravaganze non ben riuscite come "Hallucinating Elvis", episodio elettro-dance che alla fine non arriva da nessuna parte, ballate ora preziose come "Starting To Remember", che nella vaga dissonanza ricorda i Pumpkins, ora più banali come "The Sun Always Shines Forever", che non avrebbe sfigurato nel repertorio del tardo Bryan Adams...
Decadenze assortite e piuttosto convincenti sono invece la bowiana "Lady Xanax" e "Pop Trash Movie", i cui versi vengono scritti su commissione per la rentrée dei riformati Blondie, salvo poi rimanere alla casa madre. Un album poco personale, ancor meno convinto, nato stanco, come dimostra un Simon Le Bon talmente disinteressato da mollare per la prima volta il ruolo di scrittore delle liriche, affidate alla penna di Rhodes. E i risultati in classifica sono disastrosi: fuori dalla top 50 in madre patria, numero 140 o giù di lì negli Stati Uniti, inosservato ovunque.
Il tour americano invece funziona neanche tanto misteriosamente bene, tra club e arene, con una buona percentuale di convenuti all'oscuro del nuovo parto discografico duraniano, eppure felice di risentire un canzoniere che ha fatto epoca.
Urge un rimedio. La prima mossa è quella di abbandonare la Hollywood Records. La seconda è quella di incontrare a Los Angeles John Taylor (sempre più votato alla carriera solista, che alterna alle apparizioni con il suo nuovo gruppo denominato Terroristen, a collaborazioni varie, da session-man anche in chiave fusion, fino alla progettazione di un album tributo ai Roxy Music, con Dave Gahan tra i cantanti). Al tavolo dello spilungone transfuga siedono Le Bon e Rhodes. Non vi è traccia di Cuccurullo, tenuto all'oscuro del meeting. L'italo-americano si è intanto reso protagonista di una performance inusuale: un servizio fotografico nudo e in erezione per una diffusissima rivista gay brasiliana. Riceverà talmente tanti complimenti da pensare bene di produrre vibratori con le fattezze del suo celebre super membro, facendone scaturire anche un business notevole.
Pochi intanto i convenevoli tra Le Bon-Rhodes e Taylor, si discute subito di rimettere su la formazione originale. Si dividono i compiti, con John che si premura di fare le telefonate necessarie agli altri due Taylor, e Simon che scrive la lettera di dimissioni per Cuccurullo. Roger Taylor si prende una giornata di tempo ma poi accetta, Andy, che nel tempo aveva prestato la sua chitarra e la sua verve produttiva tra gli altri al pop-rock di Rod Stewart, dei Then Jerico, dei Love & Money, ma anche all'hard dei Thunder e all'heavy brutale degli Almigthy, abbraccia l'idea. L'ex chitarrista di Zappa, incredulo e piuttosto arrabbiato, viene fatto fuori tramite missiva al principio del 2001, ma continuerà a suonare con gli ex-amici per i pochi concerti giapponesi e americani rimasti in programma.
Intanto i tre Taylor rimasti si rinchiudono in studio per ritrovare gli automatismi strumentali perduti. E' una scommessa e non è detto che vada a buon fine. Manca il supporto di un'etichetta seria e di grandi disponibilità economiche. Chi può essere interessato a un nome ancorato ai fasti del passato quasi remoto? I Duran riformati per tutto il 2002 provano insieme e cominciano a scrivere nuovi brani. Non vogliono essere protagonisti di una mera operazione nostalgica. I media cominciano a riaccendere i riflettori. Rhodes ritrova il suo vecchio amico Stephen Duffy, con lui riprende le prime canzoni scritte quando i Duran erano dei ragazzini, le risuona e pubblica l'album "Dark Circles" accreditato a nome The Devils. Dentro suggestioni che passano da John Foxx all'Iggy berlinese.
Nella primavera del 2003 arriva nei negozi il nuovo album di Dandy Warhols, "Welcome To The Monkey House", dichiarato omaggio ai Duran dell'era romantica. Infatti a produrlo (in compagnia di Tony Visconti), e a suonarci il mini Moog qui e là, c'è proprio Rhodes.
A giugno, a sorpresa, i cinque provano a lanciarsi in un tour: una decina di date in Giappone e biglietti che vengono bruciati in un attimo. Tutto esaurito, applausi, entusiasmo e ancora qualche errore di troppo sul palco. Si spostano negli States, un altro gruzzolo di esibizioni, tra le quali spicca la gig al Roxy di Los Angeles, celebre locale invaso da star incuriosite dall'insperato come back: si notano Nicholas Cage, Beck, Gwen Stefani e consorte, Moby, Trent Reznor...
In autunno si susseguono apparizioni a festival americani. A fine anno annunciano un vero e proprio tour inglese da tenersi nella primavera successiva. Mettono in vendita i primi tre-quattro concerti e trovano un responso positivo. Alla fine il tour si allarga fino a consolidarsi in 17 date, di cui cinque alla Wembey Arena di Londra, per complessivi 250.000 biglietti venduti.

I giochi si aprono al principio di aprile e si chiuderanno ai primi del mese successivo. Il pubblico europeo si trova di fronte i "veri" Duran 20 anni dopo, alle prese con il repertorio storico e l'inclusione di nuovi promettenti brani. Show perfetti, entusiasmo alle stelle, manca solo l'etichetta discografica. Arriva quando l'album è pronto ed è la Sony. A settembre la label lancia il primo singolo, "Sunrise", pop banalotto ma energico e gaio, ormai divenuto motivo d'apertura dei concerti, grazie a un ritornello epico ma non serioso e a una strofa che ricorda da vicino la "Self Control" che fu di Raf. L'uscita dell'agognato album, il primo con brani originali composti dalla line up classica, dopo ben 21 anni, è previsto per ottobre. I cinque cominciano a girare per il mondo per la consueta promozione di nuovo inseguiti da fan isterici e dai media impazziti.
Il lavoro contiene 12 brani e si intitola Astronaut.
A un primo ascolto si nota subito un songwriting ben calibrato e fresco, ma anche una produzione che, seppur al passo con i tempi, denota indecisione e poca voglia di rischiare. Troppe le mani intervenute nel pluriennale lavoro, dal vecchio Nile Rodgers ai nuovi alfieri del suono r'n'b, hip-hop e nu-metal. Viene quindi a soffrirne la propria componente di unicità. Sono sempre i Duran, ma sembra che i fili del discorso li reggano altri. E' un peccato, perché nel complesso le canzoni non sono niente male. Lo dimostra l'ossessivo synth-disco di "Want You More", l'epica ballata veramente duraniana "What Happens Tomorrow", la dance semi-acustica del brano omonimo, il'r'n'b riletto di "Beedroom Toys", i sapori estivi e fortemente ballabili di "Nice" (con riapparizione del "vecchio" John Taylor al basso, stranamente poco presente nel resto del lavoro) e "Taste Of Summer". Accontentato anche il lato meno epidermico grazie alla cinematica "Finest Hour", ballata fra le migliori del lotto, la lenta e al contempo dinamica "Chains", la decadente "Point Of No Return", la lunga e onirica "Still Breathing". E le cose sembrano funzionare.
L'album è subito al numero tre in Inghilterra, si ferma alle soglie della top 15 in America, ma è complessivamente tra i primi dieci nel sunto che comprende le classifiche di tutto il mondo. Una pacchia che dura lo spazio di un mesetto. Poi l'album viene accantonato. Venderà complessivamente poco più di un milione di copie, non male visti i più recenti exploit, ma lontano dai fasti della golden age.

La gente preferisce il Greatest, milionario protagonista delle classifiche a distanza di sette anni dalla pubblicazione.
Il tour seguente, che si apre al principio del 2005, è invece un successone. Mezzo milione subito a scandire i brani nelle arene americane, esito simile durante la fase europea. E poi l'estate giapponese, ancora Usa, Sudamerica e l'anno che si chiude con il gran botto britannico, con plurimi concerti tra il Nec di Birmingham, l'Arena di Manchester e l'Earl's Court di Londra, mentre nei negozi arriva il Dvd con album incluso che ripercorre le vicende del tour inglese della primavera del 2004.
Il 2006 è invece un anno trascorso perlopiù in studio a mettere a punto un seguito più originale e sicuro dei propri mezzi. Le prime avvisaglie paiono confortanti, con Roger Taylor che parla di maggior consapevolezza, di un lavoro che stavolta rispetterà sul serio le proprie fonti ispirative, il pop decadente, la disco-funk e i Kraftwerk, senza per questo suonare datato. Ma pare che le influenze black non siano sparite...
Intanto i cinque fanno in tempo ad abbracciare le nuove correnti tecnologiche: appariranno in un concerto virtuale sul sito "Second Life". E fra un po' saranno di nuovo on the road sul serio, "alive and kicking", ancora poco interessati al riposo del guerriero, trascorso magari spolverando i 70 milioni di dischi venduti in carriera.

And then there were four. Decisi, combattivi e, diciamocelo, liberi dalla zavorra rockettara di Andy. John, Nick e Roger, dal 1979 con quel chiodo fisso: punk e Chic, art e disco-funk, Studio 54 e bionde da sballo. Una filosofia di vita che deve necessariamente essere lucidata da qualche guru odierno.
Eccolo, allora, per Red Carpet Massacre (2007) il sogno proibito Timbaland, innovatore dance hip-hop non refrattario al ritornello pop. Un po' il Nile Rodgers dei nostri tempi. I sapori hip-hop scelti come scusa per tornare nell'ambito club, l'high energy ristrutturato, consci che le radici del moderno r'n'b debbano non poco all'electro-synth di moroderiana memoria. Un po' come chiudere un cerchio. Timberlake-Timbaland come raffigurazione del 21esimo secolo di Jackson-Jones.
Red Carpet Massacre, che fustiga ironicamente la futile vita della starlette media, si muove su coordinate produttive che spingono verso un mix magmatico ma lucido, una colata di lava fredda dove il basso sembra una linea synth, la batteria è filtrata e passa vorticosamente da un suono che ricorda il rumore di scatole di latta alla percussione ovattata, atmosferica. Dominano le tastiere rhodesiane e rendono i ritmi incalzanti anche quando il singolo brano non spingerebbe per forza di cose al dancefloor.
Si rischia, sempre con la calcolatrice in mano, provando a far quadrare i conti con un singolo buonista, simpatico riempitivo (la tenue e prevedibile "Falling Down"). È l'unica concessione.
Dodici pezzi dodici, mascherati ma duraniani fino al midollo, new romantic europeista sfregiato con dolcezza ed equilibrio dai rumori della nuova metropoli. E' come se John e Nick fossero tornati nella loro cameretta addobbata di poster: ci sono i Buggles più cartoon che mai ("Tricked Out", "Zoom In"), gli Ultravox (l'incipit della conclusiva "Last Man Standing", con il moog che fa romanticamente capolino), il Bowie electro-white-soul ("Dirty Great Monster" con sax malato e perforante), l'euro-disco aggiornata ("Skin Divers", "Tempted", il break sonnambulo che arricchisce "Nite-Runner"), ci sono i retaggi semi-acustici di "Rio" ("Box Full O' Honey", "She's Too Much") e la foga di "Careless Memories" ("Red Carpet Massacre"), c'è la vecchia scuola art-pop dance che si fa epica e cavalcante (l'opening "The Valley" con solo di basso slap stordente).
Ci sono i Duran, insomma, con tutto il loro bagaglio di ricordi, ma senza nostalgia. A bordo di un suono finalmente coeso, tendente allo scuro, che colora un songwriting lineare. Senza darsi per vinti neanche di fronte alla rimostranze degli aficionados, fedele legione, sempre più risicata, fisiologicamente invecchiata e quindi conservatrice.

Poi, nel 2010, ecco All You Need Is Now. Simon Le Bon ha sbattuto su Timbaland e si è risvegliato nel 1982. Insomma, i Duran son tornati, tra flash e microfoni, e paiono proprio quelli veri, quelli originali, senza meches ma con un sound che più electrosynthfunkpostpunk non si può. Gli ex Fab Five poi Four per la prima volta si citano addosso, guardando ripetutamente nello specchietto retrovisore, chiudendo un cerchio che pareva infinito.
Nove brani nove e neanche un riempitivo. Tutto costruito a dovere, tutto suonato con afflato giovanile persino esagerato. L'appoggio di un produttore alla moda, pretenzioso, molto furbo come Mark Ronson, oltre che abilissimo costruttore di macchine perfettamente oliate. È lui, antico tifoso duraniano, a consigliare, a escogitare, a spingere il ritorno verso antichi lidi; il riabbracciare strumentazione e tecniche esecutive vintage fatte di synth analogici, bassi gommosi, rullanti secchi e tom rotondi e accordati. Più un pizzico di chitarra, funky e allusiva a condire, impreziosire il tutto. Con il missaggio a opera di "mister curriculum della madonna" Mark Stent.
La title track parte distorta, quasi rabbiosa, con tastiere sporche e dominanti, quasi una strofa propiziatoria per un classico ritornello corale, di quelli che ti si imprimono in fronte e non te li schiodi più. Ma è solo un assaggio, perché poi arriva la cavalcata electro "Blame The Machines", con ultraclassico cantanto nasale, cori eroici presi dalle Blitz Night, rime decadenti che citano le gesta di antichi eroi; un portamento danzante in primo piano che si esalta in "Being Followed", apoteosi della dance song 1979-1983, con basso pulsante, cantato misterioso, chitarra a metà strada tra un tema bondiano e la foresta curiana, un ritornello a tutta gola che riscrive i Blondie più atomici. Un attimo di respiro con la morbida semi-ballad "Leave A Light On", con incipit tastieristico modello Visage e ci si accorge che la struttura ritmica non molla mai l'osso, anche quando i passi di danza si fanno più cadenzati.
Gli ex fratelli John e Roger Taylor hanno riscoperto l'antico fuoco funk-punk ed eccoli godersi la passerella di "Safe (In The Heat Of The Moment)", con la scissor sister Anna Matronic che disquisisce perfettamente a tempo nella migliore imitazione del super-classico "Rapture". E ancora, "Girl Panic!", con esagitati incastri di basso slap e cassa da panico appunto, mentre Le Bon urla "with all the voices in my head the clever words I never said of all the things to happen...". Un vero sballo! Quasi un capogiro, e infatti Simon si accerta delle condizioni generali "Do You Know Where We Are...", "The Man Who Stole The Leopard" e l'atmosfera si fa glaciale ancorché sensuale, con i synth Roland sibilanti di Mr. Rhodes, echi plateali di "The Chauffeur" e "Tel Aviv", cantato lontano, soffuso, brumoso, la contro voce di Kelis in versione leopardo robotico, tagliente, insinuante, sempre al guinzaglio, archi a profusione arrangiati e diretti da Owen Pallett, passaggi sinistri spezzati dalla premiata ditta John&Roger, bass and drums rotondi modello "The Seventh Stranger", finale con fruscio vinilitico, voce recitata e sample catturato dal Nino Rota di "Rocco e i suoi fratelli".
Per i fan, una pacchia insperata. Il finale è cerchiobottista, grazie a un altro passo di danza pop, "Runway Runaway", con le apprezzabili svisate di chitarra di Dom Brown, sostituto del sempre rimpianto Andy Taylor, e le urla alla Tarzan boy con sordina di Le Bon modello new romantic, e la quasi prokofieviana "Before The Rain", chiusura spettrale, ad effetto come i testi plastificati del singer dagli occhi blu. Che si tratti di opera profondamente sentita o di abile strategia per fare contenti miriadi di fan mugugnanti non conta più, è musica pop da ascoltare ovunque e ordunque, scatenata e riflessiva, divertente e inebriante.
I Duran erano, sono e saranno sempre un progetto scomodo, ormai vecchio, ma sempre alla ricerca dell'eterna giovinezza, nello sprezzante rifiuto di apparire caricaturale. Un modo elegante per evitare l'applauso serioso ma geriatrico. Per non precipitare nel mare magnum del revival. Per sentirsi vivi e, segretamente, invidiati.
I risultati del nuovo lavoro, almeno nell'immediato, non si fanno attendere. La versione digitale dell'album si porta repentinamente in testa alle charts mondiali. Un successo commerciale avvalorato dai responsi provenienti dalle pagine critiche che parlano di un ritorno credibile ai fasti sonori di un tempo. I Duran si gettano volentieri in pasto alla macchina promozionale, si esibiscono in occasione di eventi mondani, televisivi, varcando il 2012 con un piano preciso che dovrebbe portarli alla pubblicazione di All You Need Is Now nella sua versione fisica, arricchita di ulteriori canzoni, e a un tour dai risvolti globali. A un certo punto capitano persino a Milano, dove vengono premiati dalla giunta comunale e agitano la notte del capoluogo lombardo grazie a un'esibizione al Teatro Del Verme, in concomitanza con una Settimana della Moda. Stravagante e di assoluto prestigio è la partnership stretta con il regista David Lynch per una memorabile serata allestita in un teatro di Los Angeles: un concerto trasmesso in diretta mondiale via internet, con il patrocinio di American Express, che mostra la band in forma smagliante in un'esibizione arricchita dagli interventi visivi dell'autore di "Cuore Selvaggio".

Intanto arriva nei negozi l'annunciata release fisica di AYNIN: contiene quindici brani, oltre alla title track rivista in formato "Youth Kills Mix". La tracklist rinnovata non capovolge i giudizi, ma alimenta gli applausi potendo contare soprattutto su due ottime canzoni hi-energy quali "Too Bad You're So Beautiful" e "Other People's Lives", pop agitato e adrenalinico con la proverbiale sezione ritmica in evidenza, e su una dignitosa ballad, "Mediterranea", dal sapore retrò, che prova a rinverdire per l'ennesima volta i fasti da accendino stile "Save A Prayer". Sebbene i riscontri monetari siano prevedibilmente meno sostanziosi rispetto a qualche mese prima, l'album è il sigillo definitivo utile ad annunciare il grande giro di concerti.

Ma, a ridosso della partenza europea una cattiva stella si accende malignamente sul destino della band: Le Bon soffre durante le prove di un'emorragia alle corde vocali, ne smarrisce la forza e costringe i compagni ad annullare il tour da settimane in prevendita. Un brutto colpo i cui veri scenari vengono taciuti, salvo poi confermare che l'accidenti occorso al frontman sia tutt'altro che uno scherzo. Qualcuno, sebbene sottovoce, teme lo scioglimento delle fila, ma il baldo Simone recupera grazie a maestri e notevoli esercizi l'antico valore. Si riparte, con una sorpresa: le prove dell'imminente tour sono aperte al pubblico, previa apertura dei portafogli. E i fan si ritrovano a bocca aperta a stazionare in piccoli teatri britannici di fronte all'esecuzione di canzoni mai suonate di fronte a uno spettatore: robe come "Shadows On Your Side" fanno giustamente sobbalzare gli affezionati pluridecennali e portano a pensare a una tournée veramente ricca di sorprese. Invece no: i Duran approntano una scaletta base, con rare intromissioni, che vede la presenza del nuovo album via via sempre più risicata. Il tutto si trasforma nel breve volgere di qualche settimana in un giro votato al greatest hits. Eppure gli aficionados, dopo aver fatto spallucce, accorrono in massa per esaurire le varie arene, prima europee, con grande spazio regalato alla Madre Patria, poi americane, poi asiatiche e australiane. Il vero e proprio nel Vecchio Continente, cancellato inopinatamente l'anno prima, riparte a giugno per toccare anche l'Italia (quattro le date).

Nel frattempo, lungamente annunciato, tra preview web e dichiarazioni battagliere ("uno dei nostri migliori concerti di sempre"), arriva nei negozi A Diamond In The Mind, fotografia in alta definizione di un'esibizione dicembrina in quel di Manchester: ventimila persone, miriadi di telecamere, fermi immagine suggestivi, alternanza di colore e bianco e nero, ma anche una scaletta priva di sorprese e una resa sonora non proprio soddisfacente affidata alle mani insicure di Karl "Snake" Newton e Mazen Murad. Oltre al Dvd viene rilasciata anche una versione cd, con scaletta dimezzata, che nulla aggiunge ma forse qualcosina toglie.
Dopo qualche mese trascorso in vacanza, i quattro si ritrovano per mettere a punto un nuovo tassello della loro gloriosa ma anche contradditoria carriera. E infatti, dopo aver richiamato Mark Ronson alla console, lo vedono assentarsi per i troppi impegni tipici del produttore à-la page, e si dicono sicuri di poter affrontare l'intero lavoro da soli. Ma poi in studio chiamano un certo Mr. Hudson, britannico folgorato sulla via dell'electro r'n'b a stelle e strisce (il Kanye West di "808's Heartbreak"). E cambiano silenziosamente le carte in tavola.

Al principio dell'estate 2015 le radio e la rete cominciano a diffondere le note del primo singolo, "Pressure Off", nonché le fotografie di accompagnamento: ci sono loro, c'è Nile Rodgers, ma anche Mark Ronson. E c'è anche una nuova casa discografica, la Warner. Si preannuncia una battage pubblicitario sconosciuto ai tempi di AYNIN. Il brano è un gustoso funky pop, pulitissimo, arricchito dalla voce di Janélle Monae, piuttosto furbo, al punto qualcuno sospetta che sia stato costruito a tavolino per dare una spinta decisiva all'imminente album. Che, dopo, quattro ulteriori anticipazioni estive, si presenta nei negozi sul finire della seconda settimana di settembre: si intitola Paper Gods, contiene 15 brani e si nutre di suoni spesso vicini all'Edm. Musica da discoteca, con l'intrusione di qualche usuale momento dedicato alla riflessione. Si passa da una title track dai contorni suggestivi, prima gospel, poi electro incalzante, poi sognante e infine trionfale, alla balera carnevalesca di "Last Night In The City", cassa dritta e duetto perforante tra Le Bon e Kiesza; ma dentro c'è anche Jonas Bjerre dei Mew in "Change The Skyline", pop dance con synth sparati, e la chitarra di John Frusciante che si prodiga ottimamente nella sensuale "Northern Lights", come pure nella malinconica ed epica "Universe Alone", fa il verso a Fripp un po' ovunque, citando il solo di "Fashion" sull'inutile "Butterfly Girl", e cerca di dare un po' di sale all'insulsa ballata "What Are The Chances". Ottime prove, contornate da ritornelli ispirati, sono quelle di "Only in Dreams" e "Face Fot Today", antichi ricordi si ripresentano in "Planet Roaring" e "Valentine Stones", chiaramente ammantate di polveri post-punk.
Entusiasmo da parte di critica e pubblico: top ten americana e top five mondiale. Ma anche qualche mugugno che arriva dal fan sospettoso; la domanda ricorrente è: la firma con la Warner ha influito sulla direzione artistica dell'album? Forse sì, tutto appare semplificato, dai testi ai suoni, passando per alcune costruzioni armonico-ritmiche. C'è chi accosta Paper Gods a Red Carpet Massacre, lavoro spesso rifiutato dai tifosi, e i rimandi non mancherebbero. Lo stesso Nick Rhodes conferma come l'ispirazione sia da ricondursi al contestato lavoro progettato sotto l'egida timbalandiana. Sia come sia, l'album appare coeso, frizzante, gradevole anche nei suoi punti più bassi, giovane (artefatto?). Ancora una volta contraddittorio e spiazzante. In pratica, una sorta di mini-manifesto della storia degli ex-bellimbusti di Birmingham.

Sei anni dopo è la volta di Future Past (2021). Con che spirito vivere la nuova festa organizzata dai Duran Duran? Buttandoci a capofitto nell'“Anniversary”, godendoci i brani più riusciti e inserendoli ognuno nel personale “best of”, oppure facendoci qualche domandina in più, mentre la musica inizia a sfumare? Diciamolo subito: Simon Le Bon e soci hanno organizzato tutto come si deve. Al party troviamo Giorgio Moroder e Mark Ronsonfeaturing che non sfigurano, e qualcuno che non ti aspetti, come Graham Coxon, a lasciare lo zampino in quasi tutta la tracklist del quindicesimo album in studio degli inglesi.
Il livello-base della festa è chiaro e semplice: il Duran Duran confezionano un disco ben fatto, dove il flusso di pezzi trascinanti si placa per scenari più sentiti. Il connubio tra due icone tout court degli anni 80 (e non solo, visto come vengono accolti ancora oggi) quali Duran Duran e Giorgio Moroder sfocia in “Beautiful Lies” e “Tonight United”, non a caso posizionate nel cuore di Future Past. La prima parte inarrestabile con quel synth affilato e avvolgente e il galoppare ritmico, la seconda riesce a miscelare suoni dance più attuali a quell'incedere 80's che ha contraddistinto tante hit della formazione.
Non che Ronson (già dietro All You Need Is Now e due brani di Paper Gods: "Pressure Off" e "Only In Dreams") stia a guardare. “Wing” è tra i momenti più belli, con quell'incedere malinconico e il ritornello che s'innalza sostenuto dalla splendida performance vocale. Tra una “All Of You” e il basso slappato di “Hammerhead” cantata con Ivorian Doll, il resto scorre fresco e liscio. Da segnalare l'altro passaggio notevole, ovvero la title track: quattro minuti di cristallina classe pop che porta il voto dalla sufficienza al sette pieno. A chiudere le danze ci pensa “Falling” con Mike Garson, pianista di David Bowie.
Tutti contenti allora. Niente passo falso dalle icone new romantic che si godono serene questa fase di carriera, con il grosso dei fan soddisfatto e la critica più agguerrita priva di pretesti per colpire. Autoreferenziale e celebrativo (basta sentire gli Easter eggs, così li ha definiti John Taylor, in “Anniversary”), Future Past potrebbe suonare però come una festa d'addio. Magari è un'ipotesi destinata a deragliare, ma ascoltarlo – a quarant'anni esatti dall'esordio – nell'ottica di un congedo rende il tutto più intrigante.
Un palcoscenico sempre in bilico quello calcato da Le Bon e compagni, con il rischio concreto, e un tempo attesissimo, di una scivolata dalle sembianze ridicole, che oggigiorno sarebbe preda di meme avidi e bavosi; ma la parabola è ormai consolidata, si muove con l’eleganza verso la sua fine naturale, le lingue biforcute si sono addolcite, è subentrata la comprensione, che si offre agli eroi anziani. Il brand rimane però controverso: Duran Duran vuol dire confusione, di giudizi, di racconti, di spiegazioni, all’interno di un giocattolo che invece, salvo qualche normale cedimento, è stato congegnato con la precisione di un orologio svizzero, nei quali ingranaggi è possibile trovare quasi tutti i capitoli del cosiddetto art pop, tra richiami letterari costanti e invisibili solo a chi non ama leggere tra le righe, spartiti caratterizzati da un mirabile equilibrismo, in cui le irriverenze, le stravaganze, tante, tantissime, vengono modellate, addolcite, mistificate, rese potabili.

E così, nel bel mezzo del lungo tour americano (uno dei più quotati al box office del biennio 22-23) che serve a promuovere Future Past, i Duran decidono di festeggiare l'immancabile notte di Halloween: lo fanno salendo su un palco di Las Vegas mascherati in maniera grottesca, grossolana, esagerata e offrono al pubblico una scaletta inedita, tra interpretazioni di tesori altrui e revisione di propri. Un anno dopo, l’esperienza di quella serata si trasforma in un disco, con l’aggiunta di tre nuove canzoni. Una release quasi improvvisa, annunciata sul finire della stagione primaverile, che prende le mosse dall'intenzione di omaggiare un Andy Taylor malato grave e impossibilitato a partecipare alla festa di introduzione alla Rock n' Roll Hall Of Fame avvenuta a novembre.
In coincidenza con il 65esimo compleanno di Le Bon viene pubblicato Danse Macabre. Un album for fun, si affrettano a scrivere gli uffici stampa. I vecchi volponi dell'art pop però non lasciano mai nulla al caso e quindi anche un divertissement non tradisce lo spirito del progetto originario, che si muove sempre tra chiari e scuri, tra sorrisi e pose malinconiche, spesso mescolando con successo, nel breve volgere di qualche minuto, stati d’animo dicotomici. Per l'occasione il gruppo recluta un rinfrancato Andy, un redivivo Warren Cuccurullo, il solito Nile Rodgers e la protagonista massima dell'odio social italico dell'ultimo triennio, Victoria dei Maneskin. Aleggia all'interno un'atmosfera che profuma di gotico, un gioco, un omaggio, ma non certo una presa in giro. Il romanticismo insito nella natura duraniana non può naturalmente prescindere da momenti foschi, come si evince dalla rilettura del vecchio cavallo di battaglia "Nightboat", manifesto super goth del 1981, come pure dalla malinconia armonicamente arricchita e resa orchestrale dell'antico minuetto synth pop "Secret Oktober", dall'erotismo esotico e ansioso di "Love Voudou", dalla tenue epicità di "Lonely Your Nightmare" improvvisamente sfregiata da quel "Superfreak" di Rick James. E tra una scalciante e vigorosa "Supernature" e il passo dance rock lascivo e pulsante di "Paint It Black", spunta Billie Eilish: le sensazioni di urgenza e assenza tipiche di un'adolescente vengono rilette con disincanto da un uomo maturo e nel pieno delle proprie facoltà; il risultato è una "Bury a Friend" stravolta, quasi una nuova canzone. Ma il colpo di coda è rappresentato da "Psycho Killer", riproposta in chiave Roxy Music funky, ma con un'interpetazione melodica vicina al Ferry degli anni 80; come dire: tre differenti vie che si incontrano sulla strada dell'eterno art rock.

Contributi di Alessio Belli ("Future Past")

Duran Duran

Discografia

DURAN DURAN

Duran Duran (Capitol, 1981)

7,5

Rio (Capitol, 1982)

8

Carnival Ep (compilation, Emi, 1983)

Seven And The Ragged Tiger (Capitol, 1983)

Arena (live, Capitol, 1984)

7,5

Notorious (Capitol, 1986)

Big Thing (Capitol, 1988)

6,5

Decade (antologia, Capitol, 1989)

Liberty (Capitol, 1990)

3

The Wedding Album (Capitol, 1993)

6,5

Thank You (Capitol, 1995)

5

Medazzaland (Capitol, 1997)

6,5

Greatest (antologia, Capitol, 1998)

Strange Behaviour (doppio cd, antologia, Capitol, 1999)

Pop Trash (Hollywood, 2000)

Astronaut (Epic, 2004)

6

Red Carpet Massacre (Epic, 2007)

7

All You Need Is Now (Tape Modern, 2010)

7,5

A Diamond In The Mind: Live 2011 (live, Eagle, 2012)

Paper Gods (Warner Bros, 2015)

6,5

Future Past (Tape Modern/BMG,2021)

7

Danse Macabre (Tape Modern/BMG,2023)7
POWER STATION

Power Station (Capitol, 1985)

7

ARCADIA

So Red The Rose (Capitol, 1985)

8

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Planet Earth
(videoclip da Duran Duran, 1981)
Girls On Film
(videoclip da Duran Duran, 1981)
My Own Way
(live in Hammersmith, da Rio, 1982)
Hungry Like The Wolf
(videoclip da Rio, 1982)
Save A Prayer
(videoclip da Rio, 1982)
Is There Something I Should Know?
(videoclip, 1983)
The Reflex
(videoclip da Seven And The Ragged Tiger, 1983)
The Wild Boys
(videoclip da Arena, 1984)
A View To A Kill
(videoclip da A View To A Kill O.S.T., 1985)
Notorious
(videoclip da Notorious, 1986)
I Don't Want Your Love
(videoclip da Big Thing, 1988)
Serious
(videoclip da Liberty, 1990)
Ordinary World
(videoclip da The Wedding Album, 1993)
Come Undone
(videoclip da The Wedding Album, 1993)
Electric Barbarella
(videoclip da Medazzaland, 1997)
What Happens Tomorrow
(videoclip da Astronaut, 2004)
All You Need Is Now
(videoclip da All You Need Is Now, 2010)
Leave A Light On
(live, da All You Need Is Now, 2010)

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