Madness

Madness

Un passo avanti dallo ska al pop

Paladini dello ska revival britannico di fine anni Settanta, grazie al loro distintivo "nutty sound" i Madness si sono rivelati una delle band inglesi fondamentali, non solo per l'abilità nel mescolare musica giamaicana a sonorità post-punk e new wave, quanto per il forte impatto socio-culturale esercitato. Ripercorriamo la loro parabola e quella dell'intero movimento Two-Tone

di Giuseppe D'Amato

Nati nel 1976 dalle ceneri dei North London Invaders, i Madness hanno rappresentato il fenomeno certamente più esplosivo dell'era Two-Tone, sia per lo strepitoso successo raggiunto (ancora oggi detengono, assieme agli UB40, il record ineguagliato di 214 settimane trascorse nella Uk Singles Chart), sia perché il loro miscuglio di ska, new wave, punk e reggae è riuscito a riportare migliaia di adolescenti sulle piste da ballo, contribuendo alla rivincita delle masse proletarie e allo sviluppo delle sottoculture giovanili in un momento di profondi mutamenti politici e sociali.
Verso fine anni Settanta, infatti, l'Inghilterra stava vivendo il passaggio più delicato della sua storia recente, a causa di una grave depressione economica, e l'insediamento a Downing Street di Margaret Thatcher, con relativi tagli alla spesa pubblica, non faceva che acuire il tasso di disoccupazione a scapito delle fasce meno abbienti. Considerata anche la natura multietnica delle città britanniche, la crisi spesso sfociava in tensioni a sfondo razziale, tradotte in musica in brucianti invettive - "White Riot" (Clash) e "God Save The Queen" (Sex Pistols) le più note sul tema.
Sottobanco, però, c'era un altro giovane skinhead pronto a tagliare il mazzo e ridistribuire le carte: il tastierista degli Specials Jerry Dammers, che aveva fondato l'etichetta indipendente Two-Tone con l'obiettivo di scavalcare, almeno in musica, ogni transenna per riunire bianchi e neri sotto un'unica bandiera.

Intro: ska, second wave-ska e Two Tone Records

Lo ska (o blue-beat) nasce in Giamaica negli anni Cinquanta, nel dichiarato intento di risollevare gli umori e far ballare chi sperava in un futuro migliore malgrado la disagevole situazione economica dell'isola. Il genere combina i folkloristici mento e calypso ad altri stili in voga nei vicini Stati Uniti, come jazz, jump blues, swing e R'n'B che si infiltrano via radio da New Orleans, Louisiana e Miami. Il mento si basa sulle tradizioni importate dagli schiavi africani e utilizza strumenti prettamente acustici (chitarra, banjo, percussioni, kalimba). Molto simile è il calypso, originario però di Trinidad & Tobago, con forti connotazioni politiche e inviso alle autorità.
Data la sua natura festaiola, lo ska raggiunge il picco massimo di popolarità subito dopo il 1962, a seguito dell'Indipendenza dal colonialismo inglese, quando i pionieri Prince Buster, Stranger Cole, Clement "Coxsone Dodd" e Duke Reid escogitano i primi rudimentali Sound System per rispondere alle richieste d'evasione della gente: si tratta di una specie di discoteche ambulanti, con casse montate su camioncini e un dj chiamato a mettere musica per tutto il fine settimana. I quattro pionieri sono attivi principalmente a Kingston, e registrano per Federal Records, Studio One e WIRL una serie di canzoni caratterizzate da accenti sul secondo e quarto movimento di una battuta con chitarre enfatizzate sui movimenti in levare (più avanti affioreranno alcune varianti, come reggae e rocksteady, sostanzialmente più lente, data la necessità di frenare un po' i ritmi di danza per via del grande caldo).

Nel dopoguerra si assiste a un netto incremento dei flussi migratori in terra d'Albione, ma se da un lato le comunità indiane e pakistane si rivelano restie all' integrazione, quelle sudamericane, e in particolar modo proprio giamaicane, riescono a calarsi con estrema facilità all'interno del tessuto: nasce così una second wave-ska (o two-tone ska, come spiegheremo), che unisce il dancehall caraibico all'aggressività del punk-rock locale e trova il suo fulcro a Coventry, nelle West-Midlands.
Dammers (nato in India nel 1955) si trasferisce proprio lì, al seguito del padre Horace, decano missionario per la Chiesa di Bristol. Quindi, da ragazzo, si mette a frequentare il Lanchester Polytechnic e, come ogni mod (modernista) convinto, risponde positivamente alla compenetrazione di nuove culture, cercando anzi di emularne lo stile di vita e di impossessarsi del loro linguaggio musicale per arricchire il proprio bagaglio. Dopo aver militato in diversi proto-gruppi (The Automatics, Coventry Automatics) fonda l'etichetta Two-Tone Records per pubblicare "Gangsters", prima canzone della sua band The Specials, e per completare il lato B si ricorda che l'amico Noer Davies aveva realizzato a casa propria, assieme al batterista John Bradbury, una traccia strumentale ribattezzata "The Selecter", cui viene sovrapposta una chitarra ritmica d'impronta ska. Lo storico split "Gangsters vs. The Selecter" esce il 28 luglio 1979 in cinquemila copie, spingendosi oltre ogni più rosea aspettativa, sicché la label per ampliare il raggio d'azione si affilia subito alla Chrysalis, pur mantenendo uno statuto volutamente libertario che consenta alle band sotto contratto di abbandonare la scuderia dopo aver edito anche un solo brano.

Per una casa discografica si tratta di una licenza insolita, ma perfettamente in linea con le convinzioni di Dammers, nobilitate da un significato umanitario profondo che trascende la mera sfera artistica: nessun vincolo creativo, nella maggior parte dei casi però vengono privilegiate line-up miste bianche e nere, proprio nel tentativo di annientare le ingiustizie e dar sfogo alle sonorità meticce delle ghost town. Un occhio di riguardo, infine, per l'aspetto estetico e l'artwork "a scacchi", simbolo di unità razziale, celebrata dal preciso logo messo a punto da Dammers con la complicità dell'ex-compagno di studi Horace Panter e del grafico John "Teflon" Sims: ritrae un uomo in abito nero, camicia bianca, cravatta nera, cappello pork-pie, calzini bianchi e mocassini neri che si ispira nel look al Peter Tosh della copertina di "The Wailing Wailers". Il personaggio fittizio si chiama Walt Jabsco e diviene presto un'icona nell'armamentario standard, tanto da comparire su magliette, spille, parka, tatuaggi, Vespa e Lambretta, contribuendo alla cementificazione di una cultura identitaria.
Sotto il palco orde miste di rude boys disoccupati, rasta e punkettoni alla ricerca di una scappatoia, sopra il palco The Specials, Bad Manners, The Beat (o English Beat per gli americani), Akrylicz, Apollinaires e Bodysnatcher, più in là anche Elvis Costello e The Higsons. Paradossalmente, però, la più acclamata interprete della filosofia Two-Tone diviene una formazione di soli bianchi, titolare per di più, presso l'etichetta, di un unico effettivo singolo.

NW5, gli Invasori

NW5 è il distretto postale a Nord-Ovest di Londra che serve Camden, Tufnell Park, Kentish Town, Dartmouth Park e Gospel Oak, ma anche l'area in cui tre compagni di scuola di famiglie umili cominciano a pensare a qualcosa in più che graffiti e microcriminalità. Mike Barson (o "Monsieur Barso", 21 aprile 1958, voce e tastiere) cresce a Kentish Town e si appassiona a scienze e cartoni animati, prima di tentare la strada di stampa e grafica pubblicitaria. Intanto strimpella il pianoforte, ma "non le cose classiche perché Beethoven e gli altri - tiene a precisare - mi sembravano stonati, cercavo solo di tener testa a mio fratello Ben che era un brillante jazzista moderno. Avevamo un bel cofanetto di Keith Jarrett, alcuni dischi reggae e Tamla Motown, ma ascoltavo pure 'Tumbleweed Connection' di Elton John, Joni Mitchell, Carole King, 'Fire In The Hole' degli Steely Dan e 'Sad Lisa' di Cat Stevens, che suonavo a mezza velocità per cercare di farla bene. Poi c'erano Robert Wyatt con i Soft Machine e naturalmente i Beatles. Passavo molto tempo a giocare da solo ma mi piaceva, stare con altri ragazzi sembrava noioso".

Chris Foreman, o "Chrissy Boy" (chitarra, 8 agosto 1956) vive anche lui a Kentish Town accanto al ponte ferroviario sulla strada per Parliament Hill Fields, in una buffa villetta a schiera che "tremava ogni volta che passava un treno, come la casa dei Blues Brothers. I miei genitori erano divorziati, abitavo con mio padre che era nel circuito di canti popolari e mi regalò una chitarra. Poiché faceva l'insegnante, aveva vacanze belle lunghe, e siccome era un facinoroso della sinistra, ci portava in furgone in campeggio in posti tipo Jugoslavia. Non avevamo molti soldi né la tv, in compenso ascoltavo molto alla radio Roxy Music, Kilburns e Alice Cooper. Mike lo incontrai a dieci anni, sua madre conosceva i miei, quindi di tanto in tanto ci incrociavamo, poi intorno al 1971 i ragazzini di Highgate Road nel quartiere di Kentish si amalgamarono in piccole gang, ci divertivamo a dar fuoco ai bidoni della spazzatura e la notte i guardiani ci inseguivano. Con me e Mike c'era un paio di altri bambini, tra cui Lee Thompson, di solito camminavamo su e giù dal Lido alla collina... Poi al liceo mi iscrissi a Islington, lo stesso di Spandau Ballet e Alan Parker, ma l'insegnante di musica faceva schifo. Allora me ne andai all'Haverstock, dove in classe ritrovai Lee cui il canto piaceva da matti: dicevamo spesso che avremmo fondato una band e per mettere da parte i soldi cominciai a fare il giardiniere, che mi consentiva di svolgere altri lavoretti manuali in pittura e ceramica".

Il Lee "Kix" Thompson di cui si parla (5 ottobre 1957, sassofono tenore e voce) è il più scalmanato dei tre, dato che il padre si sta facendo venticinque anni di galera e la madre, cameriera a Great Yarmouth, non può tenerlo sotto controllo, così trascorre più tempo in sala giochi che in aula. È un tipo losco e ai genitori degli altri bambini non piace dato che si atteggia a delinquentello, lo chiamano "Kix" perché è rissaiolo e con i calci ci sa fare. "Mi stuzzicava la letteratura inglese e l'arte, in più possedevo un clarinetto e una gigantesca collezione di vinili", racconta Lee. "Vestivo come Bryan Ferry, insieme a Chris e Mike vedemmo un sacco di concerti alla RoundHouse, al Nashville e all'Hope&Anchor: David Bowie nel tour di 'Aladdin Sane', Gary Glitter, Feelgoods e Ian Dury, purtroppo mai Bob Marley o simili, dato che in giro c'era pochissimo blues e reggae".

I ragazzi si procurano un sax Selmer MK6 da 100 sterline ("ancora le devo a mia moglie", ci scherza su Lee) e una chitarra economica su cui appiccicano adesivi con le note, in modo che Chris possa imparare a leggere gli accordi. Di pomeriggio si radunano a casa di Mike per provare alcuni pezzi di Fats Domino, Poison Ivy e Little Richard, quindi si innamorano del reggae tanto che nel negozietto di fiducia a Upper Street fanno razzia di dischi giamaicani stampati su Firefly, Bluebeat, Punch Records, Fab e Melodisc. La folgorazione arriva da "Ten Commandments Of Man" e "Follia" di Prince Buster, che qualche tempo dopo giocherà un ruolo chiave nel loro esordio.
Si fanno le ossa come North London Invaders, e via via allargano le fila, reclutando il batterista John Hasler, Cathal "Chas Smash" Smyth (14 gennaio 1959) al basso e il cantante Dikron Tulane. Al sestetto si aggiunge poi nel '77 un bohémienne del Sussex, un certo Suggs (vero nome Chris McPherson, 13 gennaio 1961) che chiede di poter cantare con loro dopo averli visti all'opera nel giardino di un amico: prende il posto di Tulane (che in compenso avrà una dignitosa carriera a teatro) ma si fa cacciare presto perché pare molto più interessato alle partite del Chelsea, che riempiono in qualche modo il vuoto lasciato da un padre dedito all'eroina.
A ruota si staccano pure Lee Thompson, infastidito dalle critiche di Mike riguardo la sua presunta incapacità al sax, e Cathal Smyth, dopo l'ennesima sfuriata di Barson che lo sostituisce col cognato Gavin Rodgers. Insomma, all'interno del gruppo c'è maretta; le cose si sistemano però nel '78 quando, dopo aver fatto pace, Mc Pherson e Thompson vengono riammessi e con loro entrano ex-novo in pianta stabile Daniel "Woody" Woodgate (19 ottobre 1960, suona la batteria) e il bassista Marc "Bedders" Bedford (24 agosto 1961), che fa fuori Rodgers.
Dopo aver scoperto accidentalmente che The Invaders già esistono e fanno discreto r'n'b alle Isole Bermuda, per un breve periodo i nostri cambiano nome in Morris And The Minors, quindi nel 1979 scelgono l'appellativo che li consegnerà definitivamente alla storia, Madness, in omaggio a un brano dell'idolo Buster.

1979: the Prince, Madness, One Step Beyond!

An earthquake is erupting, but not in Orange Street
a ghost-dance is preparing, you got to help us with your feet
if you're not in the mood to dance, step back, grab yourself a seat
this may not be uptown Jamaica, but we promise you a treat
(The Prince)

Alla vigilia dell'esordio ufficiale, torna in squadra pure Chas Smash come corista-ballerino; dunque ricapitolando ora sono in sette e si creano un certo seguito nel circuito della capitale, esibendosi con regolarità al Nightingale, al Dublin Castle e un po' in tutti i pub di Camden, finché il 10 agosto di quell'anno non esce per Two-Tone Records "The Prince", in omaggio appunto al maestro Buster (ricalca le note della sua "Earthquake") che tanta influenza aveva esercitato sui ragazzi nella scelta dell'indirizzo da seguire. Le prime scosse del terremoto Madness si avvertono ai Pathway Studios di Highbury, dove il leggendario singolo viene registrato per sole 200 sterline con incisa sul lato B una cover dell'eponima "Madness" (la cui versione originale si può ascoltare sull'album "I Feel The Spirit" del 1963 del cantante giamaicano). Sax stridulo, ganci di chitarra e groove barcollante: "The Prince" accende la miccia alla posizione numero 16 delle classifiche inglesi, e per attizzarla i Madness si imbarcano in un mini-tour congiunto assieme a Specials e Selecter, colleghi di Two-Tone.

È il preludio a One Step Beyond... che si issa al secondo posto della Album Chart Uk, dove rimarrà per più di un anno. Prodotto dall'affidabile team Clive Langer/Alan Winstanley (al servizio pure di Morrissey, Dexys Midnight Runners, David Bowie ed Elvis Costello), viene perfezionato in una ventina di giorni agli Eden Studios di Londra e pubblicato in ottobre dalla Stiff, specializzata più che altro in punk-wave à-la Devo, Damned, Nick Lowe e Lene Lovich. Lo squasso è fragoroso, ma se molte cronache ricorderanno i Madness come una delle più prolifiche band "da singolo", è nell'estensione di ciascun Lp che si comprende il senso della loro missione e la caleidoscopica padronanza di stili si può gustare appieno in ogni sfaccettatura.
L'omonima "One Step Beyond" è una vera e propria chiamata alle armi e chiarisce subito l'imperativo con una intro manifesto: "Hey You! Don't watch that, watch this! This is the heavy-heavy monster sound, the nuttiest sound around, so if you've come in off the street and you're beginning to feel the heat, well, listen buster, you better start to move your feet to the rockin'est rock-steady beat of Madness, one step beyond!". Anche questo brano è un tributo a Buster, ma a differenza dell'originale, che è essenzialmente uno strumentale, i Madness aggiungono il recitato di Chas e un insistito "Here we go!" appena udibile in sottofondo, a corollario di un tripudio di sax e organo trattati da harmonizer Eventide. Quel "Don't watch this, watch that!" (rubato a un altro pezzo di Buster, "Scorcher") diviene subito il loro marchio di fabbrica, rilanciato dai promo su Mtv e inno d'apertura a ogni concerto, mentre il verso successivo, "This is the heavy, heavy monster sound", cita "Monkey Spanner" del duo vocale giamaicano Dave and Ansell Collins. Il video, girato da Chuck Statler il 7 ottobre 1979, riprende i sette smidollati all'interno del loro club prediletto Hope&Anchor a Islington, ne viene fuori un inarrestabile ottovolante ska-punk dall'accento bislacco che poi è la quintessenza dei veri Madness, irriverenti, tronfi, esagerati o addirittura stupidi. In una sola parola: "divertenti", con l'invito a non prendersi sul serio.

E il pubblico se ne accorge eccome: in un anno travagliato in cui escono "London Calling" dei Clash, "The Wall" dei Pink Floyd e l'angosciato "Unknown Pleasures" dei Joy Division, One Step Beyond... cattura il passaggio dall'inebria della gioventù all'età adulta con una micidiale scarica d'energia ska, jazz, rock e commedia dell'arte, riformulati con insolenza punk, malgrado tradisca un sotterraneo velo di malinconia.
In termini di piazzamenti in classifica, la title track fa ancora meglio di "The Prince" stabilendosi al n. 7 per 14 settimane (la B-side "Al Capone" è l'ennesima cover, manco a dirlo, di Buster).
A Natale le fa subito eco l'altro singolo "My Girl" (numero tre), dominato da tastiere sorprendentemente dolci e forse per questo ancor più accattivanti. Il brano è un resoconto d'angoscia e incomprensioni di coppia, Barson l'aveva cantato sul demo e varie volte dal vivo già ai tempi degli Invaders (titolo provvisorio "New Song") dopo averlo scritto per la sua ragazza di allora Kerstin Rogers, nella stesura finale invece prende le redini Suggs che nel gennaio 1980 lo propone a Top Of The Pops in una puntata dello show a suo modo da ricordare, dato che è la prima del nuovo decennio con i Madness designati a inaugurarlo (oltre che finalmente il primo successo in toto della band, al contrario dei precedenti "The Prince", "Madness" e "One Step Beyond", tutti di matrice busteriana).
I testi svariano con audacia e ironia dall'amore al noir, al nonsense, fino a soggetti di real life londinese socialmente più consapevoli: "Believe Me", ad esempio, è una love song sbarazzina di reminiscenze sixties scandita da piano doo-wop, "Bed And Breakfast Man" rilegge in slang psichedelico lo strano caso dell'indimenticato ex-batterista John Hasler che aveva fatto da collante alla nascita del gruppo e usava dormire sul divano di Chris, "In The Middle Of The Night", invece, la grottesca storia di un anziano giornalaio di nome George che di notte si aggira nel vicinato per rubare biancheria intima (sceneggiatura simile ad "Arnold Layne" dei Pink Floyd e andatura brit che anticipa di una quindicina d'anni "Modern Life Is Rubbish" dei Blur, in Italia proveranno a emularli Statuto, VallanzaSka e Casinò Royale).
La marcetta militare ottimista "Land Of Hope And Glory" procede su binari ska frenetici verso la terra dove il sole non tramonta mai, il jungle-drumming "Tarzan's Nut" fa il verso alla "Tarzan's March" del 1966 (sigla della serie Tv con Ron Ely) e scherza con una battuta della réclame delle noccioline KP ("Che ci fa Tarzan con un perizoma di plastica? Tiene fresca la sua giungla di noccioline!"). A proposito, fu il sassofonista Lee Thompson a coniare l'epiteto "suono nocciola", presentandosi un giorno con "That nutty sound" scritto a pennarello spray sulla giacca, auspicando che il gruppo diventasse un misto di pop e circo (mentre "nutty train" è la peculiare danza in fila indiana immortalata sulla leggendaria copertina dell'album e mimata dai sette in diversi video).
In effetti l'acrobatico rifacimento del balletto tradizionale "Swan Lake" di Tchaikovskij tiene fede alla profezia di Lee, così come le macabre cronache esistenziali di un trentenne che in "Mummy's Boy" vive ancora dalla madre e se la fa con una ragazzina di dodici anni (bei riff di fiati si alternano alla voce di Suggs). Il piano allucinogeno di "Razorblade Alley" suona simile ai lavori di Ray Manzarek con i Doors contrappuntati da giri di basso jazzy, mentre "Rockin' In A-Flat" mischia schitarrate rockabilly a ordinaria follia two-tone.
Completano la scaletta "Madness" e "The Prince" (qui offerte con lyrics lievemente ritoccate), il conclusivo motivational a cappella per buontemponi "Chipmunks Are Go!" e, soprattutto, "Night Boat To Cairo", altro pezzo da novanta in catalogo, che però necessita di un trafiletto a parte. Se "One Step Beyond", come detto, di solito apre i concerti, "Night Boat To Cairo" li chiude: dopo "My Girl", la band non era intenzionata a estrarre altri singoli da questo album, ma il boss della Stiff, Dave Robinson, per niente d'accordo, pensò bene di cavalcare l'onda confezionando ad appendice l'Ep Work Rest And Play, che si confermò un buon investimento. Contiene gli outtake "Deceives In The Eye", "The Young And The Old", "Don't Quote Me On That" (in ringraziamento a Peter Tosh) e, per l'appunto, "Night Boat To Cairo", principale attrattiva del set, che in principio era una pièce strumentale di Barson, poi venne rimodellata a canzone per volere di Suggs bravo a inserire le parole in una struttura formale anomala, basata su sax e repentini cambi di tonalità. Visto il poco tempo a disposizione, il video che la accompagna è a basso budget, ma gustosissimo, girato in abiti coloniali britannici, pantaloni corti ed elmetti zulu, sullo sfondo di una piramide egizia, mentre in sovraimpressione la pallina da karaoke rimbalza su sillabe politicamente impegnate (in dialetto cockney "night boat" sta ancora oggi per "assegno di disoccupazione"): è il sigillo su un debutto coi fiocchi, intelligente, salace, che se non può riprodurre minuziosamente lo ska caraibico, di sicuro ne riesuma giovialità, diletto e piacere per il ballo.

One Step Beyond... viene promosso a inizio novembre da un tour in Inghilterra e Scozia, quindi a fine mese parte alla conquista degli Stati Uniti con tappe cruciali a New York e Boston, ma in America non sfonda dato che "da quelle parti conoscono a malapena Bob Marley, e non fanno differenza tra ska, dub e blue beat" - come spiega Woodgate - La musica nera per loro o è soul o disco. Sarebbe stato bello andarci con altri Two-Toners, ma gli Specials faticavano a produrre i propri dischi, noi invece eravamo diventati già ricchi". Il black-british non riuscirà mai ad attecchire veramente negli Usa, in Europa invece la Madness-mania dilaga e acchiappa nell'anima: i giovani smettono giubbotti di pelle e creste colorate in favore di eleganti completi a tre bottoni, bomber, dr. Martens e basettoni folti. Qualcuno però fraintende e alcuni spettacoli vengono interrotti da violenze skinhead. "Parte della stampa ci additava come razzisti e sostenitori del National Front, deve essere perché eravamo gli unici senza neri in squadra. Nessuno sa in realtà cosa provavo quando ai concerti ci salutavano a colpi di 'sieg heil', sarei saltato giù dal palco per prenderli a calci nel sedere!".
Questi e altri aneddoti uniti a frammenti live si trovano nel documentario "Dance Craze" del regista Joe Massot, che durante quel tour seguirà da vicino i Madness, salvo poi allargare il fascicolo a un po' tutta la Two-Tone (i nostri presenziano alla ricca colonna sonora con "Razor Blade Alley", "One Step Beyond" e "Night Boat To Cairo").

Baggy Trousers: this is England

Se nel 1979 One Step Beyond... aveva aperto il varco all'accettazione dello ska, nel 1980 Absolutely ne accelera la fascinazione verso il consenso di massa, grazie a un songwriting incisivo e a una sterzata pop che se da un lato fanno storcere il naso ai puristi di un sound ruvido e sporco, dall'altro fanno invece faville in Gran Bretagna, dove l'album irrompe direttamente alla numero 2, trainato dalla hit-monstre "Baggy Trousers" (in testa c'è "Zenyatta Mondatta" dei Police, alle prese anche loro, guarda caso, con sperimentazioni reggaeggianti).
La scrittura si fa matura e densa, l'autore principale è Barson, ma non manca il contributo degli altri sei che nel frattempo hanno pure affinato il modo di suonare: "Baggy Trousers" è una bomba, innescata da melodie contagiose su liriche edificanti meditate da Suggs in risposta al coevo "teacher, leave us kids alone" dei Pink Floyd, anche se "non si riferivano certo a me", precisa Suggs, "io non ho mai frequentato una scuola pubblica, ma un istituto comprensivo poco severo senza criteri di selezione. Stavo a faccia in giù dentro a un sacco a pelo sul pavimento di Lee dopo una serataccia all'Anchor, avevo carta e penna in mano e iniziai a tirar giù i miei ricordi, cercando di creare qualcosa nello stile di Ian Dury, mettendo in fila una caterva di frasi in flusso costante. In un paio d'ore scrissi sei pagine, Chris aveva il riff giusto e le parole si incastrarono bene". Il video, girato alla primary di Islip Street e nel parco di Kentish, cattura le atmosfere collegiali spensierate, col sassofonista Lee che vola in aria per l'assolo appeso ai fili di una gru ("l'avevamo visto fare a Peter Gabriel durante un concerto dei Genesis a Drury Lane mentre cantava 'A Flower?'" - la gag viene sovente riproposta dal vivo). I pantaloni larghi indossati da Thompson, metafora del potere degli insegnanti, erano appartenuti in passato all'attore Peter Ustinov, il pezzo invece non ha un vero refrain, ma strofe martellanti su un paio di accordi che irrompono subito dopo lo squillo della campanella.
Oh, what fun we had but did it really turn out bad
All I learnt at school was how to bend not break the rules
("Baggy Trousers")

Il secondo singolo "Embarassement" è un altro smash, in virtù di arrangiamenti di classe su versi taglienti, dove gravidanze adolescenziali e relazioni di razza mista sono equiparate a crimini di guerra: pietra dello scandalo Tracy, sorellina di Lee, che resta incinta di un uomo di colore, il padre addirittura prova a convincerla ad abortire per pudore dei pettegolezzi nel vicinato, ma poi la vicenda volge al lieto fine con la nascita del piccolo Hayley. Le posizioni fortemente antirazziste del brano furono inoltre utili a mettere a tacere chi accusava la band di connivenza col Fronte. Musica urbana, inquietudine e sofferenza, ma anche voglia di rivalsa, gioia e godimento: il divertissement strumentale "The Return Of The Las Palmas 7" (estratto come terzo singolo) precorre la solarità eighties con movenze cha cha cha che, pur discostandosi dal format, ottengono un fitto numero di passaggi su Bbc Radio 2, attirando ai Madness nuove generazioni di adepti (il colorito videoclip sfodera in rapida successione istantanee di personaggi noti, da Bobby Moore a Ian Solo, passando per Nixon e John Lennon).
"In The Rain", ad argomento amoroso, torna al two-tone tradizionale con vocalità immerse nel blues e trova logica prosecuzione in "You Said", che fotografa la stessa relazione sentimentale tra due giovani ormai giunta agli sgoccioli. "E.R.N.I.E.", invece, si immedesima negli stenti della classe operaia e nelle finte promesse di svoltare l'esistenza magari sbancando i Premium Bonds (l'acronimo sta per "Electronic Random Number Indicator Equipment", generatore di numeri casuale sostituito oggi dalle lotterie). Questi gli highlight di una scaletta che per il resto non sfodera la carica evocativa del dirompente "heavy, heavy monster sound" di One Step Beyond..., ma un ibrido soul-pop comunque, va sottolineato, godereccio e innovativo, se contestualizzato in un'epoca in cui già i summenzionati Clash e Police - ma anche Slits, Ruts e i primi Gang Of Four - mostravano interesse per sonorità deviate, mentre il progressive-rock andava esaurendo le scorte.
La rappata "On The Beat Pete" parla del tran-tran giornaliero di un poliziotto di quartiere, con sax irruento e diversi false-endings, mentre l'armonica reggae di "Not Home Today" rinfiamma il social-shaming con un'avvincente performance corale sul dramma di un teppista incarcerato per lesioni. Il clangore metallico delle sbarre è protagonista anche nella sinistra "Close Escape", sequel da B-movie di "In The Middle Of The Night", che si riaggancia alla scena finale in cui il vecchio edicolante George (dove l'avevamo lasciato?) passa dal furto di mutande alle telefonate oscene. Di contro, "Solid Gone" (unica traccia accreditata a Chas Smash) simula un brioso pop 'n'roll di matrice Xtc a scherno dei rockabilly afflitti dalla recente scomparsa di Elvis.
Più viscerale e affine allo ska "Shadow Of Fear", notevoli pure il piano-dub di "Overdone" e quello kinksiano in "Disappear", a conferma di abilità compositive di crescente valore.
In chiusura, la malinconica "Take It Or Leave It", appello dei musicisti in sofisticato 4/4 a essere trattati come persone normali, nonostante lo status di superstar ormai consolidato: oltreoceano non se lo fanno dire due volte, snobbandoli, anzi, come perfetti sconosciuti se è vero che l'album s'incaglia in un'anonima 146esima posizione.

Rolling Stone boccia i Madness come brutta copia dei Blues Brothers, l'Inghilterra invece se li coccola: da sbruffoni a gentlemen forbiti il passo è breve, al netto delle stroncature e di qualche paillette di troppo, i Magnifici Sette non hanno ancora iniziato a prendersi sul serio, e Absolutely riesce a far divertire, tant'è che esce un nuovo documentario autobiografico (girato dal capo Dave Robinson e finanziato in parte dai membri della band con 20.000 sterline ciascuno) intitolato anch'esso "Take It Or Leave It", che prende il via da una lontana giornata grigia del '76 a Camden per tuffarsi nelle urla delle grandi arene, degna conclusione di questa prima eccitante fase di carriera.

Da House Of Fun a Our House: le 7 vite dei Madness

Nell'ottobre 1981 il terzo studio-album 7 inaugura una seconda fase non meno intrigante, dove però il cambio di rotta intrapreso con Absolutely diviene punto di non ritorno e le felici intuizioni ska originarie lasciano il posto a una frizzante wave di contaminazione etero che flirta con le chart. Il chitarrista Foreman giustifica la scelta come evoluzione necessaria ai tempi, Suggs pure annacqua un po' il suo timbro al liquore per adeguarlo alle richieste d'alta classifica e le casse gongolano, con diciassette singoli schiaffati in Top Ten tra 1980 e 1986. Non male per una band di nicchia, che nell'estate '81 riparte dai Compass Point Studios di Nassau alle Isole Bahamas per registrare le tredici tracce del nuovo ellepì.

Puoi portare i Madness fuori da Londra, ma non Londra fuori dai Madness: c'è ancora la City al centro del cosmo, e il singolo-ciminiera "Grey Day" si rivela uno dei loro brani più solidi e apprezzati, presente in ogni loro greatest hits malgrado l'inedito beat cupo e fuliginoso (già nel 1978 i North London Invaders la abbozzarono live ad Aklam Hall). La clip riprende i musicisti su un bus scoperto double-decker o a passeggio tra le vetrine di Bowmans, stesse location British dell'altro pezzo-clou "Cardiac Arrest", dove il pendolare stressato Cathal Smyth ha un infarto mentre si reca al lavoro su pattern pianistici sdrammatizzati da una vezzosa marimba (coda finale sfumata a imitazione del battito cardiaco, curiosamente uno screenshot dell'accaduto finisce in "We Hate It When Our Friends Become Successful" di Morrissey, che a Smyth dedica pure "You're The One For Me, Fatty").
La scaletta espande notevolmente la tavolozza ritmica con trovate carnevalesche, sketch e personaggi di fantasia, che svariano con nonchalance dalla girandola "Benny Bullfrog" al rapinatore domestico di "Shut Up", pasticcio too-rye-ay in salsa Dexys Midnight Runners.
I'm as honest as the day is long,
the longer the daylight the less I do wrong
("Shut Up")

Dietro le gag esilaranti si nascondono però temi scottanti quali depressione, erotismo e mortalità: "When Dawn Arrives" getta uno sguardo deprecatorio sullo sfruttamento della prostituzione, "Pac-A-Mac" fa riferimento in chiaroscuro a sesso e minorenni, mentre "Tomorrow's Dream" si occupa di test sugli animali.
Il tour de force stilistico prosegue con "Sign O' The Times" (vicina all'indie happy-hour degli Housemartins di "London 0-Hull 4") e il soul-funk bianco "Mrs. Hutchinson", che ricorda "Chant no. 1" degli Spandau Ballet, critica il Servizio Sanitario Nazionale (è la storia di una sventurata che dopo errate diagnosi e maltrattamenti si ammala in maniera terminale).
"Missing You" salta di tonalità con un bel giro di sax, "A Day On The Town" rallenta ancora i ritmi con cadenze flemmatiche amabilmente reggae. Più banalotto il filler "Promises, Promises", sempre godibili, invece, lo strumentale di turno "The Opium Eaters" e il classicone romantico "It Must Be Love", singolo non-album che esce a dicembre e diviene in assoluto uno dei più incensati (quarto posto in classifica, si tratta di una cover di Labi Siffre approntata per la soundrack del film "The Tall Guy" con Jeff Goldblum, Rowan Atkinson ed Emma Thompson).

Aprile 1982 è tempo di tirar le somme, così ecco il primo best of The Complete Madness, che oltre alla stessa "It Must Be Love" contiene altri due inediti, "In The City" composta per lo spot della Honda City, e l'epocale "House Of Fun", per certi versi il loro capolavoro visto che regala l'unica numero uno in carriera. Avrebbe dovuto intitolarsi "Chemist Facade" e narra del raggiungimento della maggiore età tramite la storia di un adolescente che, appena compiuti i sedici anni che valgono la fatidica age of consent, si reca in farmacia a comprare dei preservativi; siccome però è molto timido, camuffa la richiesta con eufemismi gergali tipo "scatole di palloncini" o "cappelli da festa con punte colorate", al che il commesso gli ricorda che non si trova in un negozio di giocattoli invitandolo piuttosto ad andare alla Casa Del Divertimento. La canzone è un po' la summa del Madness style, inizio con alcuni colpi di batteria e irruzione simultanea di tastiera, chitarra elettrica, sax e trombone su uptempo vorticoso da 126 battiti al minuto (ambientato sulle montagne russe del Luna Park di Great Yarmouth): in Inghilterra è apoteosi, mentre non viene pubblicata negli Stati Uniti dove però il video circola ugualmente su Mtv preparando in qualche modo il terreno all'altra superhit "Our House", che pochi mesi dopo riuscirà a scardinare anche le resistenze yankee.
I think the most lucrative song I ever wrote was Baggy Trousers, but as a band Our House was probably our most successful
(Suggs)

L'arrampicata di "Our House" è graduale, il quarto album The Rise And Fall (5 novembre 1982) che la contiene, infatti, inizialmente non viene nemmeno distribuito negli Usa, ed è un vero peccato perché contiene autentici gioiellini del nuovo corso della band, sempre nel solco di una spiritosa fusion pop, jazzy, dance e music-hall. Era stato pensato come concept sull'infanzia di ciascuno dei membri, poi non se ne fece nulla e solo tre o quattro testi rispondono all'idea originaria. Ad ogni modo, la title track orecchiabilissima "The Rise And Fall", l'ottimo secondo singolo "Tomorrow's Just Another Day" (di cui esiste una variante blues dodici pollici con Elvis Costello, i Blur ne faranno la loro "Parklife"), "Blue Skinned Beast" (satira amara sull'errata gestione thatcheriana della guerra nelle Falklands, benché la band avesse dichiarato di volersi astenere da tiri politicizzati) e la beatlesiana "Primrose Hill" costituiscono un quartetto iniziale al fulmicotone, che già basta e avanza secondo Nme a fare di The Rise And Fall il miglior album dei Madness o quantomeno quello formalmente più estroverso, paragonato spesso alla "Village Green Preservation Society" dei Kinks, con la differenza che Ray Davies sognava la sua Gran Bretagna ideale, Suggs e soci analizzano quella in essere. "Secondo me 'Lola' dei Kinks è la canzone perfetta - confida Suggs in un'intervista - impossibile da decostruire musicalmente o liricamente. Voglio dire, sono cresciuto a Soho e dintorni, mia madre cantava e lavorava nei bar, io bazzicavo quei club e vidi tutto ciò che 'Lola' descrive: donne vestite di piume, champagne, travestiti... per me è davvero autobiografica ed è il motivo per cui amo tanto Ray Davies, scrivere canzoni in rima e mantenerle affascinanti non è facile, così cercai di emularlo".
Per quanto riguarda i Madness, la loro canzone perfetta può definirsi invece a buon diritto "Our House", inno gioioso della working class celebrato tra le pareti domestiche da un farsesco videoclip bennyhilliano in fast-forward, dove i musicisti si esibiscono con gli strumenti in soggiorno prima di recarsi a scuola o al lavoro, in altre scene giocano a squash o si rilassano nell'idromassaggio di una villetta a schiera in Stephenson Street, nord-Ovest di Londra. Quinta in Inghilterra e Best Pop Song agli Igor Novello Awards, "Our House" ottenne i meritati riconoscimenti pure sull'altra sponda dell'Atlantico, quando in un secondo momento i Madness decisero di rilasciarla tramite l'omonimo Madness, sorta di raccolta sostitutiva di The Rise And Fall, che immette sul mercato a stelle e strisce solo alcune delle nuove tracce unitamente ai maggiori successi del passato: oggi in Premier League la cantano i tifosi dell'Aston Villa in onore del gigantesco stopper Kortney Hause, all'epoca della sua uscita ci pensarono migliaia di fan svedesi, norvegesi e canadesi a farne la numero uno nei rispettivi paesi, oltre che miglior exploit di sempre nella Billboard Hot 100.
Il resto della scaletta conferma un ingegnoso salto di qualità negli arrangiamenti, evidenziato in "Sunday Morning" e "Madness Is All In The Mind" dal basso acustico di Bedders e ancor più dalla patchanka del sessionman Geraldo Rondo (percussioni e archi). Da ascoltare il teatrino-psych barrettiano "Mr. Speaker Gets The Word", l'indianeggiante "New Delhi" (che si avvale di sitar e violini) e "Tiptoes", su un ragazzo che cerca soluzione alle proprie insicurezze passeggiando pericolosamente sui cornicioni. Peccato che l'incompiuta "Are You Coming With Me?" inciampi in pretenziosità swingy-jazz un filo troppo elaborate; "That Face" e "Calling Cards", invece, provano a ridestare le care tentazioni ska mai sopite, che a differenza dei primi album adesso non determinano il groove portante, ma si limitano a nostalgici assoli di sax. Nel complesso, The Rise And Fall non è probabilmente l'esempio più calzante dell'esclusivo nutty-sound, ma l'immensa popolarità raggiunta ne fa il lavoro più screziato e variopinto nonché un'ammirevole spaccato dei tempi, per causticità caricaturale e finto perbenismo.

Keep Moving, Mad Not Mad e lo scioglimento

Terminata la promozione di The Rise And Fall, ha inizio una terza fase di carriera ancor più lontana dalle vecchie abitudini, prima però c'è spazio per un altro paio di arrembanti esperimenti non-album: tra i meno traumatici la pianistica "The Sun And The Rain" e "Driving In My Car", in linea con le produzioni pop del momento (nel video in tuta da meccanico anche un cameo degli amici Fun Boy Three), più spericolato ma davvero ben riuscito lo scalmanato gospel corale "Wings Of A Dove" (contributi dell'Inspirational Choir Of The Pentecostal First Born Church Of The Living God), inciso per la compilation no-profit "Greenpeace - The Album".

Il 1984 è l'anno delle Olimpiadi di Los Angeles, e i Madness decidono di celebrare i Giochi con la copertina del nuovo album Keep Moving, che li ritrae novelli centometristi su una pista d'atletica. Nelle classifiche Uk l'album sprinta in sesta posizione ben accolto dalla critica, che guarda con favore all'ennesimo cambio dinamico di una band che riesce sempre e comunque a veicolare la propria urgenza comunicativa in armonie allegre e spensierate in superficie, malgrado contenuti ad emotività sempre più fragile e riflessiva. Ora è davvero lecito aspettarsi di tutto, dal giovane che in "Time For Tea" muore chiuso in frigorifero per spaventare gli amici, al marito violento che in "Give Me A Reason" egrave; stato piantato dalla moglie dopo averla picchiata, sino all'immigrato di "Prospects" che si accorge che la Gran Bretagna non era poi la terra promessa.
I nostri perdono un po' l'appeal di "ragazzi pazzi" in luogo di un sophisti-pop equilibrato. Il singolone "Michael Caine", ad esempio, scherza sulle spie Ira con melodie vocali solo apparentemente innocenti, rese più aggraziate dai cori delle Afrodiziak (nel video una particina di Michael Caine in persona e alcuni campioni vocali tratti dal film "The Ipcress File" del '60, dove il suo personaggio Harry Palmer, sotto tortura, ripete ossessivamente il proprio nome tra versi di paranoia e disgregazione mentale). Meglio l'altro estratto "One Better Day", dalle delicate movenze soft-jazzy à-la "Smooth Operator".
Sono passati solo sei anni dall'esordio, e Keep Moving vuol mostrare proprio quanto il sound del gruppo sia stato capace di evolvere, dal turbinio-ska delle radici al sensuale r'n'b trentdarbyano "Turning Blue", sino al valzer "Waltz Into Mischief" o ancora al dance-pop funkeggiante della sinuosa title "Keep Moving".
Perle nascoste, "Victoria Gardens", su un clochard dei quartieri bene della "città di cartone", e la ballad sui generis "Samantha", sulla rottura improvvisa di una relazione. Chiudono il cerchio in maniera più anonima le misurate "Brand New Beat" e "March Of The Gherkins".

Keep On Moving è l'ultimo Lp con Barson al timone. Mike, infatti, in procinto di trasferirsi con la moglie ad Amsterdam, aveva già detto addio al gruppo durante una serata tenutasi nel dicembre '83 alla Lyceum Ballroom, salvo poi acconsentire a terminare le registrazioni (verrà però escluso dalla sceneggiatura dei video). È anche l'ultimo album prodotto dalla Stiff, poco allettata dalla nuova proposta artistica dei ragazzi inglesi, che decidono di mettersi in proprio fondando una loro etichetta, la Zarjazz Records (succursale della Virgin) tramite la quale nel settembre 1985 pubblicano il sesto album in studio, Mad Not Mad, aiutati dello storico braccio destro di Elvis Costello, Stevie Nieve, che rimpiazza Barson alle tastiere.
Malgrado costituisca sinora il picco più basso in patria (l'album è solo sedicesimo, "Uncle Sam" e "Sweetest Girl" invece sono i primi singoli a fallire la Top 20), l'accoglienza critica è al solito benevola, tant'è che Nme lo colloca alla 55ma posizione nella classifica dei 100 migliori album di tutti i tempi. Il tasso compositivo è effettivamente ancora alto, ma arrangiamenti e melodie risultano un po' troppo arty per i fan di lunga data che stavolta restano davvero spiazzati. Eppure il titolo contraddittorio lasciava già presagire un netto cambio d'identità rispetto agli standard, ribadito dalla lunatica "White Heat" e dall'incipit funk-rock satirico "I'll Compete", che ironizza sul crescente calo di popolarità con versi eloquenti ("Affrettiamoci/ il nostro tempo è arrivato/ siam vicini alla pensione").
Il groove brit-jazzy del singolo "Yesterday's Man" (ricorda "Sign Your Name", ancora di Terence Trent D'Arby), la cover angelica degli Scritti Politti "Sweetest Girl" (praticamente identica al capolavoro originale di "Songs To Remember" dei colleghi gallesi), le vocalità dreamy di "Coldest Day" e i virtuosismi electro della title track "Mad Not Mad" sono blitz da ricordare in un palinsesto synth-pop flebile e dispersivo, riscattato parzialmente in "Time" e "Tears You Can't Hide" da adorabili venature reggae che testimoniano di una ingegnosità imperitura ma lasciano l'amaro in bocca per ciò che Mad Not Mad avrebbe potuto essere, ricco com'è di moduli ritmici colpevolmente rinunciatari.

Insomma, manca il guizzo o il ritornello killer, almeno dal vivo però non ce n'è per nessuno e a luglio la band si prodiga in un tour trionfale tra Australia e Sud America corredato da vari festival europei, al termine dei quali i superstiti, orfani di Barson, provano ad abbozzare undici tracce per un nuovo full length, che a causa di dissidi artistici interni però non vedrà mai la luce. L'"Unreleased Madness Album" (o anche "Lost In The Museum", stando alle indiscrezioni sul titolo) viene prontamente rimpiazzato dall'antologia Utter Madness, quindi viene rilasciata una canzone d'addio, "(Waiting For) The Ghost Train", per la verità molto bella, anche se passa praticamente inosservata: si tratta di un rock-blues fatalista scritto da Suggs con riferimento principale all'apartheid, ma dedicato in senso più ampio a tutti coloro che nella vita aspettano un preciso momento, il loro momento, che non arriva mai.
Waiting for the train that never comes,
I hear the ghost train rumbling along the tracks and I hear them
it's black or white, don't try to hide...
("Waiting For The Ghost Train")

Dopo "(Waiting For) The Ghost Train", la band getta la spugna, ma riassesta in qualche modo i ranghi passati un paio d'anni di silenzio, quando i quattro irriducibili Suggs, Chas Smash, Lee Thompson e Chris Foreman aggiungono l'articolo al nome del gruppo mutandolo in "The Madness", e per andare sul sicuro coinvolgono l'amico-mentore Jerry Dammers, rimasto praticamente disoccupato poiché alle prese anch'egli con il break-up degli Specials e la dichiarata cessazione delle attività da parte della Two-Tone Records, che giusto in quei giorni abbassava la saracinesca.

Madstock & Nutty Boys

Oltre a Dammers vengono assoldati per il progetto Steve Nieve e Bruce Thomas, entrambi ex-membri degli Attractions di Elvis Costello, e una fitta schiera di turnisti, tra cui Earl Falconer degli UB40 al basso, Rick Walker, Simon Phillips e altri vari. Il collettivo così riorganizzato dà alle stampe The Madness, pubblicato nel 1988 dalla Virgin e prodotto da The Three Eyes, pseudonimo dietro il quale si celano identità misteriose che i più ipotizzano essere gli stessi Suggs e Foreman. Stando ai numeri, il flop è imbarazzante (l'album in Inghilterra è 66°, per non parlare dei singoli fuori dalla Top 75), mai come in questo caso però è necessario prendere i dati con le molle. Chi si attendeva dalla line-up specializzata un possente riflusso twotonico rimarrà deluso: quell'esaltante stagione ha già sparato le ultime cartucce, vuoi per l'inevitabile ricambio generazionale, vuoi per il contesto storico radicalmente mutato. In compenso, resteranno appagati quei pochi temerari che decideranno di comprare l'album, perché The Madness, lungi dall'essere operazione kitsch-revival per star in declino, si rivela un dignitoso compromesso tra modalità retrò e nuove possibilità offerte dalla tecnologia.
Il disco viene registrato ai Liquidator Studios di Caledonian Road, siti in un vecchio scantinato di proprietà della band utilizzato anche da Feargal Sharkey, The Farm, Deftones e Apollo 440. I sintetizzatori sempre più spinti apportano una ventata di freschezza trendy al sound, rimodellato a immagine e somiglianza dell'elettronica d'alta quota dei big Heaven 17, Depeche Mode e affini, con la differenza che qua e là vengono incastrati elementi esotici come sitar e tabla indiani (il singolo orientaleggiante "I Pronounce You", sul matrimonio combinato di una giovane sposa), reminiscenze ska/reggae marcate ("Beat The Bride" e "Nightmare Nightmare"), trombone e altre diavolerie tipicamente madnessiane a sciogliere glacialità robotiche ("Neil Down The Days", "Thunder And Lightning" e la tropicalista "Oh" sono le più calde). "Gabriel's Horn" mette a punto un demo scartato da quell'album fantasma in gestazione nel 1986 poi abortito, da tener d'occhio anche "Song In Red", scritta da Suggs in ricordo di un cugino morto giovane, e "What's That", adornata dalla prospera sezione fiati dei Potato Five (l'edizione cd aggiunge i quattro bonus "Flashings", "4 B.F.", "Be Good Boy" e "11th Hour").

Gli scarsi esiti commerciali portano però a un'insanabile rottura e all'ennesima scissione: Bedders si tiene allenato al basso coi Voice Of The Beehive e su "Kill Uncle" di Morrissey, quindi collabora coi Butterfield 8 di Terry Edwards. Lee Thompson e Chris Foreman, da par loro, proseguono come duo e partoriscono via Street Link Records il maldestro Crunch a firma The Nutty Boys, visto che gli ex-compagni gli vietano l'utilizzo del moniker.
Siamo nel 1990, nel frattempo negli Stati Uniti sta prendendo piede una terza ondata (o third wave) ska grazie ai californiani Rancid, Green Day e Offspring, che provano a fondere two-tone europea ad aggressività hardcore e heavy-metal, altri come No Doubt, Aquabat o Dance Hall Crashers invece alleggeriscono un po' la veemenza con procedure ammorbidite verso pop e wave.
Crunch evidentemente respira quest'aria di resurrezione, recuperando almeno in parte il combattivo groove nocciola: se il singolo "It's Okay I'm A Policeman", "Pipedream" e "You Got It!" sorprendono per ritmi tarantolati e voci effettate, altrove il timbro roco e impersonale di Thompson fa rimpiangere l'assenza del carismatico Suggs (comunque ospite d'onore nel blue-beat d'apertura "Magic Carpet"). "Daydreamers" e "Pipedream" riadattano melodie ska e reggae al passo di innovative drum machine con prestazioni incerte, piccola nota di consolazione "Für Elise" che trasfigura in classical-wave "Per Elisa" di Beethoven (fa il paio con l'antica "Swan Lake" e risolleva un po' lo spirito di questo non trascendentale back to the roots).

Il best of del febbraio 1992 Divine Madness serve almeno a rimpinguare le casse con la riproposizione completa in ordine cronologico dei singoli dal 1979 al 1986 (viene omesso "The Sweetest Girl", unico del periodo a fallire la Top 30), e dato l'insperato successo della compilation, numero uno in Gran Bretagna, si fa largo l'ipotesi di una clamorosa reunion.
Monsieur Barso, Chrissy Boy, Suggs, Chas Smash, Kix, Woody e Bedders: l'8 e 9 agosto 1992 i sette si presentano al Finsbury Park di Londra in line-up originale per la prima volta dall'addio di Barson nel 1986 ed è trionfo, di fronte a uno sciame di circa 75.000 persone accorse per una due giorni che prevede, come headliner di grido, anche Morrissey, Ian Dury, Blockheads e Gallon Drunk. L'evento finisce nel Dvd Madstock!, che oltre alla setlist proposta live dal gruppo contiene la cover "The Harder They Come" del profeta reggae giamaicano Jimmy Cliff.

In seguito il gruppo rinnova l'impegno open-air per altre tre edizioni del festival, che si tengono con cadenza biennale nel 1994, 1996 e 1998, quindi ancora nel 1998 ecco Universal Madness, report di una serata tenuta all'Universal Amphitheathre di Los Angeles a quattordici anni di distanza dall'ultimo show negli Stati Uniti del 1984.

Il ritorno dei Madness: Wonderful, Dangermen e Norton Folgate

L'accoglienza entusiastica ricevuta durante le recenti apparizioni suggerisce di provare ad approfittare del momento fertile per radunarsi in studio, così nel 1999 viene alla luce Wonderful, ottavo album che sancisce il ritorno in grande stile dei Mad-nificent Seven. Non sempre il comeback funziona, talvolta i risultati rasentano il demenziale al punto che vien da chiedersi se fosse proprio necessario, altre l'offerta suona credibile come se i musicisti non si fossero mai fermati. Wonderful rientra per lunghi tratti in questa seconda categoria, a cominciare dal forte singolo "Lovestruck", che si piazza alla numero dieci, confermando il ritrovato appeal della band, che non raggiungeva una posizione così alta dai tempi di "The Sun And The Rain" del 1983.
In regia torna il team di produzione Langer/Winstanley e si sente, sebbene il risultato non possa definirsi propriamente ska, ma comunque vicino alla wave speziata dei primi anni Ottanta. "The Communicator" è quella che più si avvicina alle corpulente vecchie maniere al grido di "All aboard for the Madness nation", ma sono considerevoli anche il travolgente country-blues pianistico "Johnny The Horse", il pop-rock "Sunday Night, Sunday Morning" (rinvigorito da puntuali assoli di sax) e la marcetta da bassifondi tomwaitsiani "Drip Fed Fred", con fiati in levare e strofe impreziosite dall'eroico Ian Dury (giunto ormai allo stadio finale di un'interminabile lotta contro il cancro, morirà pochi mesi dopo nel marzo 2000).
Tra le note positive anche l'orchestrale "Elysium", i ritmi spediti di "Going To The Top" e le trombette quasi-zingaresche di "The Wizard", "If I Didn't Care" invece rielabora un vecchio barbershop afroamericano degli Ink Spots composto nel '46 da Jack Lawrence. Infine "No Money" e la noiosetta "4 A.M.", che per la verità si mordono un pochino la coda, ma non intaccano il nitore di una tracklist in cui gioia e voglia di far musica si toccano con mano, di qualunque genere essa sia. Bentornati.

Intanto dal 28 ottobre 2002 al 16 agosto 2003 al Cambridge Theathre di Londra si tiene il musical "Our House" (adattato da Labi Siffre su soggetto di Tim Firth e basato sulle musiche della band) che si aggiudica un Olivier Award come "best musical of the year": Suggs per una settimana interpreta il ruolo di padre del protagonista, gli altri ne approfittano per costruirci intorno il nuovo greatest hits Our House, che contiene gli inediti "Simple Equation" e "Sarah's Song". Una bella boccata d'aria per i sette giovanotti di mezza età, che in occasione del venticinquennale dalla fondazione decidono di tornare ragazzini raccogliendo in un album di sole cover gli ascolti adolescenziali collaudati nei pomeriggi a casa di Mike: per farlo usano lo pseudonimo Dangermen e danno una serie di concerti a basso profilo senza scoprirsi troppo, quindi nel 2005 trasferiscono il materiale su un vero e proprio album intitolato The Dangerman Sessions Vol. 1. Il ricco booklet riporta nei dettagli la fantasiosa nascita di un "influente gruppo-reggae fondato a L'Avana negli anni 60", ogni componente adotta invece un alter ego ciascuno con una curiosa fiction-story da raccontare:

- Mark Bedford/Lester Bernham, figlio del mare, suona un basso fatto della legna che galleggia alle rive di Cuba;
- Chas Smash/Jimmy Ooh, musico itinerante;
- Daniel Woodgate/Daniel Descartes, percussionista naif parigino e leader della suddetta band itinerante;
- Mike Barson/Professor Psykoticus, musicista ungherese nativo del villaggio di Mezȍhegies, ha lavorato nella ricerca sulle armi sonore in Urss prima di essere arruolato dal collettivo di Descartes, da cui nascono i Dangermen;
- Lee Jay Thompson/Unnamed, senza nome, scienziato atmosferico e sassofonista part-time;
- Suggs/ il poeta Robert Chaos, uno dei fondatori dei Dangermen, trovato da Dexter Gordon rinchiuso in una borsetta Gladstone vicino ai piedi di Miles Davis;
- Chris Foreman/Christofos Formantos, di cui non abbiamo notizie certe.

Per attenerci strettamente alla musica, invece, la tracklist (introdotta dal breve annuncio di servizio "This Is Where" di trenta secondi) concede sporadiche regressioni all'etimo delle radici, quasi a volerci mostrare quanto sia rinnovabile il peculiare lessico madnessiano setacciato dall'eldorado caraibico e dai polverosi registri Motown ma anche dal caro vecchio iconico pop-rock anni 60 (un simile meltin' pot prende forma nello stesso periodo in "Throw Down Your Arms" di Sinéad O'Connor e "Kaya 'Nga Ndaya" di Gilberto Gil). Non tutto però gira a dovere malgrado la presenza in console del guru barbadiano Dennis Bovell, alla prima collaborazione con la band dopo le fruttifere esperienze al fianco di Thompson Twins, Fela Kuti, Pop Group e Bananarama.
Tra le cose migliori la cover ballabile di Lord Tanamo "Taller Than You Are" e l'aitante bluebeat "Girl Why Don't You" (dell'immancabile Buster), che si illuminano a festa con trombette da febbre del sabato sera, mentre "So Much Trouble In The World" di Bob Marley soppesa teneramente l'abiezione sociale. Pure l'armoniosa gemma r'n'b "You'll Lose A Good Thing" della texana Barbara Lynn e "Shame & Scandal" di Sir Lancelot (calypso-ska a passo convinto) possono considerarsi tra le note liete, il problema è che echo chamber, tempi lenti e linee di basso smunte voluti altrove dal dj conferiscono un tocco dubby soporifero a "John Jones" di Rudy Mills, "I Chase The Devil" di Max Romeo e all'evergreen "Israelites" di Desmond Dekker & The Aces. Subiscono più o meno lo stesso trattamento oppiaceo le immortali "Lola" dei Kinks e "You Keep Me Hangin' On" delle Supremes, entrambe deludenti malgrado orchestrazioni pur pregiate che però difficilmente faranno ricredere i detrattori di un Lp poco sincero e discontinuo.

Incrociando le dita per sortite più intraprendenti, nel 2005 esce il modesto singolo "Sorry" per la neonata casa discografica Lucky 7, di appartenenza della band: stavolta alla chitarra c'è Kevin Burdette che fa rifiatare Foreman, Chris difatti già nel bel mezzo delle jam session dei Dangermen aveva paventato l'idea di lasciare il gruppo, salvo poi riprendere la postazione usuale in occasione del Christmas Tour 2006.

Un paio d'anni dopo, nel giugno 2008, si tengono tre serate consecutive al teatro Hakney Empire di Londra in cui vengono anticipate (e distribuite a fine concerto agli astanti tramite braccialetto Usb) canzoni che costituiranno l'ossatura di The Liberty Of Norton Folgate, nono studio-album pubblicato poi nel 2009 in coincidenza del trentennale dall'esordio. A differenza però di quello sfolgorante One Step Beyond... lontano ormai tre decadi, qui non ci sono hit colossali da celebrare, bensì un puzzle sherlockiano in quindici tracce (che diventano ben ventidue se consideriamo il secondo cd della maxi-release) che obbliga a un'immersione totale nel concept, guidati per mano tra le streets dai sette immarcescibili ciceroni, coadiuvati dietro le quinte da Langer e Winstanley.
Si tratta del lavoro forse più ambizioso e noir della band, con tanto di "Ouverture" per ottoni dal secolo scorso e un'articolatissima title track di dieci minuti (un po' la loro "Bohemian Rhapsody") che racconta un recondito angolo di London East, ghetto per artisti amministrato dai residenti sotto l'egida della St. Paul Cathedral. Norton Folgate è un'adiacenza meno conosciuta tra Bishop Gate e Shoreditch High Street, la libertà è quella dei Madness di colorare qualsivoglia brano pop delle tinte più disparate, senza pecche particolari. Gli inconfondibili acquerelli British rimandano ancora ai Kinks e a Ray Davies per trasparenza melodica, gli scarabocchi dickensiani a romanza sociale ottocentesca e umorismo pickwick.
"We Are London" ci ricorda subito qual è per definizione, da ormai trent'anni, la band più rappresentativa dello Union Jack, con una rassegna completa delle tappe fondamentali in giro per la capitale dove "tutto è possibile se viviamo insieme come una grande famiglia".
From Regent's Park Mosque on to Baker Street
down to the Cross where all the pipesmoke neat
to Somerstown where somethings never stop
the Roundhouse, the Marathon Bar and Camden Locks


Ma la Londra del 2009 non è più il parco giochi spensierato di Kentish Town, ora si fanno i conti con amarezza e rimpianto. Il gipsy-pop "Clerkenwell Polka" denuncia gli effetti deleteri del capitalismo, "Rainbows", "Idiot Child" e la rassegnata "Forever Young" lamentano l'addio all'età dell'innocenza salutando la maturazione degli ex-ragazzini scapestrati. Musica da banda, fiati e vaudeville, ma anche valzer, caribe e reggae-folk: nulla di arzigogolato e contorto, solo una soundtrack dell'esistenza che fa dell'artigianato creativo il suo Dna. "Sugar And Spice" comincia con uno sguardo romantico sull'infatuazione ed è forse l'unica a possedere un refrain catchy e orecchiabile (su tappeti di piano e organo a canne), da segnalare anche la marcetta martellante "That Close" e "NW5", che piange gli amici defunti ed era stata pubblicata già un paio d' anni prima come singolo (per questo motivo alla chitarra c'è Kevin Burdette e non Foreman, il lato B propone una cover di "Bittersweet" degli Undertones scartata dalle Dangermen Sessions).
Gli altri brani tradiscono una certa somiglianza tra di loro, legati dal sassofono a fare da trait d'union, ciascuno però con uno specifico motivo d'interesse, vedi "On The Town" con vocalità femminili (guest star la bodysnatcher Rhoda Dakar) o "Dust Devil", che sottolinea lo spleen corale; "Bingo", invece, riparte da pianoforte classico per accelerare di nuovo nello ska e nel dub-beat; "MK II" frena di nuovo con pause stop and go. Da citare, infine, la graziosa "Africa" che, caso più unico che raro, si avventura nel continente nero, staccando dalla quotidianità londinese: Julian Temple ci gira un documentario di 64 minuti (intitolato anch'esso "The Liberty Of Norton Folgate") proiettato al London Indipendent Film Festival.
Qualcuno poi esagera, definendo l'album addirittura il migliore della discografia dei Madness: probabilmente non è così, certo è però che chi si aspettava di ritrovarli col motore ingolfato dopo una decina d'anni spesi tra live, cover e greatest hits resterà a bocca aperta di fronte a un'opera di siffatta caratura, applaudita il 17 luglio al tradizionale (quinto per loro) appuntamento madstockiano dove vengono supportati on stage da The Spatial Aka Orchestra, nuova creatura dell' amico Jerry Dammers. Seguono altri prestigiosi festival come Pinkpop, Splendour e Glastonbury, quindi una partecipazione allo spin-off del Nan's Christmas Carol da Carolin Tate.

Dal duemiladieci ai giorni nostri: memorie di un Rude Boy e Can't touch us now

Subito dopo aver ritirato, nel settembre 2010, il premio Idol ai Q Awards, Chris Foreman annuncia che è in preparazione il follow-up di The Liberty Of Norton Folgate, ma la gestazione è lunga e passa per alcuni show (Earl's Court, Hull, Sheffield, Meltdown Festival) il più significativo dei quali ha sede alla Royal Hall, dove vengono introdotti sul palco dal mito Ray Davies, per quello che ha il sapore di un suggestivo passaggio di consegne.

Nell'estate 2012 ricorre il Queen's Diamond Jubilee, così salgono sul tetto di Buckingham Palace per suonare "Our House" e "It Must Be Love", sullo sfondo di proiezioni animate, quindi sono i primi invitati sul palco per la cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici di Londra. A fine agosto si rende disponibile in download digitale "Death Of A Rude Boy", teaser track del nuovo album Oui Oui, Si Si, Ja Ja, Da Da, pubblicato nel Regno Unito il successivo 29 ottobre. Già dal titolo goliardico si evincono un ascolto meno impegnativo e una certa leggerezza rispetto al predecessore, in scaletta infatti prevalgono ritmi pop esuberanti e un clima gioviale, ma gli spunti di interesse reale sono un po' pochini, se si eccettua la copertina beatlesiana firmata Peter Blake (quello di "Sgt. Pepper's Lonely Heart Club", tanto per intenderci, qui ritrae barrati a penna i nomi di alcune canzoni lasciate in cantiere).
Sinora il bello dei Madness è stata la capacità di invecchiare assieme al proprio pubblico infischiandosene del marketing, stavolta il singolo ufficiale di traino "My Girl 2" strizza l'occhio all'easy listening con un ritornello indubbiamente ruffiano (è il sequel della fortunata "My Girl" in chiave northern soul) ma non basta ad eludere il senso di deja-vù. Da salvare la disco-Settanta "Never Knew Your Name" (archi fluenti e il solito robusto assolo di sax), "Misery" (discreto feeling rock e piccolo omaggio in note alla Quinta Sinfonia di Beethoven) e il reggae-blues sporco "Kitchen Floor", che faranno felici i nostalgici. Il peggior difetto della band, però, è paradossalmente l'immutata fedeltà a una linea uguale a se stessa da decenni e poco incline ai corsi d'aggiornamento (anche se ad ascoltare le improbabili ambientazioni latine de "La Luna El Mariachi" vien da pensare che forse reiterare la formula collaudata non era poi così insensato).
"Circus Freaks" conferma doti innate da intrattenitori con grandeur bowiana (piano rotolante e arietta circense), "So Alive" si gioca invece la carta di timidi riverberi two tone con voce di Suggs elevata un'ottava più alta rispetto al consueto, mentre la ballad casereccia "Leon" e "How Can I Tell You?" (sull'amore incondizionato) scivolano via fiacche e anacronistiche. Una spanna sopra, il dub-requiem "Death Of A Rude Boy", che rende omaggio a quel tipo di figura rispettata la cui scomparsa lascia un vuoto nella comunità, con atmosfere psichedeliche à-la "Karmacoma": Bristol d'altronde non è poi così lontana, e i suoi echi trip-hop rimbombano pure in "Small World" che chiude in delicato backing femminile. Nulla di speciale, in definitiva.

Nel 2014 ci pensa però Cathal "Chas Smash" Smyth a scuotere il rischioso impasse con un sorprendente debutto solista, A Comfortable Man, che svaria con disinvoltura da cantautorato leggero per piano-voce stile Coldplay ("Are The Children Happy?", "You're Not Alone") a cavalcate elettriche radioheadiane ("Shabat She Comes" per costruzione ricorda a tratti "Creep"), passando per una commovente "Goodbye Planet Earth" e numerose perle romantiche finemente orchestrate (struggenti "Love Song no. 7" e "Love Song no. 9", più paciosa "Do You Believe In Love?" con violini che sono il fiore all'occhiello di un lotto incentrato sulla fine del proprio matrimonio e i vantaggi del non essere più un padre casalingo/disperato).
Chapeau: semplice e onesto, ma davvero bello.

Forse per questo, terminata la parentesi, Smyth sceglie di non riaggregarsi ai compagni, che decidono di proseguire come sestetto e nel 2016 pubblicano Can't Touch Us Now, ad oggi loro ultimo album d'inediti che si nutre del solito pastiche formalmente impeccabile ma ormai stantio e ripetitivo, nonostante il titolo magniloquente suggerisca come la band stessa abbia consapevolezza dello status raggiunto di leggende intoccabili nell'Olimpo del pop. Un po' di ska, un po' di reggae, un po' di dub, un po' di allegria, un po' di pessimismo, un po' di qualunque cosa: con Oui Oui, Si Si, Ja Ja, Da Da, sia pur a intermittenza, aveva funzionato, ma stavolta il copione è davvero povero e gli ingredienti musicali paiono gettati nel calderone alla rinfusa. Non quelli lirici, che invece spiccano per qualità poetica e profondità emotiva.
"Pam The Hawk" è una mitica senzatetto sdentata del West End "che sorride come una mitragliatrice mentre inserisce le ultime monetine nelle slot machine, sarebbe la più ricca di Wardour Street se non spendesse tutto in cavalli e allibratori". La sua è una vicenda di dolore accentuata da un malinconico assolo di sax, chitarra acustica jazz e un'impetuosa sezione di fiati, ma di schizzi e personaggi di questo tipo, al solito, ne ritroviamo a bizzeffe. "Herbert", per esempio, è l'ode osé tra ska e music-hall a un suocero un po' possessivo che protegge con il fucile la figlia da un tizio poco raccomandabile ("herbert" appunto, in gergo anglosassone), "Mr. Apples" il processo all'ipocrisia sociale tramite il ritratto di un uomo ruvido "seduto a capotavola al Rotary Club, mai incerto su quale spalla strofinare"; la tetra "Blackbird" è invece una toccante dedica in spoken-word ad Amy Winehouse ("la voce degli angeli caduti") che Suggs aveva incontrato pochi giorni prima della scomparsa (andazzo morbido alla Merseybeat e crescendo di ottoni, mellotron e cori gospel).
Ci sono poi un paio di ulteriori chicche da segnalare, come lo skank brexitiano "Mumbo Jumbo" (molto vicino al sound grezzo di inizi anni Ottanta), il sinistro waltz-in-black "Whistle In The Dark" e i colpi di pistola dello spaghetti-cartoon "Glam Slam", che prende di mira il maschio alfa ("Grand Slam, is he the man? Relentless turbo-charged homo sapiens").
Sedici canzoni però obiettivamente sono troppe, e le restanti si trascinano logore e annacquate: la title track pianistica "Can't Touch Us Now" balbetta plinky plonky e ritmi scipiti, "Good Times" ("where did all the good times go?") predica bene l'astensione dal consumismo dilagante ma razzola solo un sax nervoso e poco più, "I Believe" è una simpatica digressione religiosa con campane in controtempo e arpe ebraiche. "Don't Let Them Catch You Crying", "Soul Denying" e "Don't Leave The Past Behind You" sono dei riempitivi tutto sommato trascurabili. Meglio, allora, congedarsi con la sdolcinata "You Are My Everything" che si avvinghia tra serpentine di xilofono e sensuali arrangiamenti mayfieldiani.

Prodotto ai Rag Toes Studios di Londra da Clive Owen e Liam Watson (fresco di Grammy per il suo lavoro su "Elephant" dei White Stripes), nel giugno del 2016 Can't Touch Us Now viene suonato per intero al Festival di Glastonbury, quindi in giro per il mondo in una estenuante tournée che nel 2017 tocca Europa, Asia e Australia.


Nel 2018 si tiene il "Madness Rocks Big Ben Live", sfarzoso show di Capodanno teletrasmesso da Bbc One tra i fuochi d'artificio. Nel 2019, invece, in occasione del quarantennale dagli esordi, ecco una serie di concerti celebrativi alle House Of Common, KenwoodHouse (con l'accompagnamento di un'orchestra speciale) ed Electric Ballroom di Camden. Infine, nel dicembre 2019, arriva il singolo "The Bullingdon Boys/Don't Get Bullied By The Bully Boys", a spezzare in parte il digiuno poi interrotto definitivamente nel novembre 2023 da Theatre Of The Absurd Presents C'Est La Vie, tredicesima fatica in studio di Suggs e compagni nonché prima interamente autoprodotta.

 

Il teatro dell'assurdo

 

Theatre Of The Absurd Presents C'Est La Vie è stato concepito durante l'isolamento da Coronavirus, che fortunatamente è servito a cementare lo spirito di squadra. Ne è nato un ambizioso concept strutturato a mo' di opera in tre atti e dedicato alla memoria dell'amico Terry Hall, leader dei The Specials mancato appena un paio di settimane prima che la band si mettesse al lavoro negli studi di Cricklewood. Le direttive ska-punk del periodo d'oro non si sono del tutto spente, così alcune delle linee guida che avevano contrassegnato il leggendario nutty sound degli esordi sopravvivono negli ottoni a go-go,i testi sarcastici e gli arrangiamenti fantasiosi che permeano la scaletta.
L'attore britannico Martin Freeman recita in “Prologue: Mr. Beckett Sir...”, rivolta cordialmente al drammaturgo irlandese (“Mr. Beckett Sir, it's time, your audience awaits”), quindi con la quasi title track “Theatre Of The Absurd” attacca lo spettacolo vero e proprio. Il brano è un malinconica macchietta a tinte beatlesiane dove, per tradurre alcuni dei versi più significativi, “gli attori inciampano con le maschere ma senza una vera trama, non ci sono segnali d'uscita e tutte le porte sono bloccate”. Organo e percussioni spadroneggiano in “If I Go Mad”, di taglio corale, e nella avvilente storiella di ladruncoli a sfondo autobiografico “Baby Burglur”. Dal prologo si passa finalmente al primo atto, imperniato su tre pezzi venati di rabbia mista a rassegnazione, ossia l'altra semi title track “C'Est La Vie” , “Hour Of Need” e “What On Earth Is It (You Take Me For?)”, quest'ultima cantata a sorpresa da Thompson su groove ballabili. Il secondo atto è più breve ed è costituito dalla sola “Round We Go”, una canzone pop più classica e rilassata, mentre il terzo atto riporta le lancette ai giorni della pandemia e invita a staccare la spina denunciando i danni da abuso di social media.
Non ci sono hit sensazionali ma si può godere di un'immensa varietà espressiva: si va dal synth-pop di “The Law According To Dr. Kippah” alla ballad “Beginners 101”, passando per la soffice disco-soul di “Set Me Free” e le contaminazioni jazzistiche di “Is There Anybody Out There?” e “In My Street”. Nel complesso si tratta di un progetto ben riuscito che, se si eccettuano un paio di compilation, a quasi quarantacinque anni dagli esordi porta per la prima volta la band al vertice delle classifiche inglesi.

Madness

Discografia

One Step Beyond... (Stiff, 1979)

8,5

Absolutely (Stiff, 1980)

8

7 (Stiff, 1981)

7,5

The Rise And Fall (Stiff, 1982)

8

Keep Moving (Stiff, 1984)6
Mad Not Mad (Zarjazz, 1985)

5,5

The Madness (Virgin, 1988)

6

Wonderful (Virgin, 1999)

6,5

The Dangermen Sessions (V2, 2005)

4,5

The Liberty Of Norton Folgate (Lucky Seven, 2009)7
Oui Oui, Si Si, Da Da, Ja Ja (Lucky Seven, 2012) 5,5
Can't Touch Us Now (Lucky Seven, 2016)

5

Theatre Of The Absurd Presents C'Est La Vie (Bmg, 2023)

7,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

The Prince
(da One Step Beyond..., 1979)

One Step Beyond
(da One Step Beyond..., 1979) 

 

Night Boat To Cairo
(da One Step Beyond..., 1979)

Baggy Trousers
(da Absolutely, 1980)

Embarrassment
(da Absolutely, 1980
)

Grey Day
(da 7, 1981)

Cardiac Arrest
(da 7, 1981)

Our House
(da The Rise And Fall, 1982)     

Tomorrow's Just Another Day
(da The Rise And Fall, 1982)    

Michael Caine
(da Keep Moving, 1984)

One Better Day
(da Keep Moving, 1984)

Yesterday's Man
(da Mad Not Mad,  1985)

 

I Pronounce You
(da The Madness, 1988)

Lovestruck
(da Wonderful, 1999)

Shame And Scandal
(da The Dangermen Sessions, 2004)

Sugar And Spice
(da The Liberty Of Norton Folgate, 2009)

My Girl  2
(da Oui Oui, Si Si, Da Da, Ja Ja, 2012)

Mr. Apples
(da Can't Touch Us Now, 2014)

  

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