Lamb

Lamb

Le cinque vite dell'Agnello

Andy Barlow e Lou Rhodes coniarono sonorità uniche negli anni 90, mescolando linee melodiche folk a influenze free-jazz e drum'n'bass. Dopo lo scioglimento avvenuto nel 2004 per lasciar posto alle rispettive carriere soliste, i Lamb sono ritornati di soppiatto nel 2011 con un disco live e l'ultimo lavoro in studio, "5". Ne approfittiamo per ripercorrere la storia di una band di punta del popolatissimo mondo post-trip-hop anglosassone

di Damiano Pandolfini

Quante volte vi siete trovati a temporeggiare titubanti nell'indecisione se acquistare o meno il nuovo disco post-reunion di una delle vostre vecchie band del cuore? Tanto più oggi, nell'era dei revival costanti, dove i resuscitati assumono la forma di zombie che si aggirano nei negozi di dischi mirando dritti al portafoglio. Tuttavia, riguardo ai Lamb, tutto si può fare tranne che darli per venduti, visto che Andy Barlow e Lou Rhodes hanno fatto dell'aggettivo "contrario" il loro biglietto da visita. Contraria è stata l'origine della loro musica, perché le influenze più disparate mescolate nelle loro canzoni non erano certo nate per finire assieme in un calderone unico, e invece il gioco ha funzionato - spesso a meraviglia. Contrari sono sempre stati i rapporti personali all'interno del duo, un costante odio/amore che li tiene legati nonostante tutto. E (bastian) contraria è la situazione dei Lamb nel 2011 quando, dopo lo scioglimento avvenuto nel 2004, hanno pubblicato indipendentemente il loro quinto album in studio - 5 - facendo però di tutto per lasciarlo passare inosservato ai più. Il minimo che si possa fare, quindi, è andare a dare un ascolto al disco e, con la scusa, tornare anche a curiosare nel passato di questa creatura perennemente irrequieta e instabile.

Coordinate geografico/temporali


Nel 1995 la sempre fantasiosa stampa inglese sta già parlando di post-trip-hop. Definizione forse affrettata, se pensiamo che il seme del trip-hop si è espanso a macchia d'olio appena un paio di anni prima grazie ai soliti noti come Tricky, Portishead e Massive Attack ed è ancora in pieno fermento e ben lungi da raggiungere l'apice (basti pensare che gli stessi Massive Attack daranno alle stampe l'epocale "Mezzanine" solo tre anni più tardi). A scanso di equivoci, quindi, chiariamo subito che la particella post non sancisce la fine del fenomeno trip-hop di per sé, ma si limita piuttosto a inquadrare tutti quei musicisti britannici che stanno impastando le proprie sonorità con la lezione appena impartita da Bristol, separando così due scene che pur rimangono fortemente legate assieme e continuano a viaggiare di pari passo. Questa scena post è cangiante e colorata come una gigantesca ghiera di caleidoscopio; ci sono, per citarne alcuni, il soul con venature hip-hop e dub dei londinesi Morcheeba, la disco aggiornata dei Moloko, l'arguto pop di plastica dei Dubstar e quello distorto e angolare degli Sneaker Pimps, l'elettronica dallo spazio dei Laika, l'etereo dub a cappella degli Olive e l'electro-bossa nova degli Smoke City (per tacere del fatto che perfino popstar come Madonna e Kylie Minogue in questi anni non resistono alla tentazione di avvicinarsi a questi territori). E ovviamente nel calderone ci sono pure i Lamb, solo che per inquadrarli più correttamente nel crogiuolo del post-trip hop si potrebbero tirare in ballo almeno altri due filoni chiave degli anni 90: la drum'n'bass (quella di Goldie, Roni Size e Prodigy, per intenderci) e la techno (Chemical Brothers, Bentley Rhytmn Ace e certi Future Sound Of London, tanto per citarne alcuni). Il motivo? Il loro affranto e prepotente suono si rifà a tutto quanto detto sopra, aggiungendovi però anche altre trovate peculiari, per una musica dalla forte impronta tecnica ed emotiva. Pochi, infatti, in quegli anni sono stati in grado di contaminare l'elettronica con l'enfasi propria dei Lamb, una band le cui epidermiche atmosfere sorrette da ritmiche furiose si sposano magistralmente a delicate melodie di estrazione folk. Il loro sembra un gioco di equilibrio funambolico, che sopravvive quasi per miracolo, uno strano matrimonio di due anime musicalmente distanti anni luce tra loro, eppure complementari.

Se altre celebri coppie come gli Eurythmics, i Goldfrapp, i Royksopp, gli Air partono da una cultura musicale di base comune e convivono, per buona parte, in una sorta di nirvana creativo, nel caso dei Lamb l'origine della loro musica è piuttosto un big bang, uno scontro casuale dal quale deriva lo scoppio violento che dà vita al loro progetto. Non senza conseguenze certo, le loro liti sono diventate leggendarie: si vocifera che una volta, per via delle loro divergenze, Andy e Lou finirono un'intervista tirandosi oggetti addosso di fronte a un gruppo di imbarazzatissimi giornalisti.

Coordinate emotive

La musica dei Lamb è, secondo la definizione ortodossa, "un inedito mix di elettronica con la forma-canzone". Ma in realtà questo curioso incesto sonoro possiede la capacità di evocare sentimenti ben più profondi, espletando nel suo viscerale rapporto di amore/odio i sintomi dell'irrazionale duplicità dell'animo umano. La loro musica è intensa, emotiva e cervellotica, si impone al comando del cuore e della mente al contempo e non si adagia volentieri a restare in sottofondo. Occorre insomma un certo stato d'animo per seguirla nei suoi altalenanti meandri sonori, che sembrano susseguirsi senza apparente soluzione di continuità. Quando però l'equilibrio funziona, il tutto riesce a discostarsi da ogni altra cosa ascoltata fino a quel momento, travalicando le definizioni di genere arrivando a toccare direttamente le corde emotive.
Andy e Lou sono entrambi autori/polistrumentisti di indubbio talento le cui sensibilità artistiche diametralmente opposte finiscono magicamente con l'integrarsi l'una con l'altra, una sorta di Ying e Yang della forma-canzone. Nel bene e nel male i Lamb rappresentano l'universo maschile - più pragmatico - e quello femminile - più emotivo - in piena rotta di collisione. Due anime complementari alle prese con una danza figurativa più simile a un sensuale tango, che non allo scuotimento selvaggio di teste e corpi che accompagna i loro intensissimi concerti.

L'incontro

LambAndy e Lou si incontrano a Manchester nel 1994 quando vengono messi in contatto da un amico che hanno in comune. Andy è un patito di elettronica e diavolerie digitali, si paga da vivere lavorando in uno studio di registrazione ma è in cerca di un partner per dar vita a un progetto che si spinga al di fuori dell'ambiente. Lou, invece, è una folksinger intimista e amante delle sonorità acustiche, che nel tempo libero scrive poesie ed è per sua definizione una "tecnofobica": ha problemi persino ad accendere il microonde. Come Andy, però, è alla ricerca di qualcuno con cui ampliare i propri orizzonti.
Il loro disco d'esordio - Lamb (1996) - nasce così, un impromptu di due persone che intraprendono, ancora a cuor leggero, un percorso di sperimentazione a ruota libera. Ovviamente, viste le enormi differenze di background tra i due, i primi risultati suonano bizzarri e a volte sconcertanti, ma l'originalità di queste composizioni è fuor di dubbio. Sulle semplici melodie di folk ancestrale che Lou porta in studio Andy sostituisce la chitarra acustica con battiti di downtempo e breakbeat, sferzate di drum'n'bass, elementi di jungle e dub, commistioni free-jazz grazie all'uso costante di un contrabbasso acustico, ritmi techno e trance ai limiti della goa e strati di possenti manipolazioni elettroniche che spesso e volentieri sconfinano nell'ambient. Ogni tanto una sezione di archi, o magari sparute note di un pianoforte, vengono sparpagliati in giro per sostenere il lirismo dei testi e aggiungere spessore al lato melodico. A regnare sul tutto resta comunque la bellissima e alquanto peculiare voce di Lou, una sorta di vestale del trip-hop sulla falsariga di Beth Gibbons, che è capace di emozionare o irritare in egual misura coi suoi improvvisi cambi di registro - dai timbri cristallini delle ballate elettroniche alla granitica sacralità della tradizione folk più crepuscolare, passando per sgraziati lamenti infantili e improvvisazioni jazz.
Lou, quindi, dà libero sfogo alla sua penna per scrivere canzoni fortemente intime e personali come la tradizione folk le comanda, ma Andy dal canto suo fa di tutto per complicarne le linee melodiche che reputa troppo semplici, e accredita al futuribile "Black Street Technology" di A Guy Called Gerald lo spunto di raddoppiare drum machine e breakbeat. Molto spesso, infatti, capita che un pezzo finisca accantonato per mesi perché sembra non avere una direzione da seguire, ed è Andy di solito ad attuarne il ripescaggio smantellandone i ritmi e ricostruendoli in tempi insoliti. Si tratta di un lungo esercizio di intuizione produttiva e di veri e propri pastrocchi digitali, che prendono forma sotto gli occhi perplessi (per non dire scettici) della povera Lou, che arriva giusto ad attaccare e staccare la spina a fine sessione.

Comunque sia, il lamb sound è ufficialmente nato, e quando la Fontana si trova sulla scrivania il demo di "Gold" non esita un minuto a metterli sotto contratto. Il successo commerciale non sarà mai immenso, né con questo Lamb né con i successivi lavori, ma è sicuramente superiore alle aspettative e il duo viene scaraventato subito ai piani alti della scena alternativa inglese. Classifiche a parte, il segreto sta nel semplice fatto che Lamb rimane uno dei dischi d'esordio più interessanti pubblicati negli anni 90. Salvo forse un paio di riempitivi (comunque perdonabili), Lamb è la verginità fatta musica, un disco composto di mille influenze nel suo dna eppure così unico da non aver eguali. Ascoltarlo significa addentrarsi in un oscuro sottobosco ispido e appiccicoso, un labirinto sintetico che induce la mente in un percorso tortuoso fatto di svolte improvvise in angoli acuti o convessi, sicuramente mai retti.

La tripletta di apertura è delle più micidiali. Si inizia con "Lusty", tinte erotiche, sparuti loop melodici e colpi di drum machine ben assestati. Si prosegue poi via "God Bless" (la prima canzone mai scritta dal duo), che si muove su un più corposo tappeto jungle nel quale Lou dà libero sfogo al lato più gutturale della sua vocalità. Si giunge infine a "Cotton Wool", le cui prime sfrigolanti note di contrabbasso sono quanto di più suggestivo il disco abbia da regalarci, mentre la straniante melodia di Lou si trova ancorata al suolo da battiti di drum'n'bass e tenta di liberarsi contorta in una spirale ascendente, come in un'ideale lotta spasmodica tra la donna e la macchina.
Più in là nel disco, "Gold" usa il vibrafono per creare atmosfere da film noir che si fanno piuttosto fantascientifiche nell'intermezzo rumoristico di chiara matrice Barlow. Molto bella anche l'insolita "Zero", che usa esclusivamente l'accompagnamento acustico di un quartetto d'archi che nel ritornello distorce le armonie, quasi fosse un brano di classica contemporanea eseguito dai Quintorigo.
Sono semmai i toni trance di "Trans Fatty Acid" e "Merge" (quest'ultima interamente strumentale) a dilungarsi un po' troppo, ma sono comunque godibili per gli amanti del genere e soprattutto ottime nelle esplosive rese dal vivo del duo. Anche "Feela", in chiusura, si dilunga forse eccessivamente, pur restando un bel brano di soffice chill out invernale, ritmato da un giro di sparuti accordi di piano elettrico e screzi di violoncello post-moderno.

Poteva poi mancare il colpo di coda? Certo che no, a darlo ci pensa l'ormai famosissima "Gorecki". Cosi Lou racconta la genesi del testo:

In memoria di uno dei rari e preziosissimi momenti di perfezione che la vita regala. Un momento di incontenibile felicità, un'epifania. Questi momenti sono una specie vortice, come se lo scopo della vita stessa sia di dirigersi verso di essi e allo stesso tempo nascere da essi. Questi momenti hanno un senso d'infinito e fanno sentire, almeno per me, che se la vita finisse in quel preciso istante sarebbe completa. Questo momento in particolare e' stato accompagnato dall'ascolto della terza Sinfonia di Gorecki che ha poi dato l'ispirazione musicale per il brano.

In un avvolgente crescendo di accordi di piano e archi in sottofondo, Lou intona catartica il suo testo fino all'esplosione ritmica, per trasformarsi in una lunga e ipnotica cavalcata nei meandri del cuore umano. "Gorecki" sarà il fortunato singolo trainante per l'intero Lamb, nonché una delle più importanti hit del duo.
Aggiungiamo al tutto i video che accompagnano le canzoni dei Lamb, in piena sintonia con la musica, strambi e stralunati ma in realtà anche abbastanza furbetti, ben diretti e curatissimi nell'immagine. I due tra l'altro sono anche aiutati dal bell'aspetto e da peculiari doti fotogeniche: Lou, in particolare, mostra una certa somiglianza con l'attrice Tilda Swinton - alle volte sembra quasi strategicamente accentuata. Chi poi non dava un centesimo alla trasposizione dal vivo di una musica così complessa si dovrà presto ricredere perché sul palco i Lamb si dimostrano ancor più coinvolgenti che su disco. Con un'ottima band a supporto, Andy si dimena nevrotico tra virtuosismi alla console, percussioni africane e pure al contrabbasso, trovando tra l'altro il tempo per lanciarsi sulla folla, mentre Lou si presenta sul palco immobile e catartica, ma sa zittire la platea intera con la sua sola voce e con due note di violoncello in sottofondo.

La crisi dei tre anni

LambSe Lamb, pur nella sua complicatezza, era nato figlio legittimo di una pura ispirazione sperimentalista, adesso il nuovo Fear Of Fours (1999) viene concepito come una monumentale tesi universitaria in ingegneria del suono. Andy si concentra ancor di più sui virtuosismi tecnici, continuando nella missione di stravolgere ogni tappeto sonoro ritenuto troppo regolare, quasi a voler marcare il territorio con le sue inedite trovate prima che possa arrivarvi qualche altro fanatico del digitale. Lou invece si aggrappa con le unghie a qualunque stralcio di melodia rimasto in piedi, e per non farsi travolgere dalla tempesta elettronica ulula come non mai.
Inutile dirlo, questo è il periodo nel quale i Lamb arrivano a un passo dallo scioglimento, tale è la tensione in studio tra i due. In realtà la par condicio funziona ancora, e Fear Of Fours arriva anche a suonare vagamente più compatto e omogeneo rispetto a Lamb ma si giunge comunque alla fine dell'ascolto stremati e col fiatone. Già il titolo ci aveva avvertiti: la paura (o disprezzo) di Andy per il 4/4, la regolarità e le geometrie perfette. Sul retro della copertina la traccia numero 4 non compare, mentre su disco la quarta canzone è composta di fatto dai 7 secondi conclusivi della precedente. Altra stranezza, poi, la versione alternativa di "Lullaby", che si può trovare solo su cd nel pregap della prima traccia.
Va detto, comunque, che il pezzo in apertura non poteva essere più azzeccato: l'ambient strumentale di "Soft Mistake" si dipanana lento, sorretto da tastiere boreali, e culmina in un crescendo ritmico tribale, facendo da perfetto aperitivo sonico per ripulire l'orecchio prima della madornale scorpacciata che verrà. È la successiva "Little Things", infatti, a mettere in luce la vera anima travagliata di Fear Of Fours, una canzone a metà strada tra una filastrocca anemica intonata da Cappuccetto Lou e gli sconquassi digitali del Lupo Andy. Fa così pure "B Line" (accompagnata da un ottimo video) con la sua alternanza tra una strofa semi-innocente e un ritornello sordo e infervorato. "Alien" si aggira nuovamente nel sottobosco buio e angoscioso di Lamb, popolato da strane creature dall'andamento sbilenco, mentre l'ipnotica "Here" impiega una sezione di percussioni brasiliane per creare un saltellante andamento di samba. Per controcanto, "Softly" si muove su un caldo terreno acustico jazzy di tutto rispetto, ricco del cantato da angioletto caduto di Lou che all'ascolto dividerà sicuramente le opinioni.

Non mancano anche momenti egregi, comunque. "Ear Parcel" è con tutta probabilità il miglior brano strumentale mai inciso dai Lamb, un vero pezzo di razza di stampo bjorkiano che parte in punta di piedi come se la Fata Confetto di Tchaikovski stesse danzando in uno stagno di rane, per andare invece a finire in una forsennata danza dove progressive-house e free-jazz si mescolano con apparente facilità. Il lato più struggente dei Lamb viene messo a nudo da "Bonfire" (la migliore), un ipnotico trip-hop da camera con una splendida linea melodica che riscalda il cuore. Bella anche la straziante "Lullaby", posta in chiusura, una breve ninna nanna intrisa di archi sinfonici.
Sono i brani che intraprendono la via pop, semmai, a rendere meno onore a Fear Of Fours perché, pur validissimi e cantati col cuore, sembrano stonare con l'impianto complessivo del disco, e incidentalmente sono anche quelli invecchiati peggio. "Fly" e "All In Your Hands" (quest'ultima con un irritante canto da bambina mocciosetta) risentono troppo di certe sonorità ormai irrimediabilmente sepolte con la fine degli anni 90. Quasi verso la fine, l'altro strumentale "Five" smorza nuovamente i toni con un corposo dub/chill out da post-sbornia.
Impossibile, comunque, stroncare Fear Of Fours, un album che, pur nella sua pesantezza e disomogeneità, conferma la coerenza artistica dimostrata dai Lamb, che preseguono il loro percorso senza svendere un minuto del proprio disco per infilarci un singolo più radio friendly a tentare di bissare il successo (anch'esso non preventivato) della "Gorecki" di tre anni prima.

Il matrimonio

LambImmaginate quindi la sorpresa quando, dopo gli scontri di Fear Of Fours che li avevano quasi distrutti, i Lamb ritornano due anni dopo con What Sound (2001), un disco in netto contrasto coi due precedenti, al quale si potrebbero abbinare aggettivi come "equilibrato" e "sereno", un disco che è assai meno riconducibile al suono con il quale i Lamb si sono fatti conoscere. Forse è anche per questo che gran parte di pubblico e critica si mostreranno piuttosto tiepidi nei confronti di What Sound, e non mancheranno gli immancabili j'accuse sul voltafaccia pop o easy listening che dir si voglia. Eppure, Andy e Lou ora sembrano comunicare con più serenità, e il risultato è un disco che induce all'ascolto piuttosto che costringervi. In poche parole, i Lamb compiono il piccolo miracolo di reinventarsi senza perdere un briciolo del loro fascino.
Ci sono conoscenze altolocate a dare una mano in studio (Jimi Goodwin, in prestito dai Doves, e Arto Lindsay alle chitarre, MeShell NdegeOcello al basso e la voce di Michael Franti ai cori), lasciando Andy libero di concentrarsi più sulla qualità dei suoni che non sulla quantità. Lou, dal canto suo, matura il proprio stile vocale, e non ha più bisogno di strafare nei latrati del passato perché, a suo dire, trova in What Sound un disco "di cuore" che meglio si addice alle sue origini folk rispetto ai precedenti due "di testa", che erano guidati piuttosto dai virtuosismi tecnici di Andy. Il risultato? Undici nuove tracce, che ci regalano delle piccole, inaspettate gemme di songwriting d'autore, più accessibili all'orecchio e mai smaccatamente commerciali, intarsiate tra l'altro da un certosino lavoro folktronico da camera denso di crepitii quasi impercettibili e atmosfere impalbabili.
L'esempio più ammirevole del nuovo suono è forse proprio la title track "What Sound", che si apre come uno squarcio di paesaggio artico visto alla luce dell'alba sorvolato da un tappeto sinfonico e cadenzato dall'incedere ritmato di una drum machine. La successiva "One" si dispiega ipnotica come spire di serpente, con cadenze ritmiche da catarsi della mente e i vocalizzi onomatopeici dai sapori mediorientali di Lou. Molto onirica anche "Heaven", una lenta nenia di folk ancestrale che presa da sola non disprezzerebbe quasi l'accompagnamento di mandolino e viola da gamba, ma sotto l'egida di Andy si veste di luccicanti sfrigolii elettrici e di una una chitarra che sembra filtrata attraverso il vocoder. Più minimalisti, invece, gli episodi di "Small", con un lavoro di tastiere astratte di scuola Moby, e l'eterea e bucolica "Just Is", posta in chiusura.
Andy ha il suo momento su "Scratch Bass", giocando ancora una volta con techno e drum'n'bass, mentre Lou si aggiudica la melodica marcetta ritmata dal basso funky di "Sweet", la prima commistione pop della loro carriera che funziona davvero. Il picco lirico arriva però con la splendida "I Cry", che se nelle atmosfere paga tributo a "Kid A", nel cantato si rifà direttamente all'ultima, struggente Billie Holiday. E per chi proprio non volesse accontentarsi, c'è sempre e comunque la famosissima "Gabriel", che con disarmante semplicità regala la melodia, le atmosfere e il testo più caldi dell'intero disco. A chiudere il cerchio, la breve traccia nascosta "Blessing In Disguise" con dolci arpeggi di pianoforte acustico.
Meno suggestivo ma forse più compiuto di altri dischi, What Sound, nel suo piccolo, va a rimpinguare la scena dell'elettronica più melodica dei primissimi anni Zero.

I Lamb, insomma, consolidano la loro reputazione di band libera e coerente, ritagliando alla loro musica anche piccoli pezzetti di notorietà, inclusi spot pubblicitari e film (tra i quali in Italia ricordiamo, purtroppo, "Tre Metri Sopra Il Cielo"). Riascoltati anche oggi, brani come "Gabriel", "Sweet" o "Small" dimostrano di portare benissimo la loro d'età.

Il divorzio

LambE' semmai il successivo Between Darkness And Wonder (2003) a non lasciare il segno. Un album che prosegue sulla falsariga del precedente What Sound, con la differenza che, se il primo aveva coniugato raffinatezza elettronica con un orecchio sempre teso alla melodia, adesso il nuovo lavoro si concentra più sulla prima, bistrattando la seconda. Non potendosi permettere il costo di uno studio per tutto il tempo necessario ai lavori (che, vista l'attenzione ai dettagli di Andy, non sono mai brevissimi) i Lamb affittano un vecchio casolare sperduto nelle verdissime campagne intorno a Bath, abbastanza grande per ospitare i vari musicisti e tecnici del suono a intervalli regolari per i mesi necessari. La particolarissima acustica del luogo non sfugge all'orecchio sopraffino di Andy, che dopo innumerevoli prove decide che i vari strumenti suonano meglio in diversi punti della casa. Così le chitarre finiscono in corridoio, pianoforte e tastiere nella sala da pranzo e la stanza più grande con le pareti in pietra (chiamata live room) viene insonorizzata e usata per registrare la batteria e gli archi. A fare presenza fissa con i Lamb adesso vi sono, tra gli altri, il contrabbassista jazz Jon Thorne, il batterista Nikolaj Bjerre e l'islandese Oddur Mar Runarsson alle chitarre, che contribuiscono fortemente al progetto, mettendo anche la firma su diversi brani.
Between Darkness And Wonder si presenta come un lavoro ancor più ambizioso, elaborato nelle armonie e di una maniacale pulizia sonora che farebbe onore alla casa Steely Dan, ma manca purtroppo la verve compositiva del passato. Certo, se si vuole parlare di qualità tecnica, questo disco ha pochi precedenti. Indecisi sul come passare un'oretta del vostro piovoso pomeriggio domenicale? Between Darkness And Wonder e un buon paio di cuffie vi regaleranno un'esperienza audiofila di discreto godimento.

Non tutto è perduto, comunque, neanche dal lato del songwriting, quando l'equilibio sopravvive, le canzoni arrivano sempre a toccare le corde emotive. Notare quindi la bellissima "Please", una canzone folktronica decisamente più Lou che Andy, o "Till The Clouds Clear" (la migliore) che parte anch'essa con un semplice giro di chitarra acustica, ma si anima notevolmente nel ritornello che incede marziale su pesanti strati elettrici mentre Lou urla come non la si sentiva dai tempi di Fear Of Fours. Più leggera e molto gradevole anche la percussiva "Stronger", mentre tra gli episodi più interessanti si annoverano senza dubbio "Darkness", con reminescenze dell'avanguardia vocale di Laurie Anderson, e "Sun", sorretta da un curioso ritmo di ska.
Pur confezionato con alta classe, il resto del disco passa in secondo piano; annoiano "Wonder", "Hearts And Flowers", "Open Up" e "Learn", che scorrono tutte senza scossoni, mentre lo strumentale d'obbligo "Angelica" (che usa un sample pianistico del "Clair De Lune" di Debussy) non aggiunge nulla di nuovo rispetto agli episodi passati. Anche "Sugar 5", che aveva il potenziale di diventare il nuovo singolo trainante, presenta una melodia davvero troppo monotona che per 4 minuti gira sempre sulle stesse due note.

Si arriva così al capolinea. Dopo Between Darkness And Wonder Andy e Lou decidono di sospendere la band di comune accordo, per seguire ognuno la propria strada, un'esigenza sempre più impellente per entrambi. C'è giusto il tempo per pubblicare l'onerosa Best Kept Secrets: The Best Of Lamb 1996-2004, che raccoglie in 16 tracce una panoramica quasi completa della loro opera, e viene seguita pure da Lamb Remixed (2005), che mette in fila un estroso collettivo di varia natura alle prese con alcune delle loro canzoni più famose. Andy poi userà ancora una volta il nome Lamb per mettere la firma su Back To Mine - The Vodoo Sessions/Lamb (2005), una serie di compilation di musica elettronica che, sullo stile delle Late Night Tales, chiede a un artista per volta di mettere insieme una lista di pezzi da "suonare al ritorno a casa dopo una serata fuori".
Da qui in poi Andy Barlow continuerà a mettere mano alla produzione su svariati progetti (inclusi i lavori solisti di Lou) adottando il nome Hip Optimist, farà coppia con la cantante Carrie Tree per il progetto Luna Seed, e formerà una band di nome Hoof. Nel 2011, sotto la sigla Lowb, ha pubblicato il suo primo vero e proprio progetto solista Leap And The Net Would Appear (rieditato e alterato poi nel 2013).
Lou Rhodes, invece, tornerà alle proprie radici folk incidendo ben tre album da solista, pubblicati attraverso la sua etichetta indipendente Infinite Bloom. Nel 2006 l'intimo Beloved One ottiene un ottimo  riscontro dalla critica e finisce nella lista dei nominati per il Mercury Prize. Seguiranno Bloom (2007) e One Good Thing (2010).

Five

LambAlzi la mano adesso chi se n'era accorto! Forse non tutti sapevano che i Lamb si erano già ufficialmente riformati nel 2009, dopo insistenti richieste per fare una serie di concerti in giro per l'Europa. L'esperimento aveva funzionato alla grande e nell'aprile 2011 Lou e Andy avevano pubblicato un piccolo resoconto di questi nuovi live (Lamb - Live At Koko) per la loro nuova etichetta indipendente Strata Music.
Il live, contenente 11 tracce, è caldamente raccomandato, anche al posto del più canonico "Best Of", e ci ricorda tutta l'abilità dei Lamb dal vivo, con un'ottima resa di Andy e della band, mentre la voce di Lou penetra le casse dello stereo come non accade neanche nei loro lavori in studio più raffinati ("Gabriel" e "Gorecki", ad esempio, sono da brividi).
Inoltre, la ritrovata linfa sul palco ha dato a entrambi la voglia di tornare in studio. Maturate ampiamente le proprie pulsioni soliste, Andy e Lou si sono nuovamente sentiti pronti a sedersi l'uno di fianco all'altra e dar vita a una nuova serie di canzoni. Come racconta Andy nel mini documentario sulla loro homepage, lo hanno fatto con gran piacere ma soprattutto per sé stessi, come ai tempi dell'esordio, senza tener minimo conto dei possibili sviluppi commerciali o di promozione (che infatti sono stati minimi). Lontani anni luce dal voler rimontare sul carrozzone rock'n'roll, i Lamb hanno ritrovato il gusto di fare le cose solo come le vogliono loro, mantenendo l'indipendenza attraverso il ricorso alla loro Strata Music per pubblicare il nuovo materiale.

Per 5 (maggio 2011) viene tralasciata completamente l'incombenza dei singoli: la band preferisce semmai mettere un paio di canzoni in rete come anteprima. Curiosamente, poi, le sedute di studio per concepire l'album avvengono in contemporanea alle session per Leap And The Net Would Appear di Andy e One Good Thing di Lou, facendo sì che 5suoni, a tratti, come un curioso ibrido tra i due.
I Lamb pagano pegno a qualche nuova musa: l'attacco di "Another Language" sembra rubato a Imogen Heap, mentre il ritornello di "She Walks" risente dell'indie-pop al femminile di Florence Welch (o qualunque altra dei 45 milioni di signorine sul genere spuntate dal 2009 ad oggi), ma il loro sound resta comunque inconfondibile. La produzione di studio si attesta sugli altissimi livelli tecnici dell'ultimo, meno fortunato, Between Darkness And Wonder,ma le nuove melodie di Lou respirano di un'aria nuova. Certo, si sono ormai sopite la tempestosa urgenza espressiva di un disco come Lamb o la grazia di What Sound, ma in compenso le canzoni di 5 sono tutte piuttosto valide.
Si passa dalla ritrovata percussività jazz di "Exsistential Itch" ai malinconici picchiettii pianistici di "Dischord", passando per le più marcate "Butterfly Effect", tutta synth robotici, e "Build A Fire", ovvero la prima sorprendente canzone rock (!) dei Lamb, con un ritornello che sembra scritto per farsi cantare sotto le stelle durante un festival d'estate. Non mancano accenni al passato più prossimo, con le atmosferiche "Rounds" e "Wise Enough", e a quello più remoto rivisitato con la percussiva "Strong The Root", in aria di drum'n'bass, e "Last Night The Sky", sorretta da una robusta sezione ritmica nel finale.
La voce di Damien Rice ospite su "Back To Beginning" si sposa bene a quella di Lou quasi con la stessa magia degli episodi del suo "O" (con Lisa Hannigan), tanto che qui sembra quasi di sentirne un outtake, non fosse per gli stralci elettronici sparpagliati in giro da Andy. È "The Spectacle", tuttavia, a svettare sul resto della tracklist: una morbida ballata pianistica con un sontuoso tappeto d'archi e una semplice melodia intonata dalla voce di Lou più bella che mai.
Al momento, 5 si può scaricare online, mentre la copia rigida è disponibile esclusivamente attraverso il sito ufficiale del duo mancuniano. Le golose copie a tiratura limitata, che offrivano un secondo cd di versioni alternative più libretto e artwork estesi sono (ovviamente) già finite tutte.

Il culto dei Lamb, dunque, continua, anche se sottotraccia rispetto al passato e con la vaga impressione che meno si parli di loro, più li si renda felici. Ormai del tutto indipendenti, sganciati da ogni legame con le liturgie dell'industria musicale, Andy e Lou hanno passato buona parte del 2011 in giro per l'Europa con un nuovo tour che, a leggere dai loro blog, pare dettato più dal puro piacere di stare sul palco che non per obblighi promozionali legati all'uscita di 5. Assistere a una loro esibizione dal vivo resta sempre un'esperienza raccomandabile, ma l'ascolto di 5 può comunque bastare a comprendere che i Lamb sono tornati in buona forma, con ancora qualcosa da dire e, soprattutto, con la stessa ferrea coerenza artistica che li contraddistingue ormai da più di un decennio.

Una nuova era? Backspace Unwind

2014: l'arrivo di un secondo parto post-reunion sembra inaugurare ufficialmente una nuova era nella quasi ventennale carriera dei Lamb. Pare infatti che oggi Andy Barlow e Lou Rhodes abbiano davvero raggiunto un equilibrio stilistico e personale ben più armonioso rispetto al passato; dove tempo si prendevano (letteralmente) a seggiolate per decidere quale direzione imporre ai propri album, oggi sembrano in grado di comunicare le proprie idee l'un l'altra con uno sguardo appena, e di conseguenza rendere il processo creativo ben più piacevole da condividere (oltre all'avere tempo libero a disposizione per viziarsi cucinandosi manicaretti macrobiotici tra una sessione e l'altra).

Tuttavia, il problema di Backspace Unwind risiede proprio in questa nuova calma che lo pervade, una meditazione autunnale in perfetta sintonia con la stagione attualmente in corso, ma che suona troppo ripulita per lasciare un segno sulla lunga distanza. Ovvio che non si può rimanere teste calde per sempre, ma svanite una volta per tutte le tempeste che avevano reso unici album come Lamb e Fear Of Fours, il sesto capitolo fa poco più che guardare al precedente (e già ampiamente maturo) 5 senza variare di troppo la formula. Serissima e catartica come sempre, Lou snocciola ogni parola come se stesse rivelando il quarto segreto di Fatima, mentre Andy riveste le canzoni di strati e substrati di elettronica tanto avvolgente quanto calibrata fin troppo al dettaglio.
Certo, i bei momenti non mancano. La delicatezza di una "As Satellites Go By", col pianoforte in primo piano e un bel finale a sorpresa, ha sempre il suo discreto fascino, così come il curioso canto medievale "Only Our Skin", e la spettrale "The Caged Bird Sings". Ma il pezzo forte è indubbiamente "Doves & Ravens", melodia tra le più fragili ed emozionanti ascoltate quest'anno e che non sfigura certo col canzoniere del passato, anzi.
Ma per il resto Backspace Unwind è pervaso da una sensazione di ordinaria amministrazione che è difficile scrollarsi di dosso. Così, anche se la title track cantilena ricordando lo stile di Suzanne Vega, "Nobody Else" fa uno stranissimo verso a James Brown (?), o su "In Binary" e "We Fall In Love" Andy compie il "reato" di regolarizzare il ritmo spostandosi verso lidi quasi synth-pop, l'impressione è che l'album non spicchi mai veramente il volo come faceva con insostenibile leggerezza una "What Sound" a caso (ci prova semmai "What Makes Us Human" col suo bel tappeto sonoro in sottofondo, ma il risultato non convince del tutto). Decisamente tamarra invece "SH9 Is Back", una caduta di stile mai registrata prima d'ora nella loro carriera.

Cos'era lecito aspettarsi nel 2014 da un duo reduce dell'era post-trip-hop di fine anni 90? Di certo non un'altra "Gabriel" né un album come lo storico esordio, di questo ne sono coscienti anche i Lamb che difatti proseguono per la loro strada con calma e integrità. Ma dopo il comunque riuscito 5, questo Backspace Unwind suona poco più di un'appendice.

Lamb

Discografia

LAMB

Lamb (Mercury/Universal, 1996)


Fear Of Fours (Mercury, 1999)

What Sound (Mercury, 2001)

Between Darkness And Wonder (Mercury/Koch, 2003)

Best Kept Secrets: The Best Of Lamb 1996-2004 (Mercury/Koch, 2004)
Lamb-Remixed (Mercury/Universal, 2005)
Lamb-Live At Koko (Strata Music, 2011)
5 (Strata Music, 2011)
Backspace Unwind (Strata Music, 2014)
LOWB (ANDY BARLOW)
Leap And The Net Would Appear (Strata Music, 2011)
LOU RHODES
Beloved One (Full Fill, 2006)
Bloom (A&G, 2007)
One Good Thing (Motion Audio, 2010)
theyesandeye (Nude, 2016)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Lamb su OndaRock

Lamb sul web

Sito ufficiale di Andy Barlow
 Sito ufficiale di Lou Rhodes
Myspace
Testi
  
 VIDEO
  
Gorecki (live da Lamb, 1996)
Gabriel (videoclip da What Sound, 2001)
Another Language (video da Five, 2011)