Kent

Kent

I duchi di Svezia

La band di Eskilstuna è stata una delle più popolari nella storia della musica svedese, dominando in patria per un ventennio, tra melodie irresistibili, una voce inconfondibile, continui cambi stilistici e una voglia sempre viva di ricerca musicale

di Stefano Bartolotta

Undici dischi al numero uno su dodici pubblicati, oltre tre milioni di copie vendute, radio invase dalle loro canzoni, concerti sempre affollatissimi e un’intera generazione di appassionati di musica letteralmente cresciuta con loro. Questo, per la Svezia, sono stati i Kent, che dalla metà degli anni Novanta fino allo stesso periodo degli anni Dieci hanno letteralmente dominato in patria e si sono fatti ampiamente rispettare in tutta la Scandinavia. Certo, hanno anche fallito il tentativo di farsi conoscere nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti, quando hanno ricantato le proprie canzoni di fine anni Novanta in inglese e accompagnato le pubblicazioni con veri e propri tour con scarsi riscontri. Però, a conti fatti, la storia di questa band deve essere necessariamente considerata come un esempio di grande successo.
Per dare in pieno l’idea di quanto i Kent fossero seguiti e amati in Svezia, basterebbe dire che, a scioglimento avvenuto, la Tv nazionale ha ospitato due ore di documentario nel quale, ripercorrendo tutto il ciclo di realizzazione dell’ultimo album, la band spiegava i motivi della separazione, che, per sintetizzare, erano legati al fatto che il leader Jocke Berg si era stufato degli effetti negativi della popolarità e voleva uscire definitivamente dalle luci dei riflettori.

Il nucleo dei Kent che rimarrà insieme dall’inizio alla fine faceva già parte di un’altra band, i Jones & Giftet, già dal 1990. Joakim “Jocke” Berg alla voce, Martin Sköld al basso, Markus Mustonen alla batteria e il finlandese Sami Sirviö alla chitarra suonavano con Thomas Bergvist al synth, ma quando quest’ultimo venne rimpiazzato da Martin Roos, il nome del gruppo cambia prima in Havsänglar e, in seguito al trasferimento in blocco a Stoccolma, in Kent. Nella capitale, i cinque riescono a far ascoltare la propria musica alle orecchie giuste, Roos abbandona i synth per suonare la chitarra ritmica e dare alla band un suono puramente rock, e arriva il momento della pubblicazione del primo album.

Jocke Berg, un genio scontroso

Al centro di tutto, fin da subito, c’è la figura di Jocke Berg, determinante in tutto il percorso della band, grazie alle proprie qualità compositive e interpretative e anche all’innata leadership. Come detto poco sopra, anche lo scioglimento è dovuto a una sua decisione, e nel documentario gli altri membri del gruppo lasciano chiaramente intendere che avrebbero continuato, ma che Berg era decisivo nell’economia della band e che, quindi, tiratosi indietro lui, non aveva più senso andare avanti.
Berg ha avuto due meriti indiscutibili. Per prima cosa, è stato un creatore di melodie impareggiabile: per tutti e dodici i dischi, più le tante B-side, la qualità melodica non è mai venuta meno, anche nei lavori meno riusciti. Inoltre, dal punto di vista vocale, è stato un interprete non solo espressivo, stiloso e carismatico, ma capace anche di dare alla lingua svedese, piena di suoni duri e gutturali, una musicalità sbalorditiva.

Più discutibili, invece, sono i suoi atteggiamenti extra-musicali, soprattutto quelli nei confronti dei fan. Berg, infatti, ha sempre partecipato abbastanza attivamente alle discussioni in Rete, prima dell'avvento dei social network, quando c’erano i forum dedicati alle band, ma spesso lo faceva per maltrattare i fan, apostrofandoli con toni nient’affatto diplomatici. Nemmeno nei confronti dei seguaci internazionali si è comportato meglio, anche se la modalità è stata diversa, perché in questo caso è stata messa in campo una indifferenza a oltranza, quasi ostentata. Dopo l’abbandono dei mercati internazionali, un discreto numero di persone ha comunque continuato a seguire i Kent, animando il forum e recandosi appositamente in Scandinavia per i concerti, e mai una singola parola di ringraziamento si è levata da parte sua e del resto della band, come se la colpa del fallimento fosse di chi, invece, aveva fatto di tutto affinché le cose andassero meglio.

Musicalmente, come vedremo, i Kent hanno avuto importanti cambi stilistici nel corso del tempo, e in questo aspetto, almeno alcuni input venivano anche dagli altri membri del gruppo, ma certamente, un compositore e un cantante così non poteva che essere una figura prominente, e così è stato, fino alla fine.

Gli inizi da rock band e i primi successi

Kent
(1995) è l’unico disco della band a non aver conquistato la vetta delle classifiche nazionali, e questa non è l’unica particolarità che lo distingue dagli altri. Lo stile, infatti, è decisamente più grezzo e spigoloso rispetto a tutto ciò che il gruppo ha realizzato successivamente. Le melodie sono poco rotonde e definite, il cantato mette poca attenzione alla pulizia formale e il suono, puramente rock, è infarcito di ruvidezze assortite. Musicalmente, i Kent hanno quasi sempre preso ispirazione dal Regno Unito, ma qui, e solo qui, suonano più come una band statunitense, e più nello specifico, un gruppo appartenente a quel filone che accomunava Pixies, Dinosaur Jr. e Lemonheads sul finire degli anni Ottanta.
Le dinamiche sonore sono tutte basate sulle suggestioni create da distorsioni, riverberi e sovrapposizioni, con l’imperfezione come stella polare stilistica ed estetica. Il disco si distingue dalle band sopracitate soprattutto per un senso di ariosità e positività che in esse non è presente, mentre qui appare piuttosto sviluppato. Le canzoni, nel loro essere un po’ scorbutiche, hanno anche un che di rassicurante per l’ascoltatore attento, o che comunque voglia dar loro più di una possibilità. Viene facile lasciarsi quasi cullare da esse, o immaginarsele come colonna sonora di un viaggio intenso ma anche senza scossoni, né eccessive difficoltà.
Un aspetto importante di questo lavoro è la varietà tra un brano e l’altro, a cominciare dagli episodi più rappresentativi, ovvero i singoli. "När det blåser på månen" è una ballad malinconica e introspettiva; “Som vatten” è un midtempo avvolgente e intrigante; “Frank”, che chiude l’album, viaggia nuovamente su ritmi lenti ma ha un sapore di rivalsa e di voglia di chiudere qualcosa vedendone i lati positivi; "Jag vill inte vara rädd" rappresenta, invece, il lato più adrenalinico del disco e ne è il vertice qualitativo per come riesce a suonare trascinante senza esagerare con la potenza, ma mettendo in campo una melodia che non si stacca più dal cervello e che risulta ben valorizzata da un impianto sonoro di buona immediatezza, ma mai banale o scontato. Le altre canzoni, comunque, sono tutte all’altezza e non c’è mai un singolo momento di calo in tutto il disco.
È normale che questo debutto non abbia venduto come tutti i dischi successivi, ma per gli appassionati più attenti i Kent si presentavano come diamanti grezzi dal potenziale pressoché infinito e meritavano, quindi, di essere seguiti.

Basta attendere solo un anno per avere la conferma di questa sensazione e trovare una band indubbiamente migliorata, capace di conquistare per la prima volta - e meritatamente - la vetta delle classifiche. Verkligen (1996) esce a un anno esatto dal suo predecessore (entrambi il 15 marzo) e riparte dal debutto, migliorandolo sotto diversi punti di vista. La band è diventata un quartetto, con l’abbandono da parte di Martin Roos, ma ciò non impedisce il deciso passo in avanti. Le melodie sono più rotonde e coinvolgenti; il cantato è più ordinato senza mancare di intensità; il suono è anch’esso più pulito, e c’è una ricerca molto più dettagliata dal punto di vista delle dinamiche, perché, abbandonate quelle legate alle distorsioni e ai riverberi, ci si concentra di più su quelle tra linee melodiche vocali e chitarristiche, tra saliscendi di intensità e alternanze vuoto-pieno e tra parte musicale-vocale e sezione ritmica. Anche la ricerca compositiva è più approfondita, con alcune canzoni che escono dallo schema strofa-ritornello per diventare lunghe cavalcate con corpose suite strumentali al proprio interno.


Verkligen è un disco di grande immediatezza, ma che contiene svariate raffinatezze, tutte al servizio delle canzoni e in grado di valorizzarle al meglio. Dal punto di vista dei riferimenti, certamente i Radiohead di “The Bends” sono un paragone ineludibile, ma il disco della band di Oxford è più rabbioso e potente, mentre quello dei Kent è più scorrevole e arioso.
Il singolo anticipatore e che farà da traino all’intero album è "Kräm (så nära får ingen gå)", canzone impeccabile ed efficacissima nella propria linearità, con al suo interno molte delle qualità citate finora. In particolare, il modo in cui il riff di chitarra iniziale si inserisce nel ritornello è perfetto e rende il brano davvero trascinante.
Come singoli successivi viene dapprima scelta la frizzante “Halka” e poi viene dato spazio al lato introspettivo del disco con l’ottima ballad “Gravitation”. Ma in realtà il meglio del disco sta altrove, ovvero in una "Istället för ljud” emotivamente intensissima e profonda, con l’esplosione nel ritornello dopo la quiete della strofa che non può non commuovere, e nei due brani che, come detto, escono dalla forma canzone tradizionale, ovvero "En timme en minut" e la conclusiva "Vi kan väl vänta tills imorgon", entrambe capaci di far vivere all’ascoltatore dei veri e propri viaggi, il primo dall’andamento quasi circolare, e il secondo basato su un progressivo crescendo, ed entrambi così coinvolgenti da vincere qualsiasi rischio di noia, nonostante la lunga durata.
Oltre al successo in termini di vendite, i Kent, grazie a Verkligen, iniziano a fare incetta di premi musicali in patria, e sono già uno dei nomi più importanti nel panorama pop-rock scandinavo.

L’arrivo di Harri Mänty e l'arricchimento del sound

La strada verso un continuo miglioramento qualitativo è ormai una scelta senza possibilità di ritorno, e per riuscire nella missione, i Kent reclutano un secondo chitarrista, lo svedese cresciuto in Finlandia Harri Mänty, e lasciano passare un anno e otto mesi per la pubblicazione del terzo disco.
Isola arriva nei negozi il 12 novembre 1997 ed è, ancora oggi, uno dei dischi preferiti dai fan, se non il più amato in assoluto. In particolare, il singolo anticipatore "Om du var här" e l’altro 45 giri e brano conclusivo del disco, “747”, sono tra i momenti più iconici dell’ampia produzione della band. Il primo è tra quelli basati sullo schema strofa-ritornello, ma ha un modo unico di convogliare tristezza e voglia di rivalsa, con quel giro di chitarra inziale così intenso e che cattura all’istante, la melodia della strofa che lo segue in totale naturalezza e il ritornello devastante e che non fa prigionieri. Il secondo, invece, appartiene alla categoria degli episodi più lunghi e liberi nella forma, partendo anch’esso da un giro di chitarra efficace e da una melodia vocale che si associa perfettamente ad esso, ma su toni più morbidi, sia musicalmente che emotivamente, e lasciando andare la fantasia attorno a questo scheletro iniziale, per creare un risultato dal fascino ammaliante.

Tutto il disco mette splendidamente in scena la voglia di partire dal riuscitissimo disco precedente per perfezionarne la formula. I Kent di Isola sono in versione più cupa rispetto al loro passato e, se ancora si volesse partecipare al gioco dei riferimenti, ai Radiohead si potrebbero aggiungere gli Suede del periodo con Bernard Butler. Le melodie sono sempre più impeccabili, i ricami chitarristici interagiscono sempre meglio con le linee melodiche principali e con la sezione ritmica, il cantato suona sempre più spontaneo, espressivo e profondo, gli arrangiamenti sono più complessi ma i diversi elementi sono messi insieme in modo che non manchi una forte compattezza complessiva. Si cominciano però a percepire anche altri elementi rispetto alla consueta impalcatura rock - come il piano, degli archi, una drum machine - e il disco lascia senza fiato dal primo all’ultimo momento.
Volendo isolare alcuni episodi più riusciti, non si può non citare l’iniziale "Livräddaren", coi suoi micidiali saliscendi e l’atmosfera avvolgente, la delicatissima "Innan allting tar slut", eterea e straziante allo stesso tempo grazie, tra le altre cose, a un uso perfetto della drum machine che aiuta a dare al brano una vitalità sottesa ma percepibile, e una “Bianca” in controtendenza rispetto al resto del disco, visto che richiama quasi più il passato, con le sue chitarre ruvide e taglienti, e che, posta all’inizio della seconda parte del disco, imprime la sterzata necessaria per dare un po’ di imprevedibilità in più e mettere l’ascoltatore nel giusto stato d’animo.

I riconoscimenti a fine anno si sprecano, ma la band svedese decide di non sedersi sugli allori e di tentare, invece, di ricantare il disco in inglese, aggiungendo un inedito e provando a sfondare nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti. Approfondiremo questa scelta nel paragrafo successivo; qui diremo solo che, per via di essa, il quarto disco Hagnesta Hill arriverà, nella sua versione in svedese, oltre due anni dopo “Isola”, ovvero il 6 dicembre 1999.

Hagnesta Hill alza ulteriormente l’asticella dell’ambizione per i Kent. Ci sono non solo più canzoni, ma soprattutto più idee, sia dal punto di vista compositivo che da quello sonoro, con la presenza di un maggior numero di strumenti e di dinamiche non ancora sperimentate in sede di arrangiamento. Il singolo anticipatore “Musik Non Stop” è il primo tentativo della band di fare una canzone con ritmi ballabili; "Ett tidsfördriv att dö för" rappresenta la voglia di portare a compimento la strada della piano ballad, già intrapresa con la citata "Innan allting tar slut"; “Berg & Dalvana” vede una presenza dei piatti nella sezione ritmica mai così marcata.
Nel resto del disco, si rivisita tutto il repertorio precedente, ma sempre con qualche dettaglio e miglioramento in più, compreso l’uso dei riverberi che non appariva più dal debutto. È un disco in cui si percepisce chiaramente una cura maniacale di ogni aspetto possibile e immaginabile e, indubbiamente, dal punto di vista della realizzazione e dell’esecuzione è un ulteriore passo in avanti. Seppur giudicato da alcuni fan meno spontaneo di Isola, Hagnesta Hill è oggettivamente un disco maestoso, che chiude come meglio non si potrebbe la prima fase della carriera dei Kent, quella in cui ogni lavoro è stato in qualche modo un’evoluzione del precedente.
Contrariamente al disco precedente, le migliori canzoni non sono state scelte come singoli, anche se anche la ballata "Kevlarsjäl" e la robusta “En himmelsk drog” non sfigurano certamente. La palma dell’episodio più valido va senza dubbio alla spettacolare "Stoppa mig juni (lilla ego)": un ottovolante di emozioni racchiuso in un involucro di bellezza estetica quasi stordente, quasi sei minuti e mezzo di puro paradiso. Non si può poi non segnalare “Beskyddaren”, ariosa e struggente allo stesso tempo, perfetta sia nella melodia, sia in un arrangiamento camaleontico che in ogni momento valorizza al meglio lo scheletro della canzone, con una delle interpretazioni vocali più sentite di Jocke Berg.
Ogni brano meriterebbe comunque di essere approfondito e se già fino ad ora tutte le canzoni che i Kent hanno messo su disco sono almeno buone, qui non si va mai al di sotto dell’eccellenza.

Le versioni in inglese

Eccoci al capitolo più controverso della carriera dei Kent, quello nel quale la band ripubblica prima Isola e poi Hagnesta Hill con il cantato in inglese, e con qualche aggiustamento rispetto alle versioni in svedese, con l’obiettivo dichiarato di ampliare il proprio seguito a livello europeo se non mondiale. L’investimento della Bmg è massiccio in termini sia di capillarità di distribuzione dei dischi che di ampiezza dei tour a supporto degli stessi, con la band impegnatissima in tutta Europa e negli Stati Uniti.
Dicevamo degli aggiustamenti: Isola contiene una canzone in più, intitolata “Velvet”, ma per il resto aderisce al gemello svedese anche nell’ordine dei brani; Hagnesta Hill presenta, invece, molte più differenze: l’ordine dei brani viene leggermente modificato e due canzoni ("Ett tidsfördriv att dö för" e “Insekter”) non vengono tradotte, sostituite da altrettanti inediti in inglese (“Quiet Heart” e “Just Like Money”).

È difficile, a oltre vent’anni di distanza e con tutto ciò che i Kent sono stati in grado di fare successivamente, giudicare la bontà di questi rifacimenti. Indubbiamente, per l’ascoltatore meno attento o meno interessato all’analisi, la prima impressione è che sia meglio ascoltare musica cantata in una lingua che si conosce, o alla quale si è comunque più abituati, ma per chi invece ha una maggior apertura mentale e non si lascia intimidire dalla barriera linguistica, le versioni in svedese sono indubbiamente migliori, perché suonano più naturali, più vere e più sentite. Tutta la parte vocale, in particolare, è evidentemente migliore in svedese, perché si sente chiaramente che Berg in inglese canta come se fosse costretto a farlo e non ci mette lo stesso pathos interpretativo e nemmeno quella capacità di uscire leggermente dalla metrica per dare più spinta emotiva alla canzone. Soprattutto nelle tracce di Hagnesta Hill questa mancanza è chiara e lì da ascoltare per chi vuole metterci un minimo di attenzione. Probabilmente il leader aveva già capito che non conveniva andare avanti su questa strada.

La scelta, però, non va condannata in toto, intanto perché senza di essa probabilmente chi, da qui in poi, non ha smesso di seguire i Kent fuori dalla Scandinavia avrebbe fatto molta più fatica a imbattersi nella band; poi va detto che, dal punto di vista del mercato, il terreno sembrava quello giusto, dato che imperavano band come i Radiohead e i Travis e i Kent potevano essere visti come una band capace di rielaborarne lo stile in modo personale e innovativo. Infine, un paio di versioni inglesi sono indubbiamente ben riuscite, e parliamo di “If You Were Here” (da Om du var här) e di “747”. Sarà per la metrica simile, sarà per le immagini ben congegnate nel testo in inglese (“I don’t sleep I dream” e “Silence, a violent whisper”), ma almeno questi due brani non hanno quasi nulla da invidiare agli originali.
Un altro punto a favore del tentativo di cantare in inglese è la buona riuscita dei relativi concerti, o almeno di quello a cui il sottoscritto ha assistito al Rolling Stone di Milano nel maggio del 2000. La presenza di pubblico arrivava a fatica al centinaio di persone, ma sul palco, la band ha suonato benissimo e ha dato la sensazione di divertirsi. C’è stato anche un minimo dialogo coi fan da parte di un Berg rilassato e di buon umore: per quei pochi che ci avevano creduto, una serata da ricordare.

La raccolta di B-side: dare visibilità al repertorio nascosto con creatività

bsidorLa sopracitata prima fase della carriera dei Kent ha un’appendice importante a fine 2000, precisamente il 29 novembre: esce, infatti, la doppia raccolta di B-side, intitolata semplicemente B-Sidor 95-00. Come molte band dell’epoca, i Kent davano una certa importanza alle canzoni da includere nei cd single, ed era quindi giusto mettere in luce al meglio anche questo lato dello sforzo creativo del gruppo. Tra l’altro, al contrario dei lavori precedenti, questa compilation viene distribuita con la stessa ampiezza dei dischi in inglese, ed è pertanto probabile che abbia rappresentato per i fan internazionali il primo approccio col cantato nella loro lingua madre.
Mantenendo fede alla propria natura di band sempre in moto dal punto di vista creativo, i Kent non si accontentano di prendere le canzoni e inserirle nella raccolta, ma arricchiscono il tutto con due inediti e due rifacimenti di B-side già presenti in questa compilation. Questo nuovo materiale, ovviamente, richiama da vicino i contenuti di Hagnesta Hill, e anche per quanto riguarda la qualità, il risultato è ai livelli dell’ultimo disco. Il resto della raccolta riflette in pieno l’evoluzione album dopo album, così, in base al singolo da cui sono state tratte, le B-side rappresentano bene il proprio periodo di riferimento. Nel secondo cd, poi, sono presenti alcune versioni un po’ più estrose, comunque già incluse nei singoli, che mettono in mostra una voglia di sperimentare con spensieratezza.

Alcune di queste B-side sono, ancora oggi, tra le canzoni più amate dai fan e, in alcuni casi, la band le ha eseguite dal vivo per la grande gioia di tutti. Su tutte spicca “Utan dina andetag”, saldamente in cima alle canzoni più popolari su Spotify e suonata anche nel tour d’addio. Nel cd1 vanno necessariamente menzionate “Elever” e “December”, mentre nel cd2 spicca la doppietta iniziale “Livrädd med stil” e “Verkligen” (già solo il fatto che un album si intitoli come una B-side dovrebbe far capire l’importanza di quest’ultima).

Anche questa compilation vende benissimo, arrivando a un rispettabilissimo numero 2 in classifica, altissimo per essere una raccolta di B-side. Per i Kent è un’iniezione di fiducia dopo il tentativo fallito di ampliare significativamente il proprio seguito internazionale; in Svezia sono sempre più delle star, ed è ora per loro di proporre al pubblico un disco capace di mandarli in orbita dal punto di vista commerciale.

Gli anni del massimo successo commerciale

È difficile immaginare che una band possa avere ancor più successo dopo tre dischi consecutivi finiti al numero 1, ma con Vapen & Ammunition, pubblicato il 15 aprile 2002, è esattamente ciò che accade per i Kent. Questo, infatti, è l’unico disco con cui la band ha conquistato contemporaneamente la vetta della classifica non solo in Svezia, ma anche in Norvegia e in Finlandia ed è di gran lunga l’album più venduto dei Kent, con ben 600mila copie. Tutto questo è avvenuto senza un tour a supporto, e quando poi il gruppo ha voluto suonare almeno una volta, il 6 giugno del 2003, ovvero a distanza di oltre un anno dall’uscita del disco, era così amato da riempire senza problemi lo stadio di Stoccolma, e con un ulteriore particolare certamente importante e non facile da ottenere: aver convinto ogni singolo partecipante al concerto a vestirsi unicamente di bianco.

Ma come va giudicato Vapen & Ammunition dal punto di vista qualitativo? Come detto, ogni lavoro dei Kent, anche il meno riuscito, ha comunque il pregio di contenere ottime melodie, e certamente qui l’ispirazione di Berg da questo punto di vista è ancora molto viva. Il problema del disco è proprio quello di essere stato dichiaratamente ideato per ottenere il massimo successo commerciale. Non è un male di per sé, ma nella pratica succede che l’andamento delle canzoni sia un po’ troppo scontato e dell’intensità emotiva che aveva finora caratterizzato i Kent ne sia rimasta poca. Il suono è più addomesticato, non solo per la maggior presenza di tastiere e synth, ma anche per una chiara scelta di non voler mai uscire dalle righe. Lo stesso si può dire dell’interpretazione vocale, accompagnata per la prima volta da voci femminili, sia in duetto che come seconde voci, e anche del songwriting, con la sparizione dei brani lunghi e articolati in favore del 100% di aderenza alla forma canzone tradizionale.

La band aveva chiaramente detto, prima dell’uscita, che il suo scopo era quello di realizzare un lavoro con dieci potenziali singoli su altrettante canzoni, e il risultato è stato ottenuto, purtroppo a scapito dei pregi di cui sopra. Solo in poche canzoni permane un buon impatto emotivo, e parliamo di quelle più introspettive: “Duett”, che, come si capisce dal titolo, è un duetto con la cantante Titiyo ed è una canzone gentile ma in grado di toccare le corde giuste per risultare coinvolgente, e le due conclusive “Elite” e “Sverige”, con la prima che è quella che più si avvicina al passato della band e la seconda che è invece un riuscito esperimento solo voce e chitarra acustica.
Però, da qui a definirlo un brutto disco, ce ne passa e, nonostante faccia indubbiamente parte del podio al contrario dei Kent, può risultare piacevole all’ascolto, sia, come detto, per via delle ottime melodie, sia perché il livello di patinatura non è eccessivo.
“Pärlor” e “Socker”, in particolare, sono sufficientemente frizzanti e incisive. I singoloni spacca-classifiche “Dom andra” e “Kärleken väntar” sono canzoni discrete, e l’unico episodio che può indubbiamente essere definito brutto nel disco è l’altro singolo “FF”, un’escursione in territori dance dozzinale e banalissima, ma che, come detto, al pubblico generalista è piaciuta molto. Almeno il singolo di “FF” ha come pregio il fatto che, come double A side, contiene “VinterNoll2”, una sferzata di vitalità e di intensità rock che ci voleva proprio e che andrà addirittura a finire nel popolarissimo videogioco “Guitar Hero: World Tour”.

I fan internazionali verranno per un po’ lasciati in attesa della versione in inglese, che però non arriverà mai. Anni dopo, verrà pubblicata una versione demo del rifacimento di “Duett”, intitolata “Love Undone”, abbastanza buona nonostante il testo un po’ banale, ma questo sarà tutto. Non sentiremo più cantare Jocke Berg in inglese.

Il ritorno all’intensità

dujagdodenDopo il trionfale “concerto bianco” di Stoccolma, i Kent si prendono un meritato anno sabbatico e poi si ritrovano per registrare il loro sesto album, che viene pubblicato il 15 marzo (curiosamente, la stessa data dei primi due dischi) del 2005.
Du & jag döden
rimette le chitarre al centro del suono e, soprattutto, segna il ritorno dell’intensità che aveva caratterizzato i Kent prima di Vapen & Ammunition. È un disco piuttosto cupo, a cominciare dal titolo e dalla copertina, con la particolarità che la versione in cd viene venduta in un digipack sì trasparente come tutti, ma scuro, e anche il lato che viene letto dal lettore è nero e non grigio come normalmente avviene.
Jocke Berg, sempre molto onesto nelle proprie dichiarazioni, aveva preso le distanze dal disco precedente e, alle parole, fa seguire i fatti. Così tutti i brani risultano piuttosto lunghi, anche quelli più aderenti alla forma canzone tradizionale, nei quali, oltre alle chitarre, gioca un ruolo fondamentale il basso.
È un disco denso e in qualche modo monolitico, melodico, ma che esprime una idea di impenetrabilità, attraverso uno strato di densa oscurità, in bilico tra vita e morte.
Passando alla menzione delle singole canzoni, non si può non cominciare da una delle più importanti di tutta la carriera dei Kent, e che da molti fan viene ritenuta la loro migliore in assoluto, ovvero “Mannen i den vita hatten (16 år senare)”, una vera girandola di melodie pazzesche, di suoni perfetti e di emozioni incontenibili. Dopo il songwriting troppo dentro agli schemi del disco precedente, ci voleva proprio una canzone così, dalla forma libera, dall’andamento dinamico e con un poderoso e travolgente crescendo finale. Il brano è talmente riuscito che la band lo sceglie come ultimo nei concerti da qui fino alla fine della carriera, soppiantando la mitica “747”.
Tutto il disco è comunque di ottimo livello e l’unica canzone un po’ sotto la media è proprio il singolo anticipatore “Max 500”, che infatti aveva lasciato i fan un po’ preoccupati. Per fortuna, una delle migliori canzoni è proprio l’iniziale “400 slag”, che offre subito all’ascoltatore lo stato d’animo giusto per godersi il resto dell’album, con il giro di basso iniziale a preparare al meglio il terreno, le stratificazioni sonore efficacissime, l’interpretazione vocale finalmente sentita come nei momenti migliori e, come detto, elementi melodici e ritmici semplicemente irresistibili.

L’album conquista, com’è ormai ovvio che sia, la vetta della classifica svedese e si comporta benissimo anche nel resto della Scandinavia. Certo, vende molte meno copie rispetto al suo predecessore, ma la sua qualità è superiore e consente ai Kent di rimettere in mostra tutti i propri pregi, pur con una veste un po’ diversa. Ancora oggi, Du & jag döden è uno dei loro dischi che più mette d’accordo i fan.

L’unica cosa che lascia un po’ delusi è che, anche stavolta, i Kent non accompagnano il disco con un tour. Almeno, però, questa scelta permette al gruppo di chiudersi nuovamente in studio per incidere altra ottima musica, e infatti a fine anno arriva l’unico Ep nella carriera degli svedesi. The hjärta & smärta Ep arriva nei negozi il 2 novembre, con una copertina prevalentemente bianca, a far da contraltare al nero dell’ultimo album, e contiene 5 canzoni che sono state correttamente raccolte insieme e fuori da ogni altra raccolta proprio perché fanno parte di un contesto musicale tutto loro, nel quale gli arrangiamenti sono più ariosi che mai e ogni singolo elemento musicale dà la sensazione di prendersi letteralmente il proprio spazio e respirare profondamente. La compattezza in sede di produzione artistica resterà sempre una delle caratteristiche fondanti dei Kent, ma qui la band sperimenta qualcosa di diverso con risultati, anche in questo caso, molto convincenti.
Tra le canzoni dell’Ep, spicca una magnifica “Dom som försvann”, con la geniale idea di utilizzare un coro di bambini in modo perfetto per donare ancora più pathos a un brano che accarezza e scuote allo stesso tempo. Anche questo Ep ottiene risultati eccellenti nelle varie classifiche scandinave e consacra il 2005 come uno dei migliori anni nella lunga carriera dei Kent.

L’addio di Harri Mänty e la svolta synth

Nel novembre del 2006, i Kent iniziano le registrazioni del disco successivo, ma dopo un solo mese, il chitarrista ritmico Harri Mänty lascia la band dopo dieci anni di militanza. La notizia lascia i fan piuttosto colpiti, e quando Tillbaka Till Samtiden arriva nei negozi, il 17 ottobre del 2007, spiazza tutti perché segna la prima vera svolta synth dei Kent. Non sapremo mai se questo sound così diverso sia stata la causa oppure la conseguenza dell’abbandono di Mänty, ma, dalle dichiarazioni dell’altro chitarrista Sami Sirviö, sappiamo che l’utilizzo delle sei corde era comunque destinato a diminuire sensibilmente, visto che lui stesso si era dichiaratamente stufato di quel suono.
Basta un solo riferimento per far capire il contenuto del disco dal punto di vista squisitamente sonoro, e stiamo parlando dei Depeche Mode. L’influenza di Gahan, Gore & C. è evidentissima in tutto lo scorrere del disco, ma questo vale solo per la tipologia di suono in sé, mentre per quanto riguarda la strutturazione degli arrangiamenti e lo stile melodico e vocale, si capisce che sono sempre i Kent, molto abili a mantenere le proprie caratteristiche di base anche con un vestito sonoro inedito. È un disco spensierato, ballabile, ma che, in alcune canzoni, propone nuovamente un’introspezione genuina e sincera.
Ciononostante, c’è un aspetto per il quale diversi altri album dei Kent si lasciano preferire a questo, ed è quello squisitamente melodico. Quasi tutte le canzoni, infatti, hanno melodie discrete o anche buone, ma non ottime, come quella alle quali la band aveva abituato i propri fan. Gli unici tre brani che rispettano l’alto standard sotto questo punto di vista sono l’iniziale “Elefanter”, cattiva quanto basta per catturare subito l’attenzione dell’ascoltatore, il singolo anticipatore “Ingenting”, altamente ballabile e irresistibile anche dal punto di vista melodico, oltre che da quello ritmico, e la ballad “Columbus”, ideale rappresentazione dei risvegli difficili col sole già alto dopo una notte di eccessi. Le altre canzoni hanno, come detto, qualcosa di meno rispetto a queste, ma comunque sono tutte molto solide e piacevoli, senza eccezioni.
Tillbaka Till Samtiden è, in definitiva, un buon disco. Quasi certamente, in un’ipotetica classifica, finirebbe nella seconda metà, ma non per particolari demeriti, bensì solo perché, nel repertorio dei Kent, la concorrenza è spietata. La sua importanza sta anche nel dimostrare come il gruppo svedese sappia essere a proprio agio anche su territori diversi da quelli battuti in precedenza, nonché nel suo essere una sorta di prova generale del successivo, dove questo stile basato sui synth sarà portato al culmine.
Tillbaka Till Samtiden riesce anche a cementare l’unione tra i membri del nucleo storico della band, spingendoli, dopo diversi anni, a imbarcarsi in due diversi tour, uno in corrispondenza dell’uscita del disco e uno qualche mese dopo, nell’inverno del 2008. L’ampio numero di date permette anche ai fan internazionali di recarsi in Scandinavia: chi scrive ha partecipato alla data di Norrköping nel febbraio del 2008. Il concerto risulterà splendido, mettendo in evidenza una band in grandissima forma.

Più tardi nel 2008 arriva anche la pubblicazione del Kent Box, un cofanetto in grande stile, ma a prezzo contenuto, nel quale sono presenti tutti i dischi finora pubblicati e anche la raccolta di B-side, e quasi ognuno di essi è accompagnato da bonus track, per un totale di 26 di cui 15 inedite. Per i fan è un acquisto irrinunciabile, sia per la bellezza dell’oggetto in sé, che per il suo contenuto, e ovviamente anche questa opera conquista la vetta della classifica svedese.

rodLa band, comunque, non si ferma e, per il disco successivo, fa le cose in grande, realizzando un proprio studio di registrazione all’interno della Meistersaal di Berlino, luogo normalmente usato per i concerti, spendendo ben 3 milioni di corone svedesi, circa 300mila euro. Per la prima volta, Joakim Berg lavora alla composizione di tutte le canzoni, e non solo di alcune come per i dischi precedenti, insieme al bassista Martin Sköld.
Quando Röd arriva nei negozi, il 6 novembre 2009, lascia tutti stupefatti, spiazzando alcuni fan, esaltandone molti altri.
Röd mostra il massimo livello di ambizione mai raggiunto dalla band svedese, sotto ogni punto di vista. Le melodie sono quasi tutte a lievitazione lenta, fatte per essere assimilate dall’ascoltatore solo dopo diversi passaggi, ma comunque sempre sufficientemente fruibili. Ogni canzone fa storia a sé da questo punto di vista, perché è sempre differente il modo in cui le idee compositive si sviluppano e si incontrano tra loro. Anche il ventaglio di tonalità su cui canta Berg è più ampio rispetto al passato, ma l’aspetto in cui i Kent mostrano di voler davvero andare oltre a ciò che hanno fatto fino ad ora è quello relativo al suono. Gli arrangiamenti sono sempre molto articolati, sotto ogni punto di vista: la stratificazione della componente sintetica, il ruolo, la potenza, l’impostazione dei riff per quanto riguarda il lato chitarristico, l’intervento della tecnologia per arricchire la sezione ritmica. Niente di tutto questo rimane uguale tra un brano e l’altro, sia per la natura propria di questi elementi, che per il loro grado di complicatezza, che infine per come vengono fatti interagire tra loro. Naturalmente l’unione tra una scrittura e una produzione così descritte genera una girandola ancor più vorticosa.
Nonostante l’importanza della sfida che la band è andata ad affrontare, tutto è costruito al meglio dalla prima all’ultima nota in quello che, ancora oggi, merita di essere considerato il loro miglior lavoro in assoluto. Il gusto, la raffinatezza e la forza espressiva sono sempre ai massimi livelli e anche il fatto che il cantato sia in svedese ha un impatto ancor maggiore del solito, perché il suo suono sembra più adatto che mai per dare corpo ai punti di forza sopra specificati, e così, ancor più che in passato, non importa capire cosa stia cantando Berg, perché ciò che arriva alle orecchie travolge e lascia senza fiato.
Non è facile isolare due o tre canzoni più significative delle altre, ma non si può non partire dal capolavoro “Vals för Satan (Din vän pessimisten)”, un fiume in piena di ritmi, melodie ed emozioni, con un ritornello che lascia immobili tanto è perfetto e devastante. È giusto, poi, citare l’epica “Sjukhus”, capace prima di crescere organicamente poi di mutare all’improvviso. Infine, non si può non concludere l'epilogo di “Det finns inga ord”, in controtendenza rispetto al resto del disco, più morbida e lineare: il modo migliore per chiudere un album così poco accomodante, grazie anche a una melodia magnifica e a un’interpretazione vocale perfetta per l’occasione.

Dopo il prevedibile successo di vendite, la band si imbarca in un lungo tour, che, curiosamente, inizia circa tre mesi dopo rispetto alla pubblicazione. Il sottoscritto riesce ad accaparrarsi un biglietto per la prima data, all’Annexet di Stoccolma nel febbraio del 2010, e si rende conto che questi mesi di attesa sono serviti ai quattro per dare ulteriore sfogo alla propria creatività incontenibile, dato che il set dal vivo mostra moltissime rielaborazioni e modifiche delle versioni in studio, e non solo di questo disco, ma di tutto il repertorio. La band aveva scelto di fare quattro date nella capitale in un posto piccolo, invece che una in una grande arena, per offrire agli spettatori il massimo dell'impatto, ed effettivamente il concerto è irresistibile. La voglia dei Kent di esplorare e sorprendere è, in questo periodo, a di poco famelica.

Inaspettatamente, però, arrivati al massimo dell’altezza, i Kent cadono rovinosamente dopo pochi mesi. Il 30 giugno 2010, infatti, esce a sorpresa En plats i solen che, pur mantenendo i synth come elemento prevalente del suono, risulta decisamente più commerciale e, va detto, banale rispetto non solo al lavoro precedente, ma a tutto il repertorio della band. Secondo Jocke Berg, erano rimaste alcune canzoni dal ciclo creativo di Röd e i quattro non avevano voluto sprecarle. Quello che il leader, probabilmente, non ha detto, è che, essendo arrivata nel frattempo la stagione estiva, per una volta i Kent non hanno dato meno importanza del solito all’integrità artistica e hanno semplicemente voluto realizzare un lavoro di ascolto particolarmente facile e adatto al periodo di uscita.
Sarebbe ingeneroso condannare i Kent per questo atto di auto-indulgenza, ma il disco in sé è indifendibile e non merita nemmeno che venga sprecato tempo per trattarlo. Le vendite sono comunque molto alte e quindi la band raggiunge lo scopo che si era prefissa, mentre per i fan è semplicemente necessario prendere atto dell’esistenza di En plats i solen e voltare pagina.

La fase finale della carriera: un suono più bilanciato e l’ultimo capolavoro

Nonostante i molti anni di carriera alle spalle, i Kent non riescono a stare più di due anni consecutivi senza pubblicare un disco. Il 2012, quindi, è l’anno buono, e puntuale, Jag är inte rädd för mörkret arriva il 25 aprile. Il singolo “999” aveva fatto immaginare un ritorno a un suono più chitarristico, e, data la sua lunghezza e la scarsa aderenza alla forma canzone tradizionale, ce lo si immaginava come brano conclusivo del disco. Invece, la canzone in questione è quella di apertura, e ascoltando il disco si scoprirà che sì, i Kent hanno ripreso in mano le chitarre, ma non hanno certo abbandonato i synth.
Jag är inte rädd för mörkret mette in mostra una band che, da un lato, non se la sente più di strafare, ma dall’altro non vuole farsi mancare niente. Di conseguenza, gli elementi sono molti, ma ognuno è usato con parsimonia, per un suono a tutto tondo come la band non ha mai avuto. I Kent sono ormai molto esperti, sia come musicisti che dal punto di vista della costruzione delle dinamiche sonore, per cui le canzoni scorrono via tranquille, senza particolare ambizione ma con tanta cura nei dettagli e, soprattutto, nel dosaggio dei tanti strumenti utilizzati e di una vitalità che comunque non manca. Non c’è più la sfrontatezza di un lavoro di altissimo profilo come Röd, né la potenza emotiva di un Hagnesta Hill o di un Du & jag döden, al loro posto c’è comunque la voglia di sperimentare, però in modo diverso, coniugando creatività e immediatezza.
L’appunto che si può fare a questo lavoro è che, così come per Tillbaka Till Samtiden, non mantiene pienamente la continuità qualitativa dal punto di vista melodico. Tra i due, si fa preferire, in ogni caso, rispetto al disco del 2007. Tra le tracce, spiccano una vitale e robusta “Petroleum” e un’ariosa e avvolgente “Tänd på”. Entrambe semplici e lineari, ma l’arrangiamento, l’interpretazione vocale e la melodia hanno una freschezza che le rende particolarmente valide e coinvolgenti.
Pur senza rientrare nella selezione ristretta dei “dischi consigliati” nella colonna sinistra di questa scheda, Jag är inte rädd för mörkret rimane un piacevolissimo ascolto. Naturalmente, il successo è garantito anche stavolta, e la band si lancia nuovamente in un tour. Stavolta, chi scrive riesce a partecipare a due concerti, decisamente diversi tra loro, anche se parte dello stesso tour. Entrambi sono ad agosto 2012, quindi all’aperto, con quello di Stoccolma che si svolge in uno spazio enorme fuori dal Museo di Storia naturale e si rivela come un evento festoso nel quale la band si spende moltissimo, suonando anche rarità inaspettate e facendo il set più lungo di tutta la tournée, e quello di Turku, in Finlandia, molto più raccolto e tranquillo, e che in realtà sotto l’aspetto della qualità del suono si lascia preferire.

tigerPassano ancora due anni e chi poteva immaginarsi che i Kent, ormai, non avessero più voglia di osare davvero, rimane piacevolmente sorpreso a partire dal 30 aprile 2014. Tigerdrottningen, infatti, si rivelerà come l’ultima occasione in cui i quattro spingeranno ancora forte sul pedale dell’ambizione, realizzando il capolavoro che precederà la decisione di sciogliersi. Come per Röd, la band si reca all’estero, stavolta spingendosi fino a Los Angeles, lasciandosi ispirare dall’atmosfera della città e dalla possibilità di poter utilizzare una struttura di alto livello come il Conway Recording Studio. Il risultato è di altissimo livello: uno dei lavori per i quali i Kent si sono impegnati di più nella sperimentazione di nuove soluzioni in termini di arrangiamenti e anche, seppur in misura minore, nella composizione stessa delle canzoni.
Il suono è molto vario sotto ogni punto di vista: potenza, intensità, saturazione, complessità. Ogni canzone si differenzia dall'altra sotto questi aspetti e il ventaglio è molto ampio anche dal punto di vista ritmico. Inoltre, la band torna a utilizzare voci femminili, non solo per i duetti, come in passato, ma anche, se non soprattutto, per creare ammalianti armonie vocali con il cantato di Berg. Anche qui, l’intonazione della voci non è mai la stessa e si passa da momenti con potenti cori ad altri molto più delicati. Per quanto riguarda il songwriting, c’è decisamente di più rispetto alla consueta distinzione tra canzoni più brevi e lineari e altre più lunghe e a forma più libera. Il singolo “La Belle Epoque”, ad esempio, ha la particolarità di puntare tutto sulle strofe, mentre il ritornello è minimale; “Allt Har Sin Tid”, invece, è un susseguirsi di diverse linee melodiche, senza strofe e ritornelli ma con un continuo variare che, per oltre cinque minuti, porta l’ascoltatore in un vero e proprio ottovolante di melodie, oltre che di tempi ritmici, voci e suoni.
La citata “Allt Har Sin Tid” è sicuramente il vertice qualitativo di tutto il disco, per come sa emozionare partendo lenta e quadrata, sfociando in una cavalcata prorompente. Ma tutte le canzoni sono di un livello sempre e comunque alto. L’iniziale “Mirage” ha tutto per essere una di quelle hit da dancefloor capaci di risultare irresistibili non solo per l'immediatezza, ma anche per la bellezza della melodia, per la particolare espressività del canto e per un suono efficace ma non ruffiano. L’altro singolo “Var Är Vi Nu” è tanto morbido quanto consistente: avvolge l’ascoltatore e lo coccola con tenerezza e calore ma anche con fermezza. “Godhet” è mirabile nel suo passare da una strofa parimenti morbida ma molto più essenziale e allo stesso tempo vitale a un ritornello ben più intenso e travolgente, con un ruolo importante giocato dal magistrale duetto vocale tra Berg e Beatrice Elli degli Elliphant. La conclusiva “Den Andra Sidan” non può non trascinare grazie soprattutto a saliscendi di intensità sempre azzeccati che amplificano la potenza delle vibrazioni emotive del brano.

Nonostante le vendite e la popolarità dei Kent siano sempre al massimo, stavolta non c’è un vero e proprio tour, ma la band suona in poche occasioni. Due di esse, però, sono particolarmente prestigiose, perché gli svedesi riescono a mettere in piedi un evento chiamato Kentfest, a Göteborg e Stoccolma, in cui non solo suonano, ma scelgono tutti gli altri membri del cartellone.

I due volti dell’addio: un disco in tono minore e un tour splendente

Nel marzo del 2016, i Kent annunciano la prossima pubblicazione del loro nuovo disco, specificando che sarà l’ultimo prima dello scioglimento. I quattro rendono note anche le date del tour d’addio, che si svolgerà nella parte conclusiva dell’anno, con l’ultima data a Stoccolma a metà dicembre. C’è un misto di sconcerto e gratitudine tra i fan, che ovviamente corrono ad acquistare in massa sia le copie del disco, sia i biglietti per il tour. Il sottoscritto sceglie la data di Malmö a metà novembre.

Då som nu för alltid arriva il 20 magio e, pur non essendo un lavoro scadente in sé, risulta certamente tra i meno riusciti dei Kent. Fondamentalmente suona addomesticato e con pochi spunti stimolanti, come succedeva con Vapen & Ammunition, ma con canzoni meno belle, e non scende al livello di En plats i solen soltanto perché, in questo caso, le canzoni sono migliori. È un lavoro che scorre via facile, lasciandosi sempre ascoltare e canticchiare, ma che non ha altri pregi rilevanti al di fuori di questi.
Probabilmente, i quattro, sapendo già che si trattava dell’ultima occasione di lavoro insieme, hanno voluto innanzitutto realizzare qualcosa che portasse una forte atmosfera di serenità, ed è esattamente ciò che questo disco lascia trasparire.

Il meglio viene invece con il tour d’addio. Le date sono precedute dalla pubblicazione dell’immancabile Best Of, con quattro inediti che non dicono nulla di diverso rispetto al contenuto dell’ultimo disco, e poi si comincia con quella che, indubbiamente, va ritenuta come una delle migliori manifestazioni della creatività dei Kent, che confezionano uno show memorabile per salutare tutti nel migliore dei modi.
Dal punto di vista visivo e scenografico, l’ambientazione è fantasmagorica, con posizionamento dei musicisti sul palco, luci, video e struttura degli schermi che portano spettatori a vivere un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio. Dal punto di vista musicale, quasi tutte le canzoni sono riviste e riarrangiate appositamente per questo tour, con una formazione allargata che vede persino la presenza di un coro femminile a tre voci. Nonostante l'inevitabile componente nostalgica dell'operazione, i Kent non si sottraggono a scelte audaci, sia come composizione della setlist, che soprattutto nella reinterpretazione delle canzoni. Uno show entusiasmante: 24 canzoni, quasi due ore e mezzo di emozioni, per un vero e proprio trionfo che si ripete ogni sera fino all’ultima.

Da quel momento in poi, e fino ad oggi, nessun membro dei Kent risulta ancora impegnato a tempo pieno con la musica. Martin Sköld aveva iniziato un progetto con Johan Wohlert dei Mew chiamato Closure che però ha avuto vita breve; recentemente ha pubblicato un paio di singoli con una nuova band chiamata Kapitalet. Jocke Berg ha prestato la propria voce ad alcune canzoni altrui. Subito dopo lo scioglimento, sono apparse alcune canzoni di una band chiamata Lädret, che ha voluto mantenere l’anonimato sui propri componenti, che, secondo voci insistenti, erano tutti i Kent con un nuovo cantante. Il tutto, però, è durato appena per quattro singoli.
Oggi, Jocke Berg può godersi la vita lontana dalle luci della ribalta che ha scelto. Lui e gli altri Kent hanno dato tanto e hanno anche avuto la capacità di fermarsi al momento giusto. Certo, di questi tempi nessuna reunion è da escludere, ma in ogni caso i Kent meriteranno sempre di essere considerati come un nome importante, non solo dal punto di vista commerciale, ma anche e soprattutto da quello della qualità.

Kent

Discografia

ALBUM IN SVEDESE
Kent(RCA/BMG, 1995)
Verkligen(RCA Victor/BMG, 1996)
Isola(RCA Victor/BMG, 1997)
Hagnesta Hill (RCA Victor/BMG, 1999)
Vapen & Ammunition(RCA/BMG, 2002)
Du & Jag Döden(RCA/Sony BMG, 2005)
Tillbaka Till Samtiden(RCA/Sony BMG, 2007)
Röd(RCA/Sony, 2009)
En Plats I Solen(RCA, 2010)
Jag Är Inte Rädd För Mörkret(Sonet/Universal, 2012)
Tigerdrottningen(Sonet/Universal, 2014)
Då Som Nu För Alltid(RCA/Sony, 2016)
ALBUM IN INGLESE
Isola(RCA Victor/BMG, 1998)
Hagnesta Hill(RCA Victor/BMG, 2000)
COMPILATION E BOX SET
B-Sidor 95-00 (RCA Victor/BMG, 2000)
Box 1991 - 2008 (Sony/BMG, 2008)
Best Of (RCA/Sony Music, 2016)
EP
The Hjärta & Smärta EP (RCA/Sony BMG, 2005)

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