Kasabian

Kasabian

In love with the psych-rock

Facendo loro le lezioni dei Rolling Stones, dei Primal Scream e della scena di Madchester, gli inglesi capitanati da Serge Pizzorno e Tom Meighan sono diventati un fenomeno globale che ha provato a mettere d'accordo il rock e il pop, con risultati alterni

di Fabio Guastalla

Le origini

Molto prima che fosse la favola calcistica della squadra di Claudio Ranieri a esportarne il nome in ogni angolo del mondo, l'operosa città di Leicester poteva vantare i natali di quella che è stata, ed è ancora, la rock band inglese più celebrata di questi primi scampoli di terzo millennio: i Kasabian. Un titolo conquistato sul campo, giusto per continuare la metafora calcistica, in un'epoca certo non florida per la scena musicale di Sua Maestà: i primi Duemila, ben poca cosa rispetto a quegli anni Novanta in cui proprio i Kasabian iniziano a farsi le ossa. Nel 1997, quando Tom Meighan e soci imbastiscono le prime prove, il britpop è all'apice della sua esposizione mediatica, e pare quasi che in Inghilterra non esista un ventenne che non stia provando a fare breccia nelle chart in patria e fuori. È l'anno in cui i Blur pubblicano l'omonimo album, gli Oasis ribattono con "Be Here Now", i Verve sfondano con "Urban Hymns", giusto per fare tre nomi a caso (si fa per dire).

È alle scuole superiori che i Kasabian, all'epoca non ancora autoproclamatisi tali, si formano. In quel 1997 il multistrumentista Sergio Pizzorno - dalle evidenti origini italiane - ha diciassette anni, così come il bassista Chris Edwards. Tom Meighan, che sogna di diventare un frontman, ne ha appena sedici. A completare la formazione è il chitarrista Christopher Karloff, colui che si prenderà carico di scrivere e arrangiare il primo repertorio della band. Manca un batterista, in verità, e a titolo ufficiale continuerà a mancare fino al 2005, quando nel progetto entrerà a far parte a tutti gli effetti Ian Matthews, più vecchio di una decina d'anni rispetto agli altri componenti e già attivo ufficiosamente con i quattro fin dal 2001.
La formazione, che sceglie inizialmente il nome di Saracuse, decide di intraprendere una strada diversa rispetto a quella battuta dalla maggior parte dei gruppi dell'epoca. Mentre tutti si affannano a calibrarsi nella traiettoria di un britpop ormai in fase di naturale esaurimento, Pizzorno e compagni preferiscono guardare alle radici più profonde del fenomeno, ovvero a quella "Madchester" che tra atmosfere acide e ancheggiamenti baggy aveva cullato la nuova invasione britannica delle classifiche occidentali. Da parte loro, i Kasabian si limiteranno ad aggiungere una spruzzata di psichedelia in salsa orientale e di atmosfere spaziali alla ricetta, giusto per renderla più appetibile ai tempi che corrono.

Le prime prove: dall'Ep a Kasabian

La prima prova discografica dei Kasabian (ancora Saracuse all'epoca) è un Ep autoprodotto e registrato in presa diretta, che esce tra la fine del 1998 e l'inizio dell'anno successivo, e che rivela fin da subito l'amore della giovane band per il "Madchesterismo" più puro, con evidenti echi di Stone Roses e Happy Mondays che riverberano nei tre brani in scaletta ("What's Going On", "Life Of Luxury" e "Shine On"). L'inizio è così promettente che la band - la quale nel frattempo ha preso in prestito il nome da Linda Kasabian, uno dei membri della "famiglia" di Charles Manson - viene scritturata da Bmg, pare, sul filo di lana in un testa a testa con Emi.

Vero o no che sia, la band ha ora tutti i mezzi e il tempo a disposizione per lavorare al meglio al disco d'esordio Kasabian, che però vedrà la luce soltanto nel settembre del 2004. Il lancio dell'omonimo album è anticipato da ben tre singoli che escono in quello stesso anno. Il primo, nel mese di febbraio, è "Reason Is Treason". Un brano che rivela già tutti gli ingredienti essenziali del Kasabian sound: un accattivante uptempo motorik sul quale si innestano le chitarre graffianti del duo Pizzorno-Karloff e le liriche di Meighan, inframezzate da quei cori impiegati spesso e volentieri per rendere più lisergico l'insieme. In maggio è la volta di "Club Foot", destinato a diventare il brano d'apertura della tracklist. È il primo centro pieno della formazione di Leicester, un pezzo ballabile e a suo agio nel mescolare electro-rock e un'idea di pop tanto muscolare quanto sfrontata. Ancora meglio va con "L.S.F.", acronimo di Lost Souls Forever, che esce nell'agosto del 2004 e diventa in assoluto uno degli inni della band inglese. O meglio, un anti-inno per una generazione perdente in partenza ("Ah, oh come on! We got our backs to the wall/ Get on, and watch out, saying yer gonna kill us all") che si trasforma un trip indolente e smaccatamente baggy sulla scorta di un redivivo Shaun Ryder, ma con un appeal radiofonico tirato bene a lucido.
La rosa dei singoli è completata dal quarto della serie, "Processed Beats", che esce insieme all'album e gioca le sue carte con un funk psichedelico a presa rapida ma sostanzialmente insapore, e dal pessimo "Cutt Off", un crossover metropolitano che prova a sdoganare la componente hip-hop per fare breccia in un pubblico più propriamente pop. Non male, invece, lo space-rock di "I.D.", il pop-rock vagamente freak di "Running Battle" e una "Test Transmission" che rappresenta la perla nascosta di questa opera prima imperfetta ma non priva di spunti degni di nota.
Il pubblico britannico, dal canto suo, dimostra fin da subito un certo apprezzamento che vale il quarto posto nella Uk Album Chart.

L'affermazione dello stile: Empire e West Ryder Pauper Lunatic Asylum

A due anni esatti di distanza dalla pubblicazione del primo episodio, Empire dimostra la volontà dei Kasabian di alzare il livello per diventare qualcosa di meglio, e di diverso, rispetto alle tante formazioni che affollano la scena pop-rock albionica del primo decennio del nuovo millennio. Due importanti novità hanno interessato la line-up della band nel breve periodo intercorso: Karloff ha abbandonato la nave, e non è un dettaglio da poco trattandosi dell'autore principale - fino a quel momento - delle canzoni (tre presenti nella tracklist saranno il suo ultimo lascito alla formazione). Il suo posto è preso da Jay Mehler. Nel frattempo a bordo è salito ufficialmente il batterista Ian Matthews, invero già presente nel "Live From Brixton Academy" pubblicato nel 2005 e nel tour che ha visto i Nostri fare da spalla agli Oasis in una sorta di passaggio di consegne. Già, perché la scialuppa di Leicester si appresta a diventare uno yacht di lusso, e la conferma arriva a inizio giugno del 2006, quando Empire si presenta direttamente al primo posto delle classifiche inglesi.
In un decennio post-britpop pieno di luci e ombre per la scena inglese, i Kasabian assurgono al ruolo di nuovi paladini del sound di Sua Maestà. Il che non significa che l'album metta tutti d'accordo, anzi: a fronte dell'entusiasmo del pubblico, come spesso accade, non fanno eco le parole della critica specializzata.
Punta di diamante di Empire, parola utilizzata nello slang interno al gruppo per indicare qualcosa di rilevante, è senza dubbio "Shoot The Runner", brano che diventa immediatamente uno dei superclassici degli inglesi. Anche perché riassume al meglio il sound dei primi Kasabian: un uptempo psichedelico e trascinante, vagamente blues e diffusamente epico; un perfetto inno da stadio, come quelli che hanno già in previsione di riempire. Rilevante è l'esercizio di stile "Me Plus One", debitore del rock albionico dei Sessanta ma con una magniloquenza di arrangiamenti orchestrali che prende il sopravvento nella parte finale del brano. La pomposa "Empire" è, a sua insaputa, un antipasto delle soluzioni che il combo britanno utilizzerà in dosi più massicce quasi dieci anni più tardi.
Ancora più rilevante è la parte centrale dell'album, allorché i Kasabian abbandonano il canovaccio rock per tuffarsi completamente nell'elettronica. "Apnoea" apre il sipario su di un mondo sintetico e selvaggio, indubbiamente debitore della lezione dei vari Prodigy e Chemical Brothers. Il ritmo serrato di "Stuntman", uno dei brani scritti a quattro mani da Karloff insieme a Pizzorno, si proietta in un immaginario dancefloor mancuniano, come se volessimo riprovare l'ebbrezza di capire che cosa volesse dire passare una notte alla Hacienda. "British Legion" è infine la capostipite di una lunga serie di stucchevoli torch song da accendini accesi.
Empire segna il definitivo accesso dei Kasabian nel cuore di milioni di fan, forte di un immaginario britannico che stratifica le influenze in un sound nuovo e riconoscibile. Ma il meglio deve ancora venire.

L'addio di Karloff rappresenta l'investitura di Serge Pizzorno a unico timoniere dei Kasabian: sulle sue spalle grava quasi interamente il peso di scrivere tutta la musica e, di conseguenza, di indicare la rotta sonora. Il risultato di questa "assunzione di responsabilità" ha però conseguenze del tutto personali, perché West Ryder Pauper Lunatic Asylum è con tutta evidenza il miglior frutto della bizzarra mente del musicista italo-britannico, aiutato in cabina di regia da un guru come Dan the Automator (già all'opera con i Gorillaz): psichedelico fino a diventare stralunato - il riferimento di Pizzorno è Syd Barrett, vedi un po' - eppure affilato e incisivo come mai più è accaduto o accadrà nella parabola dei Kasabian.
Per quanto in un certo senso le cose sembrino complicarsi, fino a diventare talvolta introverse e sofisticate (ma non troppo), "West Ryder Pauper Lunatic Asylum" è soprattutto il manifesto stilistico dei Kasabian: l'album più ispirato a livello di idee, più vario a livello stilistico, più incisivo a livello sonoro. Non è un caso che più o meno ogni canzone assomigli a un potenziale singolo. L'indolenza orientaleggiante di "Underdog", a mezza strada tra le melodie degli Oasis (Meighan nei panni di novello Gallagher) e un funk blando à-la Kula Shaker, è la porta di accesso al mondo surreale imbastito da Pizzorno e soci.
"Vlad The Impaler", corredato da gustoso videoclip, è un manifesto quasi goliardico, ma pur sempre un manifesto che rivendica il presunto ruolo principe dei Kasabian all'interno del panorama musicale, non senza una certa malcelata enfasi: "We need to raise the dead/ We need to raise the people" [...] "We are the last beatniks/ The lost heretics!". Il blues psichedelico e in crescendo di "Fire", uno dei migliori pezzi mai scritti dal gruppo, richiama invece un'America da film western, vista attraverso uno specchio deformante.
Se da un lato non mancano i lentoni d'ordinanza (l'iperglicemica "Ladies And Gentlemen (Roll The Dice)", la conclusiva "Happiness"), d'altro canto è nei tanti uptempo che popolano la scaletta che i Kasabian si dimostrano un meccanismo perfettamente funzionante: "Where Did All The Love Go?" e "Fast Fuse" fanno schizzare il metronomo senza rinunciare non solo all'esattezza melodica che sfocia in ritornelli trascinanti, ma anche all'incastro di suoni elettronici e arrangiamenti orchestrali.
L'offerta è però molto ampia: "Swarfiga" è un interludio sintetico prettamente strumentale, "Take Aim" e "Thick As Thieves" due funk scordati che prendono le mosse da una chitarra acustica, la title track un blues a malapena abbozzato che in effetti rappresenta la cosa più vicina alla lezione imparata da Pizzorno presso il "cappellaio matto" di Oxford.
Visionario, apparentemente sconclusionato e caotico, e invece perfettamente architettato, West Ryder Pauper Lunatic Asylum è l'apice stilistico e concettuale dei Kasabian. La nomination come miglior album ai Mercury Prize e la vittoria ai Nme Awards certificano non solo il successo presso il pubblico, ma anche presso una stampa specializzata da sempre piuttosto freddina nei loro confronti.

Il successo planetario

Un successo che, inevitbilmente, si amplifica due anni dopo con Velociraptor!, un disco che a differenza del predecessore non fa proprio nulla per nascondere le sue velleità sempre più mainstream. Anzi, tutt'altro. Alla bizzarria e alla molteplicità di soluzioni di "West Ryder..." fa da contrappunto un sound più confezionato e ipertrofico, volto a rendere memorabile ogni melodia (anche quando non lo è) e a celebrare la grandezza degli attori, ormai illuminati da palcoscenici sempre più mastodontici. I Kasabian si autodefiniscono la band più grande del pianeta, proprio come dei novelli Gallagher, e non c'è da stupirsi se il progetto musicale si muove di conseguenza.
È così che la lezione dei Primal Scream nel singolo apripista "Days Are Forgotten" si trasforma infine, come a compimento di un lungo cammino, in un kolossal tanto epico nello spirito quanto opulento nella forma. Le velleità cinematografiche e retrò di "La Fée verte" e "Let's Roll Just Like We Used To" conferiscono un'immagine classicheggiante alla band, forse sulla scia dei Last Shadow Puppets della coppia Turner-Kane (anche eventualmente per lanciare un verosimile parallelismo con gli altri "campioni" del sound britannico contemporaneo?).
La consueta dose di melassa è invece garantita da "Goodbye Kiss" che però, a essere onesti, è probabilmente la migliore ballad mai partorita dal combo di Leicester - e forse l'unica a non risultare indigesta dopo il secondo ascolto. A "orientaleggiare" un altro po' la formula ci pensa "Acid Turkish Bath (Shelter From The Storm)", mentre l'uptempo di ordinanza è fornito dall'anfetaminica "Velociraptor!", indubbiamente uno dei pezzi migliori di questo lotto.
Il capitolo più bizzarro e lontano dalle abituali premesse è invece rappresentato dalle influenze kraut di "I Hear Voices", mentre "Switchblade Smiles" va a omaggiare in maniera un po' più discreta del solito la scuola Madchesteriana.
La produzione di Dan the Automator conduce i Kasabian verso lidi sempre più commerciali e plasticosi (anche questo album debutta al primo posto delle classifiche Uk), forse snaturandone in parte la visione, o forse, invece, capendone fino in fondo le velleità: che non consistono nel diventare un gruppo alternativo, ma di abbracciare una volta per tutte le masse. In tal senso, Velociraptor!, così lineare e a fuoco, assolve perfettamente al compito. E i capitoli discografici seguenti dimostreranno che con ogni probabilità le cose stanno come descritto in quest'ultimo caso.

Con il nome che continua a girare tra festival e atteggiamenti stravaganti, tre anni dopo, nella primavera del 2014, 48:13 sembra sorpassare definitivamente il sottile confine tra i retaggi rock del passato e il nuovo ruolo di paladini delle chart mondiali. Il tutto, va da sé, viene affrontato con l'immutabile tracotanza che contraddistingue la band e a braccetto di un baraccone di singoli tanto plasticosi e barocchi quanto, perlopiù, maledettamente azzeccati.
L'ego di Serge Pizzorno lo induce questa volta a fare tutto da solo, anche a livello di produzione; al limite, l'appoggio è quello tutto "interno" di Tom Meighan a dare una mano in fase di scrittura. La parola d'ordine è magniloquenza: tutto deve apparire più grande di quello che è. I Kasabian, in altre parole, hanno allestito un altro kolossal per le masse. Non si spiega altrimenti l'anfetaminico baccanale electro-rock di "Bumblebee", l'onda anomala che apre l'album inglobando istanze rock, smargiassate disco e riletture madchesteriane da terzo millennio. Operazione che non trova eguale risultato in "Doomsday", calderone sonico che, singolarmente, fatica ad attecchire, nonostante ci provi in ogni modo: metronomo schizzato, dispiego su larga scala di coretti e ammiccamenti che cercano di dissimulare la scarsa sostanza del brano. A un tentativo fallito corrisponde uno decisamente riuscito: "Eez-eh" sa irretire all'istante con la sua irresistibile base dance presa in prestito dai Chemical Brothers.
Il resto della lunga scaletta (ben quindici brani) si barcamena a sua volta tra alti e bassi: l'affioramento progressivo di "Clouds" si apre in un riff trascinante e in un ritornello da incorniciare. Il migliore brano della nidiata, per quanto ci riguarda. Notevole anche "Stevie" con il suo pop-rock dopato e, ancora una volta, incorniciato da un ritornello sontuoso (c'è pure l'accompagnamento orchestrale) e canticchiabile.
Al contrario, l'electro-rock ritmato di "Treat" e "Explodes" e le lisergiche acque di "Glass" passano innocue, sollevando anzi il sospetto di reiterare con meno forza espressiva soluzioni già ampiamente battute in precedenza. Sospetto che trova conferma in "Bow", ben poco ispirata e di conseguenza del tutto inutile nell'economia dell'album. I titoli di coda sono affidati alle placide derive acustiche di "S.p.s.", non lontane dalla lezione dei fratelli Gallagher.
Con 48:13, i Kasabian tolgono una volta per tutte la maschera: l'intento ormai ben più che lampante è quello di scalare con abituale facilità (e altrettanta spocchiosità) gli indici del gradimento popolare, lasciando di nuovo aperto il dibattito sulla consistenza di un talento che molti preferirebbero votato a un repertorio di tutt'altra sostanza. Per la felicità del pubblico e l'eterno cruccio della critica.

Ciò non toglie che i Kasabian vengano ancora additati come il nome di punto di una scena britannica che, Arctic Monkeys a parte, fatica maledettamente a tenere il passo rispetto alle generazioni del passato. Purtroppo, però, For Crying Out Loud non fa proprio nulla per invertire la rotta. Anzi, per la prima volta la band di Leicester sembra davvero incartarsi su se stessa e sugli stereotipi che si è cucita addosso.
La differenza sostanziale tra un album come 48:13 e For Crying Out Loud, peraltro accomunati da copertine di rara bruttezza, non è negli intenti - come vorrebbero farci credere loro - quanto nella resa finale. Si può discutere del fatto che pure allora ci fosse più apparenza che effettiva sostanza nella formula dei Kasabian, ma le varie "Bumblebee", "Eez-eh", "Stevie" e "Clouds" producevano davvero un effetto trascinante, o perlomeno apparivano credibili anche al netto dell'ipertrofica produzione che dettava legge. Ecco: in confronto, il singolo "You're In Love With A Psycho" o le anfetaminiche "Ill Ray (The King)" e "Twentyfourseven" sfigurano proprio perché cercano di ricalcare quei passi, ma con meno idee e apparente convinzione.
Serge Pizzorno ha enfatizzato la scelta di tornare alle chitarre e a un'idea invero piuttosto personale del classic rock, quasi che al giorno d'oggi fosse rivoluzionario imbracciare una chitarra anziché cimentarsi ai synth, ma la verità è che For Crying Out Loud è un bignamino di tutto quello che i Kasabian sono - o forse sono stati. Al di là di certe pretese danzerecce sopracitate, scorgiamo una "The Party Never Ends" che torna stancamente proprio nei territori di "West Rider Pauper", una "Wasted" che bazzica i territori del power-pop in salsa britannica, una "Comeback Kid" confezionata per esplodere nel più classico (e banale) dei cori da stadio, una "Are You Looking For Action" da dancefloor settantiano, e poi l'immancabile ballata acustica "All Through The Night" che comunque, nel contesto, non sfigura.
Facile, proprio a causa del contesto, trovare a occhi chiusi i migliori capitoli del lotto: "Good Fight", un onesto midtempo incorniciato da un ritornello appiccicoso, e ancora più "God Bless This Acid House", con le chitarre elettriche a far decollare un pezzone che sembra voler mettere d'accordo l'insostenibile spensieratezza del britpop e gli scenari surf-rock dei Beach Boys (con tanto di coretti d'ordinanza).

Un passo indietro che fa riflettere sul percorso intrapreso negli anni dai Kasabian, ormai concettualmente più vicini al rock da stadio dei Muse (con cui pure si sono esibiti varie volte dal vivo) che all'integrità morale dei modelli ai quali hanno attinto buona parte del loro sound. Come dei giani bifronti, gli inglesi vanno avanti portando avanti le due facce della stessa medaglia. Anche perché, a ben vedere, una sola non sarebbe ovviamente sufficiente.

L'addio a Tom Meighan e il nuovo corso

C'è un bisogno di spensieratezza che sembra a ogni costo voler passare attraverso le dodici canzoni di The Alchemist's Euphoria, il settimo album in studio dei Kasabian, pubblicato nell'agosto del 2022. I motivi si capiscono facilmente: l'addio traumatico all'ex frontman Tom Meighan ha costretto giocoforza la band di Leicester a cambiare i piani in corsa, obbligando Serge Pizzorno a vestire, definitivamente, il ruolo di leader maximo della band inglese. Una band che, già nei lavori precedenti, aveva deciso di investire tutto su un pop-rock radiofonico negli intenti e tracotante nei modi, calibrato su misura su una dimensione live sempre più preminente rispetto a quello che la formazione di Leicester è ormai in grado di offrire su disco. 

Il nuovo album non fa che rinnovare gli ingredienti appena descritti, aggiungendovi un contorno talvolta discutibile (titoli in caps lock ricchi di parole storpiate, un immaginario ambientato in contesti spaziali, una copertina che fa il paio con questi ultimi...) e che aumenta la sensazione di trovarsi al cospetto di un gruppo ormai orientato più all'immagine che alla sostanza. E trattandosi dei Kasabian, un progetto che da sempre appare incapace di esprimere appieno il suo grande potenziali, la cosa dà ancora più noia.

La cifra del progetto è tutta racchiusa nei tre minuti radiofonici di “ALYGATYR”, pezzo effettivamente dotato del giusto “tiro” e prossimo inno per stadi e piazze adoranti: una nuova “Bumblebee” o “Eez-eh” per le masse. È chiaro che sia questo ormai ciò viene meglio ai Kasabian, e va anche bene così. Sempre più distanti dal rock tout-court, gli inglesi non dimenticano la torch-song d'ordinanza, “THE WALL”, una ballad mezza camuffata ma a ogni buon conto destinata a fare illuminare gli schermi dei telefonini al prossimo tour. 

Fuori dalla comfort zone, le cose si complicano eccome. Il crossover estemporaneo sfoggiato in “SCRIPTVRE” richiama forse involontariamente – o forse no - i Limp Bizkit (è già tempo di revival anni Zero?), ma l'effetto sorpresa non colma le lacune di un pezzo abbastanza anonimo. Va anche peggio con “ROCKET FUEL” e “STRICTLY OLD SKOOL”, brani che ben raccontano la confusione di idee regnante, tentativi maldestri di reinventarsi senza snaturarsi, con una “STARGAZR” a rappresentare forse (?) l'ultima frontiera della sperimentazione dei Kasabian. Ci si consola appena con “T.U.E. (the ultraview effect)” e “CHEMICALS”, ispirata nel suo involucro synth-pop la prima, gagliarda e quasi liberatoria la seconda. Troppo poco, obiettivamente, per riabilitare un altro album sottotono.

La rinascita di Meighan e la sfida agli ex compagni

Come accennato in precedenza, il pesante uso di droghe e alcool e soprattutto una sentenza che nel 2020 lo condannò a 200 ore di lavoro non retribuito a causa delle violenze perpetrate e da lui riconosciute nei confronti dell’allora compagna Vikki Ager (poi sposata nel 2021), avevano portato Serge Pizzorno e soci a defenestrare Meighan dal suo ruolo all’interno della band di Leicester.
Da quel momento Tom di strada ne ha compiuta tanta, sicuramente impervia e dura, ricostruendosi innanzitutto una vita conforme, esterna da ogni tipo di dipendenza da sostanze.
Dopo aver scontato la pena inflittagli, Tom ha rimesso in sesto anche la sua vita lavorativa, inventandosi anche cantautore, lui che non aveva mai scritto nemmeno un briciolo di una canzone.

The Reckoning è un titolo emblematico: la resa dei conti, proprio ciò che resta dopo il meglio o, nel suo caso, il peggio che si è costruito nella propria esistenza.
Il disco è il suo manifesto di rinascita, realizzato grazie al fondamentale contributo di Gareth Young e Bnnan Infadel.

In brani come “Rise” e “Deep Dive” sembra di tornare ai fasti di “Shoot The Runner”, situazione che si rileva  chiaramente anche in “Shout It Out”, “Everyone’s Addicted To Something”, “Movin’ On” e soprattutto in “Acrobat”, forse il momento meglio riuscito in tal senso.
Tralasciando il rock innocuo à-la Bon Jovi di “Daytona Racing”, in “Thinking On Your Feet” si ritrovano flebili accenni allo stile Kasabian del primo album, grazie a qualche slancio elettronico che potrebbe fare le fortune di un buon montatore di remix per finalità dancefloor.

C’è spazio anche per passaggi più intimi, ovviamente sofferti (“Scared”), corroborata sapientemente dall’uso di archi digitali e arrangiamenti consoni al messaggio di Meighan, in preda al più assoluto sconforto e alla paura di non riuscire a risalire la china.
Come indicato in apertura, tra i brani, nemmeno troppo ermetici nei contenuti, l’artista inglese non teme l’accenno al suo rapporto conflittuale con gli ex compagni e chissà se il Darth Vader abbattuto evidentemente con la spada laser o l’agitatore di pellicce finte (qui i dubbi sono davvero pochi) che Meighan cita nell’interessante title track, siano polemici riferimenti al suo ex compagno e amico Serge Pizzorno, a cui Tom contesta di aver provato più volte ad estrometterlo dalla band, anche prima delle vicende del 2020, per gelosia del suo carismatico ruolo di frontman.

Contributi di Cristiano Orlando ("The Reckoning")