Daryl Hall & John Oates

Daryl Hall & John Oates

Gli alfieri del blue-eyed soul

Almeno sessanta milioni di dischi complessivi venduti, una dozzina di canzoni da insegnare all'università del pop, un numero imprecisato di singoli spacca classifica e almeno dodici anni di carriera sempre ai vertici. Parafrasando il titolo di un loro album, Daryl Franklin Hohl e John William Oates sono stati, insieme, davvero più grandi della somma del loro già enorme talento, facendo del soul biondo "con gli occhi azzurri" l'imperdibile delizia dell'immaginario popolare americano

di Marco Bercella, Fabio Russo

Nei tardi anni Sessanta, Daryl Hall e John Oates sono due amici che frequentano la Temple University di Philadelphia. Daryl, l'indigeno, è già leaderdella formazione Gulliver(s/t, 1970, Elektra) ma ha inciso anche come "Daryl Hall with The Cellar Door". La parallela attività di session-man e di vocalist per gruppi soul di punta come Delfonics e Stylistics gioverà enormemente alla sua affermazione come autore. John nasce a New York, ma da piccolo si trasferisce con la famiglia in Pennsylvania. E' un gran collezionista di dischi rhythm and blues, se la cava con la chitarra, al punto che nel 1966 la radio del college passa già un suo singolo, "I Need Your Love", che gli darà la spinta per fare della musica la sua professione. Philadelphia è già la città in cui suonano sotto traccia quelli che saranno i protagonisti  del philly-soul nel decennio successivo, così non è strano che il duo rimanga molto suggestionato dall'aura black che permea quel luogo.

Nel 1972 Hall e Oates firmano per la label Atlantice pubblicano l'esordio Whole Oats, titolo che gioca con l'assonanza dei loro nomi (un'utile antologia pre-esordio è Past Times Behind 1969-72).
Di quest'album acerbo ma promettente si accorgono in pochi, dapprima. Eppure esso timidamente rivela, versante soul-folk, il potenziale songwriting melodico che renderà celebre il duo nel volgere di qualche stagione.

I germi che porteranno al seguente Abandoned Luncheonette del '73 sono ormai piantati. 
Whole Oats può intanto apprezzarsi come antipasto, soprattutto nei novelli intrecci vocali sullo stile Everly Brothers da parte di due musicisti bianchi che emulano i neri e nelle prime uncinanti melodie di Daryl Hall - "Georgie", "Fall In Philadelphia", "Goodnight and Goodmorning" - ineccepibilmente prodotte dal grande Arif Mardin (discografico e produttore che lavorò con tanti artisti, tra cui Aretha Franklin, Donny Hathaway, Dusty Springfield, Laura Nyro, Diana Ross).
Se "Southeast City Window" sa di James Taylor lontano un miglio, "Lazyman" è il primo esempio di ballata per voce-piano di Daryl Hall che produrrà eccellenti esiti; e poi c'è quella "Lilly (Are You Happy)" che attende in calce al disco, un'allettante romanticheria pop in stile Carole King, a base d'archi a cascata e di cori ebbri esaltati ("Are you tired of giving Lilly? /Are you really happy?"), tanto vicina alle atmosfere philly-sound quanto all'Elton John coevo della "Yellow Brick Road".

Daryl Hall & John OatesSi arriva dunque ad Abandoned Luncheonette (1973, Atlantic, rist. 1990), grandissimo e misconosciuto album soul-pop degli anni Settanta. Al punto che chi fa risalire le matrici del moderno soul bianco al bowiano "Young Americans" dovrà spostare dietro di due anni le sue coordinate, semplicemente ascoltando i primi accordi dell'opening track "When The Morning Comes", o la ballad rockeggiante "Lady Rain".
Nuovamente diretto dal maestro Arif Mardin, è questo l'album dove tutto gira a meraviglia. Le armonie strumentali e i cori vellutati possiedono maturità e un senso prezioso, un valore primigenio, in un concept immaginario e concretamente immersivo assieme, amplificato sul ricordo, sulla nostalgia dell'infanzia.
Riflessioni ancora sotto-shock, su ciò cui portano i passi falsi, che colgono impreparati un giovane uomo, cambiamenti duri ad accettarsi: "Had I know you better then...". 
Su questo mood indugiano brani come "Las Vegas Turnaround", sinuosa e levigata come un pezzo di Bacharach, sul cui corpo assorto gli intarsi vocali dei due protagonisti accendono miriadi di colori, "I'm Just A Kid (Don't Make Me Feel Like A Man)", ma soprattutto "She's Gone". Perché "She's Gone" è la canzone di Hall & Oates, con il crooner che si chiede sconsolato: "What went wrong...?". Relazione sacrificata, vita da ricominciare, e una domanda senza risposta gettata a terra: "Perché è successo, cosa non ha funzionato?". In realtà qui funziona tutto splendidamente, dall'iniziale introspezione sommessa e per questo quasi sussurrata fino al crescendo doloroso di una vibrazione interiore che non si dissimula. E si vagabonda scalzi, solitari ("my face ain't looking any younger..."), recludendosi lontani dal mondo dentro a ristorantini abbandonati, divorati dalla vegetazione. Pura allegoria dell'anima lacerata. L'estasi nell'assolo di sax e nel grido tormentoso dei cori rimbomba e rinfaccia che lei se n'è andata. Come eco strascicante regge il gioco Oates, decisiva controparte, nelle introspezioni di "I'm Just A Kid...", profumate di inquietudini Bill Withers.

Nel 1974 è la volta di War Babies (Atlantic, rist. 1998, 2008), in cui Hall e Oates sono assistiti del giovane musicista e produttore Todd Rundgren, fresco reduce da tre acclarati capolavori in studio ("Something/Anything" 1972, "A Wizard, A True Star" '73, "Todd" '74, Atlantic).
Il potenziale è enorme, eppure escludendo le inappuntabili abilità strumentali e i sontuosi vocalizzi dei tre a mostrare un affiatamento invidiabile, all'album mancano un po' le canzoni. Inevitabile, dunque, un senso di amarezza per un'occasione non appieno colta, considerando la presenza di Rundgren, che del biennio 72-74 è forse, assieme ad Alex Chilton dei Big Star, lo scrittore pop più ingegnoso e brillante in circolazione.
In questo passo falso archiviato in fretta, egli impone un'esuberanza eccessiva calcando oltremodo la mano. Irriconoscibili e quasi glam, Hall e Oates su "Is It A Star", "Screaming Through December" e "Son Of Zorro" trasformano la logora Luncheonette in una lustrata nave spaziale, ma col motore in avaria. Le tastiere e riffoni di chitarre space-rock provengono dal pianeta Utopia (la band che Rundgren andava formando in quel periodo).
I Tubes degli esordi demoliranno con graffiante, irriverente ironia questo esibizionismo ("The Tubes", 1975, "Young and Rich", 1976, A&M).
Di buon livello restano i brani più equilibrati, come "Can't Stop The Music (He Played It Much Too Long)", l'impeto rock-soul in "You're Much Too Soon" e la volubile rock ballad "70's Scenario".

A metà decennio '70 un colpo d'ala blue-eyed soul volge Hall & Oates verso un celeste Olimpo, la piena consapevolezza in un sound modernissimo e all'avanguardia che s'ergerà autentico marchio di fabbrica.
Inaugura la stagione un contratto nuovo di zecca con l'etichetta Rca, da qui l'intenzione apparente del duo di voler partire da capo con un nuovo album "omonimo", punto zero, rigenerante ripartenza. In realtà questo quarto album non è affatto tabula rasa, ma pura e lucida sintesi di quanto in "War Babies" era presente in eccesso.

Insomma, Daryl Hall and John Oates (Rca, 1975, Buddha Records 2000, rist.) coglie quanto di meglio creato dal passato musicale del duo.
Il mood del nuovo corso su cui s'iscrivono questo e i due successivi album è una particolare raffinatezza west-coast pop che estende e sviluppa in modo narciso le intuizioni dei primi dischi. Una leggerezza e pienezza di sensi soul e funky, toni strumentali morbidi e bassi, quasi cameristici, volti al massimo effetto.
Una sparsa e sottile naivetè di voci e strumenti va a diffondere le melodie, togliendone progressivamente peso.
Sin dai primi attimi, l'ascolto volge in turbinosi cori, tra sezione d'archi e tastiere. Dirige in studio il nuovo produttore Christopher Bond, che accompagnerà i nostri in tre album. C'è poi da aggiungere che questo è il disco di "Sara Smile", certo uno dei discorsi amorosi "aurorali" nel pop degli anni Settanta che ha preso per mano migliaia di ascoltatori; che dal post-Beatles più ha saputo farli comunicare coi propri sogni, lanciandoli verso ipotesi e utopie. Eppure, "Sara Smile" raccoglie immagini fedeli di scene vissute, sguardi timorosi nella notte, tenere confessioni tra amanti. Ed è un brano davvero capace di abbellire la vita, come "I'm Not In Love" dei 10cc, un pezzo senza tempo che nella propria apparente semplicità e linearità di accordi si svela autentica galassia di sensi e sentimenti, e all'ascolto ci si accorge continuamente del perché.
Una gemma la cui avvenenza  converrebbe isolare, custodire in sè, in uno scrigno di cristallo.
Invece, le altre "Camelia", "Nothing At All", "It Doesn't Matter Anymore" - stupenda - "Soldering" (chiudendo un occhio sulla discutibile "Gino"), coi loro tripudi d'archi, varietà e fluidità di linguaggi pop-soul, sincopi e timbriche funk-rock e finanche calypso, mostrano di non vivere affatto di riflessi altrui, cullano oltre ogni dire e confermano l'autore Daryl Hall, talento prezioso. Ottimi anche i contributi di Oates, fondamentale controparte.

Bigger Than Both Of Us (1976, Rca, 2002 rist.) conferma Bond alla produzione e si svela un altro gioiello. L'esito del primo lustro di collaborazione è premiato con una scaletta soul-pop di inarrivabile qualità ed effetto. Laddove Abandoned Luncheonette era l'album passivo e sconsolato, qui si respira tutt'altra aria, ottimista e frizzante. Non meno coinvolto empaticamente, ma quasi "simulato" nella turchina suite dalla copertina.
Il brano che spopola nelle chart è stavolta "Rich Girl", gustosa reprimenda confidenziale ("It's so easy to hurt others when you can't feel pain/ And don't you know that a love can't grow/ 'Cause there's too much to give"). Daryl Hall conosce a menadito la propria particolare abilità di musicista seduttore, misurandovisi al meglio. "Back Together Again", "Crazy Eyes", "Do What You Want, Be What You Are", "Kerry" si svelano grazie esemplari che spargono pollini di philly sound, mai disgiunte da una rara, abile, beatlesiana misura armonica compositiva.
Oasi confidenziali come "Falling" mostrano, d'altro canto, assorte purezze soul.

In questo stesso anno, Hall è in studio con Ruth Copeland, una interprete inglese d'origine e americana di residenza, che con Daryl condivide il background musicale (soul bianco, funk), ma non il medesimo fato propizio. La collaborazione è nel 45 giri "Heaven": tutto un intrecciare vocalizzi appassionati in un bagno d'archi e fiati: la quintessenza Motown-sound; appare un'outtake di Bigger Than Both Of Us.

Beauty On A Back Street (Rca 1977, rist. 2008) fa eco. Definito a volte il disco arena-rock del duo, mette in luce la cover "Why Do Lovers Break Each Others Hearts", gioiello di Phil Spector/Bob B. Soxx, puro metadiscorso sui gruppi vocali, eroi degli adolescenti anni Sessanta tra cui i nostri. "Bad Habits And Infections" emana aromi 10cc.

Di colpo Daryl Hall e John Oates sono divenuti intoccabili; la critica, incredula, ammette di aver perso o sminuito qualche passo e corre a ritroso. E' anche il tempo di tirare le somme di quanto svolto sinora, con un paio di antologie, la pre-esordio Past Times Behind-1969-72 e No Goodbyes (1977, Atlantic, con tre inediti). Ma arriva anche il primo live: Livetime (1978, Rca, 2002, BMG rist.), ricognizione sul palco a buoni livelli, intriganti le fantasie di "Sara Smile" e "I'm Just A Kid", mentre "Rich Girl" si scioglie in inno cheerleader, pura estasi collettiva. Rincresce un po' la brevità del disco.

Daryl Hall & John OatesIn seguito alla pubblicazione di Beauty... (1977), John Oates si affranca temporaneamente dal progetto per questioni extra-musicali. Nell'estate di quell'anno, per tre settimane, Daryl Hall è in studio d'incisione, stavolta con Robert Fripp. Col leader dei King Crimson egli condivide una solida amicizia e affinità musicali impreviste ("anche se Robert è inglese e non di Philadelphia e le sue radici non sono blues, la sua chitarra esprime un linguaggio soul", racconta Hall). Fripp era in cerca di rinascite artistiche e dopo i sinodi col Bowie di "Heroes" giunge questa collaborazione che frutta il solista Sacred Songs (Rca, 1980, Buddha, 1999 rist.), strepitosa raccolta di febbrili agoni vocali e rapinose magie strumentali; sorta di raro paradosso artistico che accende una vibrante comunione, una mirabile tensione "esoterica", via eterodossie pop-soul e avanguardia rock d'ampio respiro.
Come un ponte magico steso tra vecchio e nuovo continente, questo disco pagherà pedaggio al proprio, pur minimo, margine di rischio, al proprio inaudito lignaggio, licenziandosi quando (e se) ha fatto più comodo all'etichetta, ovvero tre anni dopo sulla scia del milionario Voices ("per scelta di qualche cocainomane della Rca la pubblicazione dei nastri rimase congelata fino al 1980: la ristampa Buddha contiene una scrupolosa cronaca del misfatto e una lucida testimonianza firmata dallo stesso Fripp". Bruno Anastasi, Radiopeninsula).

Sono tanti, tutti, i brani memorabili: anticonvenzionali e in libera coazione. Pop sì, prevalentemente, ma libero e presago, senza formula e tempo, in cui "Il dualismo tra sacro e profano scorre costante, tra intuizione e pratica, tra spirituale e carnale" (note della ristampa).
"Something In 4/4 Time" è il miglior pezzo di Hall & Oates mai rimasto nel cassetto: un delizioso, ironico banchetto pop-sixties immerso nella luce obliqua dalla chitarra di Fripp e immortalato in vocalizzi del desiderio.
Parimenti, "Why Was It So Easy" rapisce all'istante: è naufragio romantico e fremito malinconico; è  l'anelito, la scia di cometa che Phil Collins inseguirà un'intera carriera; questione appunto di lignaggio.
"Babs And Babs" riversa sapienti pennellate di Gibson e onde-loops Frippertronics, come lisergico fumo arcobaleno sparso su un corpo pop mitteleuropeo; mai utopia fu così avvenente.
Su "NYCNY", Hall è in una trance indotta dal fervore strumentale; Fripp albeggia in jam abrasive e violente, mescendo pattern come fosse in studio a ordire altre pagine di "Red". Si vira poi in una danza mistico-nevrotica, tra tastiere à-la Rundgren e conclude in un'esaltante, isterica ulcera di chitarre.
Intriganti, nel loro avvenente eclettismo, le altre "Farther Away I Am", "Don't Leave Me Alone With Her", "Survive", "Without Tears".
Sacred Songs è un disco capolavoro da portare nelle scuole. Robert Fripp ricambierà qualche mese dopo, invitando Hall a collaborare al suo solista "Exposure", pubblicato lì a poco (1979, EG/Polydor, rist. 2008).

L'anno seguente, il 1978, Hall e Oates pubblicano nuovamente assieme Along The Red Ledge (Rca, rist. 2008), un disco dalle tante facce. I due, sempre più perfezionisti, si mostrano come non mai reciproci "concorrenti" musicali. Ciascuno infatti sembra inseguire liberamente le proprie suggestioni-ossessioni senza negarsi o intralciarsi con l'altro e l'esito è spesso efficace. Quanto è melodico e spirituale Hall, tanto è abrasivo e conciso Oates, l'ossimoro funziona. C. Bond e David Foster si spartiscono la cabina di regia, numerosi gli strumentisti (Todd Rundgren, Robert Fripp, la band di Elton John).
"It's a Laugh", "Melody For a Memory" e "Have Been Away For Too Long" plasmano voluttuose i solchi e celebrano, coi morbidi vocalizzi di entrambi i protagonisti, il verbo soul, anche oltre lo standard usato. Un omaggio al wall of sound spectoriano è poi "The Last Time", tra le più emozionanti performance sentimentali di Daryl ("remember the look in your eyes... it really ripped me apart"): un chorus d'intrigo e inquietudine immerge, finalmente, l'ossessione amorosa in un folgorante fade-out.
Non manca in "Along..." qualche grintosa e convulsa graffiata hard. Se "Alley Katz" è onestamente un pugno allo stomaco all'album, bene va con "Serious Music" e "Don't Blame It On Love". Quest'ultima implica uno stranito e dinamico inserto chitarristico frippiano che prefigura l'avveniristico "Discipline", concepito dai King Crimson lì a poco.
Un contagioso carnevale a "Pleasure Beach" richiama poi le agrodolci nostalgie della "Crocodile Rock" di Elton John: la band è in effetti la stessa (Kenny Passarelli, Roger Pope, Caleb Quaye, rispettivamente a basso, batteria e chitarra), ma il capolavoro del disco è nella propria coda, una riflessione di Hall, personale e privata, dalle suggestioni pittoriche: la piece pianista "August Day". Un'alba di tastiere a levare, una narrazione atmosferica di pasta astrale e un'armonica a contrappunto con le sue onde libere insinuanti, che lastrica ogni orizzonte e mitiga ogni dolore.

"And the sky turned heavy grey/ August day".

E' ormai il tramonto degli anni Settanta, nel '79 imperversa la disco-music e il cosiddetto adult-oriented rock. X-Static (Rca, Buddha Records 2000, rist.), che conferma David Foster alla produzione, ne viene influenzato.
Un ibrido attraente ma con poca focale: manca l'intreccio, il puro intrigo. C'è spazio tuttavia per "Wait For Me", ennesima gemma di Hall, giostra di voci e ritornello che sparge un'irresistibile scia d'amore, anticamera dello stile suadente e sensuale che apparterrà a Voices (1980, Rca).
Questo, assieme al bell'ingresso "The Woman Comes And Goes", è il brano su cui si torna volentieri. Il resto può rivalutarsi come prova essenzialmente west coast pop: il suono del synth di Steve Porcaro è infatti quello dei Toto.
X-Static è in larga parte pretesto per orge strumentali (tre bassisti, quattro tastiere, cinque i chitarristi), dimostrativo nell'estasi di "Running From Paradise"; è come una fotografia che fissa il gruppo in movimento, durante la metamorfosi definitiva AM: bisogna concedergli una certa disposizione. Ma a buon grado, dati frutti venturi come Private Eyes (1981, Rca), mitico e mitizzato album degli anni 80, per tre quarti puro capolavoro pop.

Il decennio trascorso annovera Hall e Oates nel gotha dei nomi che hanno condizionato il corso del pop americano più raffinato. Questo grazie a una miscela d'alchimie inedite, in un percorso accostabile a quello del loro nume Todd Rundgren e, su un altro versante, a quello di Gino Vannelli e degli Steely Dan. Per quanto protagonisti anche al botteghino, la maggior attenzione prestata al conio di un sound distintivo (e quindi non sempre in linea coi trend prevalenti) non ha forse permesso di raccogliere i risultati attesi, almeno se ci riferiamo alle vendite multimilionarie che il mercato americano sapeva riconoscere a molti suoi figli prediletti.
Che questo fosse tutto sommato un cruccio lo si evince dalle scelte che connoteranno gli anni 80, che si possono mettere a comune denominatore nel tentativo, a volte riuscito altre meno, di allineare l'estetica musicale alle mode del momento. Se pensiamo al raggiungimento degli scopi preposti, mai un cambio di prospettiva si sarebbe rivelato così vincente.

Anche se Voices (1980, Rca) conserva l'opzione rock tipica degli ultimi lavori, e però smussandone gli spigoli, un sotterraneo "quattro quarti" disco si impossessa in modo apparentemente avulso del singolo di lancio "Kiss On My List". Sembra un dettaglio, ma non lo è. Il botto che fa la canzone è piuttosto fragoroso, e non crediamo di andare distanti dalla verità se individuiamo in essa la stella polare che segnerà la via della definitiva trasformazione di lì a poco concretizzatasi.
Due i soggetti che si riveleranno fondamentali per quanto succederà poi: dietro al banco siede infatti l'inglese Neil Kernon, così come accadrà per i due successivi dischi, mentre alla stesura dei brani viene maggiormente coinvolta Sara Allen, compagna di Daryl Hall e sporadica co-autrice sin dai tempi di "Bigger Than Both Of Us".
L'album nel complesso convince, palesando le diverse anime del duo: dal frizzante fm rock di "United State" ai gustosi afrori sixties di "Hard To Be In Love With You" e di "Africa", dal tributo ai Righteous Brothers di "You've Lost That Lovin' Feeling" al puro soul di "Every Time You Go Away", un singolo teorico a firma Hall non rimasto in potenza solo grazie al clamoroso successo a cui verrà portato dal britannico Paul Young un lustro più tardi.

Voices è un altro disco di transizione ma, alla luce del suo ottimo riscontro commerciale, funge da scaldamotore per mettere in pista Private Eyes (1981, Rca), che supera in vendite il milione del suo predecessore arrivando persino a raddoppiarle, almeno se sommiamo l'accoppiata di singoli "gold" da qui estratti che finiscono al numero uno.

Daryl Hall & John OatesPrivate Eyes è la summa infiocchettata al gusto da classifica degli ibridi ammaestramenti mezzo neri e mezzo bianchi divulgati nel decennio da poco concluso. Le chitarre, pur immancabili, si addolciscono, la sezione ritmica si scalda e ci si pone seriamente il problema di quale suono attribuire alle tastiere.
L'inizio è ai fuochi d'artificio. La title track, primo dei due singoli di metallo pregiato che va a bissare il numero uno di "Kiss On My List", è un up-tempo che si attacca letteralmente addosso attraverso trame così catchy che una band normale ne avrebbe estratto materiale per tre brani. "Looking For A Good Sign" è l'r&b di Wilson Pickett sbiancato e rimesso a nuovo per gli anni 80. "I Can't Go For That" (l'altra numero uno), palese ispiratrice nel giro basso/batteria del Michael Jackson di "Billie Jean", è un classico della post-disco, un evergreen ripreso, remixato e campionato fino ai giorni nostri (i Simply Red, con la base, ne ricaveranno persino un'altra hit, nel 2004, dal titolo "Sunrise"). In questo brano Hall si inventa un falsetto da brividi a puntellare dei tocchi di tastiera che, incastonati nel drumming elettronico, anticipano di due lustri molte inflessioni del chill-out, mentre un sax da cieli aperti completa la missione strappacuore.
Se la compiaciuta cafonaggine di "Mano A Mano" segna un poco il passo e se "Head Above Of Water" sembra un outtake di Voices, la sbarazzina "Did It In A Minute" si rivela come una piccola gemma di pop-glam a stelle e strisce, tanto che finirà col piazzarsi anch'essa nella top ten del Billboard quale terzo 45 giri edito.
La metamorfosi può dirsi compiuta, così come la missione di portare a maggiori livelli di popolarità un marchio che, ridendo e scherzando, giunge qui al decimo Lp di inediti.

Ma i padrini del blue-eyed soul sembrano proprio averci preso gusto, tanto che col seguente H2O (1982, Rca) incrementano ulteriormente gli incassi, piazzando ancora tre singoli nei primi dieci, fra cui il loro più grande successo di sempre, "Maneater". A spadroneggiare è un iper-raffinato funky-soul tutto suadenze di sassofono e rarefazioni strumentali in cui l'attenzione per il dettaglio coglie vette altissime. Come si diceva, l'ormai consueto tris di singoli da top ten è aperto dal giro di basso in swing uptempo di "Maneater", un altro standard poi ripreso nell'hip-hop che accompagna un ritornello circolare con cui si prende confidenza dopo trenta secondi, prosegue col lentaccio assassino di "One On One" (altra prova da fuoriclasse del vocalizzo da parte di Hall) e termina con la cover dell'oldfieldiana "Family Man".
Tutti brani che un ascoltatore radiofonico medio non potrà dire di non conoscere a menadito. E ad ogni modo pure il contorno è colmo di sostanza. Anche nel ruolo fatalmente ristrettosi dalle preponderanti scelte elettroniche, John si muove da par suo con sontuose soluzioni chitarristiche. Portanti nel caso del fresco pop-rock di "Delayed Reaction", di indispensabile supporto funkyin "Art Of Heartbreak" e nella leggera "Guessing Game". Per tacere del contributo vocale che va esteso a tutta la produzione: è sempre John il cacciatore che piazza le trappole nei luoghi dove passa Daryl, cui spetta il compito di inferire il colpo mortale all'ascoltatore ormai indifeso.

Come si vede, gli anni 80 stanno conferendo un'esaltazione creativa e commerciale per cui nulla ai due sembra precluso, ma in essa si insinuano anche gli eccessi che finiranno con lo sfocare i risultati che seguiranno.

Così Big Bam Boom (1984, Rca) è un disco dall'elaboratissima griffe che si porta in dote l'ormai abituale killer single, questa volta incarnato dal contagioso mid-dance di "Out Of Touch" che va a raccogliere sia le istanze synth-pop che vanno per la maggiore nel Nord Europa, sia le ben marcate connotazioni proprie dell'italodisco. Anche questa volta il numero uno è raggiunto in scioltezza tanto nelle vendite che nelle classifiche dei dancefloor, e il brano è di quelli che volenti o nolenti non si scordano.
L'album denota ancora una certa freschezza ma la produzione, tutta giocata sull'invasiva accoppiata fairlight–campionatori, suona a posteriori indigesta persino ai più navigati amanti delle patinature. La scrittura ha ormai una disarmante dimestichezza con i gusti del pubblico (pure troppa, semmai), ma la mano è sempre quella ferma e sicura di chi sa scrivere canzoni.
Restano impresse le orme di una cavalcata esaltante che ha il sapore dell'impresa, ossia il conseguimento del successo senza rinunciare alla qualità, anche se la sbornia e i piatti abbondanti che l'hanno accompagnata impongono una pausa, proprio nel momento in cui tutti si fermano a contemplare gli esiti della stagione musicale, unica e controversa, che sta volgendo al termine.

Il suggello lo avremo con il Live At Apollo, che nel 1985 accompagnerà l'acclamata partecipazione al Live Aid dal palco dell'amata Philadelphia.
Il disco è un ottimo esempio di puro soul veccho stampo, non a caso corroborato dalla presenza sul palco di due totem neri che hanno ispirato la giovinezza di Hall & Oates, e non solo quella: Eddie Kendricks e David Ruffin dei Temptations. Il profluvio Motown che ne scaturisce, con tanto di medley introduttivo dedicato al leggendario combo nero, rappresenta per i due bianchi più soul d'America il coronamento di un sogno. 
La riga viene tracciata con la chiusura del contratto con la Rca, che però l'anno seguente licenzia il secondo album solista di Daryl Hall, Three Hearts In the Happy Ending Machine (1986), sideralmente distante dal debutto frippiano e troppo prossimo a un mainstream abbastanza incolore. Il discreto successo e la co-produzione di Dave Stewart degli Eurythmics non vanno certo a intaccare la sua prescindibilità.

A quattro anni di distanza dall'ultimo lavoro in studio e con un contratto nuovo di zecca, i re mida del rock-soul si ripresentano alle platee mondiali. Ooh Yeah! (1988, Arista) se la gioca con un formato soul in parte spogliato dagli effetti speciali del predecessore, ma è tutto lanci vocali e gridolini, in maniera da dissimulare col mood sofisticato e con la forma sontuosa la preoccupante mancanza di idee. Nulla di apparentemente fuori posto, solita produzione ineccepibile, smaccata propensione al passaggio radiofonico (non stupisce che "Everything Your Heart Desires" raggiunga il numero 3 nella singles chart) e qualche segmento delle intuizioni che furono, come nel corposo funk di "Downtown Life". Ma la parola "love" presente nei tre titoli che chiudono l'album denota una fretta bestiale di presentarsi, come di consueto, all'incasso.
Solo che questa volta c'è davvero poco da ricordare, se non quanto già si sapeva sulla cifra tecnica del duo e del suo entourage, che a questo giro finiscono con l'apparire come una splendida carta regalo a involucro di una scatola vuota.

Daryl Hall & John OatesGli anni Ottanta stanno finendo e portano con sé una flessione nelle vendite (che frutteranno "solo" un disco di platino in luogo dell'abituale doppio): la spia che, assieme alla creatività, anche un discreto numero di ascoltatori inizia a voltare le spalle al progetto.
Probabilmente contrariati dall'inattesa battuta d'arresto, John e Daryl si ripresentano dopo solo due anni con un lavoro dal titolo emblematico di Change Of Season (1990, Arista), esternando nella scelta una consapevolezza che avrebbe meritato miglior sorte.
In questa nuova fatica si assiste al duplice tentantivo da un lato di rintracciare il feeling motown che, più o meno sotteraneamente, ha innervato molte produzioni degli anni 70, dall'altro di dare il taglio da rock-arena che tanto appeal storicamente esercita sulle platee statunitensi. Emblematica in questo senso è la rock ballad "So Close", ultima vera hit da classifica della coppia. La quale, purtroppo senza mediazioni, propina la produzione di Jon Bon Jovi per gridare al mondo che il mainstream continua a essere affar loro. Per gli amanti del genere, fra cui non rientriamo particolarmente, il pezzo è da inserire in un'ideale compilation che vedrebbe a fargli compagnia, oltre allo stesso Bon Jovi, i vari Bryan Adams, Richard Marx e Michael Bolton, e se questa voleva essere l'intenzione l'obiettivo è da ritenersi raggiunto.
Il resto è un'altalena in cui le idee e la qualità fanno solo da comparsa, quasi a ricordarci che, da qualche parte, è pur sempre nascosto il colpo del campione. Ma è proprio la scelta artistica che vanifica anche le migliori intenzioni: non malvagio il black della title track, con tanto di organo e flusso di rimandi corali, è però tamarrissimo l'arrangiamento che fa scivolare la discreta "Everywhere I Look" tra le grinfie di uno sbiadito american-sound che, a vario titolo, giunge a inficiare anche le altre sparute intuizioni.
Per nostra fortuna l'album ottiene soltanto un disco d'oro (poca roba rispetto agli standard) attestandosi al numero 60 della classifica.

Le vendite in ulteriore arretramento fungono come presa d'atto che una nuova stagione è davvero arrivata, ma con essa la difficoltà di rinnovare la formula, impresa clamorosamente riuscita al cambio di decennio precedente. Nel 1993 assistiamo alla terza sortita solista di Hall, Soul Alone (Sony) ma l'album in alcuni suoi episodi richiama il Robert Palmer meno ispirato, lasciando così piuttosto indifferenti.

Per tornare a sentir parlare del duo ricomposto occorre attendere ben sette anni, dopo un silenzio che ci si sarebbe augurati più proficuo. 
Invece, la saga del dimenticabile si rinnova e, se possibile, accentua le sue connotazioni con Marigold Sky (1997, U-Watch) che presenta un tono dimesso che sfocia in un artificio pop-rock in cui viene dato ampio spazio ai fraseggi di chitarra. Nella prima parte si riscontra un sincero tentativo di smarcamento dai cliché che hanno fatto le fortune del gruppo che però finisce con lo spogliarsi anche della sua personalità, declinando in un anonimato, solo in parte mitigato da una sottile vena malinconica ("Romeo Is Bleeding" e "Marigold Sky"), e quando il ritmo sale si va a parare fra censurabili tematiche prossime a Lenny Kravitz.
Nella seconda parte vi è un ripiegamento nei porti più sicuri delle ballad, che però, messe in fila, possono al massimo aspirare a far da colonna sonora ai telefilm pre-adolescenziali di Disney Channel.

Giusto un anno prima la Bmg International immette sul mercato giapponese il quarto disco solista di Hall, Can't Stop Dreaming, poi divulgato nel resto del mondo solo nel 2003. Se si eccettuano la perizia negli arrangiamenti e il consueto, mai smarrito smalto vocale, il lavoro non va al di là dell'elegante esercizio di stile, peraltro inficiato da una riedizione di "She's Gone" che, completamente svuotata del pristino pathos e messa alla stregua del pianobar, avremmo evitato senza patimenti. Insomma, non c'è verso di uscire dall'impasse.

Il primo e unico disco solista di John Oates dopo anni silenzio come Hall & Oates, Phunk Shui (2002, CNR; PS: trattasi di un ricercato disco-funky più impalpabile che brutto), può esser letto come un segnale di rottura del matrimonio artistico.

Ma proprio quando tutto sembra finito, nel 2003 esce Do It For Love sempre per la U-Watch, l'etichetta personale fondata con il preciso scopo di dare continuità al progetto svincolandolo dai contratti capestro delle major americane. Il fu golden duo prova a riprendere in mano la strumentazione tradizionale delegando al banco di missaggio le pretese chiccherie, ma la scaletta annega nello standard molta infamia e poca lode di innocue canzoncine d'amore pericolosamente prossime a una versione adult dei Backstreet Boys.

In questo contesto niente può rimediare Our Kind Of Soul (2004, U-Watch), immancabile album di cover (tre gli inediti) tributo ai vari Al Green, Marvin Gaye, Barry White, Aretha Franklin che, nello svolgmento piuttosto scolastico, funge da promemoria e diletto di due musicisti tanto abili e talentuosi.

Vista la piega presa, non si sfugge neppure alla collezione di canzoni natalizie che viene alla luce nel 2006, Home For Christmas, il classico sfizio di due crooner di lusso che tantissimo han dato e che poco hanno ancora da chiedere alla loro rigogliosa esperienza artistica.

Almeno sessanta milioni di dischi complessivi venduti, una dozzina di canzoni da insegnare all'università del pop, un numero imprecisato di singoli spacca-classifica e almeno dodici anni di carriera sempre ai vertici. Parafrasando il titolo di un loro album, Daryl Franklin Hohl e John William Oates sono stati, insieme, davvero più grandi della somma del loro già enorme talento, facendo del soul biondo con gli occhi azzurri l'imperdibile delizia dell'immaginario popolare americano.

Daryl Hall & John Oates

Discografia

DARYL HALL & JOHN OATES

Whole Oats (Atlantic, 1972)

6,5

Abandoned Luncheonette (Atlantic, 1973)

8,5

War Babies (Atlantic, 1974)

6,5

Daryl Hall & John Oates (Rca, 1975)

7

Bigger Than Both Of Us (Rca, 1976)

7

Beauty On A Back Street (Rca, 1977)

7

No Goodbyes (Atlantic, antologia, 1977)

7

Along The Red Ledge (Rca, 1978)

7

Livetime (Rca, live, 1978)

6

X-Static (Rca, 1979)

6

Voices (Rca, 1980)

7

Private Eyes (Rca, 1981)

7,5

H2O (Rca, 1982)

7

Greatest Hits - Rock 'n' Soul: Part 1 (antologia, Rca, 1983)

7

Big Bam Boom (Rca, 1984)

6

Live At The Apollo (Rca, live, 1985)

7

Ooh Yeah! (Arista, 1988)

5,5

Change Of Season (Arista, 1990)

4,5

Marigold Sky (U-Watch, 1997)

5

Do It For Love (U-Watch, 2003)

5

Ultimate Hall + Oates (doppio cd, antologia, Rca, 2004)

8

Our Kind Of Soul (U-Watch, 2004)

5

Home For Christmas (U-Watch, 2006)

4,5

Do What You Want, Be What You Are: The Music Of Daryl Hall & John Oates (cofanetto, Rca, 2009)

7,5


DARYL HALL

Sacred Songs (Rca, 1980)

8,5

Three Hearts In the Happy Ending Machine (Rca, 1986)

6

Soul Alone (Sony, 1993)

6

Can't Stop Dreaming (Bmg, 2003)

5,5

Laughing Down Crying (Verve, 2011)

6


JOHN OATES

Phunk Shui (Cnr, 2002)

6

Pietra miliare
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She's Gone (live da Abandoned Luncheonette , 1976)
Sara Smile (live da Daryl Hall and John Oates, 1982)
Rich Girl (live da Bigger Than Both Of Us , 1977)
Kiss On My List (videoclip da Voices, 1981)
Private Eyes (videoclip da Private Eyes, 1982)
I Can't Go For That (videoclip da Private Eyes, 1982)
Maneater (videoclip da H2O, 1984)