Nicole Atkins

Nicole Atkins

Una sirena a Neptune City

Dallo scintillante chamber-pop a marchio Sony degli esordi all'eclettismo soul intriso d'inquietudine dei lavori recenti, passando per l'irrequieto country-rock  di "Mondo Amore": storia di una cantautrice anomala e irregolare, caparbiamente innamorata del grande modernariato musicale americano

di Vassilios Karagiannis e Stefano Ferreri

In un periodo come l'attuale, in cui l'offerta musicale sempre più ricca e caotica si manifesta in un numero di colori e sfumature pressoché infinito, risulta alquanto difficile prestare attenzione a progetti di artisti i quali, rinunciando a voler stupire ad ogni costo ai primi approssimativi ascolti, finiscono per essere liquidati in fretta e furia, alla ricerca di qualcosa di più fresco e, perché no, più accostabile alle tendenze del momento. In questa categoria “sottovalutata” può sicuramente essere annoverata Nicole Atkins, cantautrice del New Jersey che in poco più di dieci anni di carriera “ai margini” dei grandi palcoscenici ha saputo elaborare una proposta tanto credibile quanto stimolante. Considerando la sua predisposizione, saremmo indotti a parlare di lei come di un’artista in tutto e per tutto indipendente, non fosse per quel paio di giri inaugurali sulla giostra discografica sponsorizzati da un gigante come la Columbia. Un’illusione piuttosto crudele, col senno di poi, eppure quasi necessaria a far sì che la cantautrice di oggi potesse maturare con la dovuta consapevolezza. La sua “colpa”, a volergliene imputare una per forza, è stata quella di non impressionare l'ascoltatore con armonie complicate o con suoni ricercati, pescati chissà dove, bensì di affidarsi a una costante opera di rielaborazione di tanta tradizione musicale ormai trascolorata in pura mitologia, un modernariato del cuore che mettesse assieme il piglio di Dusty Springfield, l’animo tormentato di Cass Elliot e la chitarra di Roy Orbison.
In effetti non c'è mai stata alcuna pretesa di innovazione nel suo lavoro, soltanto strofe, ritornelli e bridge, sapientemente costruiti e disposti. Canzoni, insomma, canzoni scaturite dalla perizia melodica di un talento abile a muoversi in territori ampiamente risaputi (soul in primis, seguito da una buona dose di pop orchestrale), per tradurli tuttavia in qualcosa di personale, filtrati da una sensibilità che trova nei suoi dischi una piena libertà d'espressione.

A chi ha imparato ad apprezzarne i vezzi e la voce, Nicole sembra quasi aver preso gusto a far patire la sua mancanza. Poco incline per indole alle regole di un carrozzone dorato che rischiava di annientarla, mal tollerando il suo atteggiamento caparbio e irregolare, la trentottenne del New Jersey ha di fatto abituato alle repentine e prolungate uscite di scena. C’è chi con scetticismo la considera per questo alla stregua di una speranza bruciata, ed è plausibile che, se solo lei avesse optato per un più docile e ossequioso inquadramento negli schemi dello show business, pubblicherebbe ancora oggi dischi per una major – con tutt’altra frequenza e supporto promozionale – e brillerebbe con ogni probabilità tra le stelle di prima grandezza in quel firmamento. Ma a queste condizioni sarebbe stato un compito troppo facile e insieme troppo ingrato, evidentemente. Un gioco che, per ovvi motivi, si è scelto di non giocare.

Solo un’altra Jersey Girl?

220x270_01_11Neptune City, New Jersey, è una cittadina di nemmeno trentamila anime, celebre esclusivamente per aver dato i natali a due attori tra i più amati della Nuova Hollywood, Jack Nicholson e Danny De Vito. Una cornice tranquilla a novanta chilometri scarsi da New York, con la sua piccola baia, una spiaggia sull’oceano Atlantico e il suo fiumiciattolo, lo Shark River, che ha trovato una cantrice d’eccezione in una delle sue figlie in assoluto più promettenti. Un talento precoce, quello di Nicole Atkins, cresciuta consumando nel salotto di casa i vinili delle Ronettes, di Johnny Cash, dei Beach Boys e di una miriade di crooner anni Cinquanta più o meno noti, e insieme portata per il pianoforte e la chitarra sin da prima di diventare adolescente. A lasciare un segno indelebile nella sua formazione di artista, la sei corde di Roy Orbison, la voce della sfortunata Cass Elliot dei Mamas & Papas ma anche quella, ancora non storicizzata nei primi anni Novanta, della vocalist dei Sundays, Harriet Wheeler: qualcosa più che semplici riferimenti tra i tanti quando la fanciulla frequenta il liceo alla St. Rose, nella vicina Belmar, e comincia a esibirsi nelle caffetterie della zona, affiancata da qualche musicista dilettante.

220x270_01bisCon questo modesto bagaglio di esperienze, l’acerba cantante si sposta quindi a Charlotte in North Carolina, dove studia arti grafiche all’università, entra nel giro della locale scena musicale (da sola o tra i membri di un collettivo elefantiaco, Nitehawk) e inizia a scrivere canzoni. I suoi ultimi anni da studentessa la vedono fare la spola tra Charlotte, dove si esibisce alla testa dei Virginia Reel e di altre misconosciute compagini, la città natale, dove è invece impegnata come frontwoman di una band alt-country, i Los Parasols, e il quartiere di Bensonhurst a Brooklyn. L’ormai introvabile Ep dei Parasols, “The Summer Of Love”, esce in pochissime copie nel corso del 2002, ma quella è chiaramente un’opzione destinata all’abbandono. Si intensificano per contro i contatti con il circuito newyorkese e i musicisti di una piccola etichetta indipendente, la Rainbow Quartz. E’ questo il contesto che vede Nicole stringere amicizia con David Muller, per qualche tempo batterista dei Fischerspooner e dei Fiery Furnaces, che pur con limitate risorse le mette a disposizione il proprio appartamento a Manhattan e la aiuta a registrare un cd di demo intitolato “Party’s Over” nell’estate del 2004.

220x270_02_10All’inizio dell’anno seguente Dan Chen, tastierista dell’ex-Soul Coughing Mike Doughty, la persuade a dare vita a un nuovo gruppo che offra la giusta enfasi proprio a lei. Nasce così Nicole Atkins & The Sea, un quintetto (completato da Dave Hollinghurst alle chitarre, John Flaugher al basso e Dan Mintzer alla batteria) che si esibisce regolarmente nella zona dell’East Village con la sua scaltra miscela di Americana, pop sixties e indie-rock. I frequenti show al Pianos, un locale celebre nel Lower East Side, catalizzano in particolare le attenzioni di diverse case discografiche che, anche grazie a quel prezioso demo autoprodotto, si mostrano intenzionate a offrire il primo agognato contratto alla ventisettenne e ai suoi compagni. Tra tutte, nel gennaio del 2006, la spunta in agilità nientemeno che la Columbia, anche se è la piccolissima Red Ink a potersi fregiare della prima stampa assoluta con questa ragione sociale.

220x270_03_12E’ ottobre infatti quando viene pubblicato l’Ep di debutto, Bleeding Diamonds, sei tracce che presentano una promettente torch-songstress, abile a pennellare umori e atmosfere noir con la giusta personalità e una perizia sul vibrato che non lascia indifferenti. Nicole incanta già con questa prima collezione di caroselli ora mesti (“Decora”) ora languidi e delicatamente ampollosi (“Snowshakes”), all’insegna di un chamber-pop d’altri tempi che offre il meglio nella title track, un gioiellino in miracoloso equilibrio tra sofisticazione fiabesca e piglio cantautoriale.
Come antipasto per l’esordio su lunga distanza funziona egregiamente bene, anche perché, nonostante siano solo due i brani destinati a essere poi riproposti, anticipa a grandi linee la formula di un disco ancora lungi dall’esser pronto ma che secondo gli addetti ai lavori promette di essere piuttosto interessante. La stretta decisiva si concretizza sempre alla fine del 2006 quando il gruppo vola in Svezia, prima a Kalgerup e quindi a Malmö, alla corte di Tore Johansson (l’uomo che "creò" i Cardigans, al lavoro anche con Saint Etienne, Franz Ferdinand e Boss Hog).

220x270_04_10Una copertina a cornice, di quelle disegnate e stilose che circolavano durante agli anni Sessanta, con le dive immortalate nei loro abiti più eleganti e le band perfettamente in tiro. La differenza rispetto alle cover di quarant'anni prima? Basta osservare il ritratto centrale, racchiuso in un ovale a mo' di scatto da vecchio porta-foto smaltato. Non nel suo vestito di gala, ma con lo sguardo assorto e i capelli lasciati a cadere sulle spalle, Nicole Atkins è figlia del suo tempo, lascia che il passato la circondi, senza che ne comprometta l'identità e lo spirito. Se è vero che giudicare un libro (ma anche un disco) dalla copertina il più delle volte porta a considerazioni del tutto errate, a questo giro le poche considerazioni fatte finora su un'immagine raccontano molto di quelli che sono i moventi e il contenuto di Neptune City, l'atteso primo passo per la cantautrice del New Jersey.

Passato e presente, dicevamo: in effetti, nei dieci brani che compongono la raccolta, ad essere evidente è l'amore della Atkins per un mondo non vissuto in diretta, ma amato e compreso attraverso la collezione di dischi di famiglia, e rielaborato infine attraverso la sensibilità di una donna e autrice contemporanea, rispettosa ma non timorosa di misurarsi con sound ed estetiche ormai in tutto e per tutto storicizzati. Brill Buildingdoo-wopblue-eyed soul, elementi di jazz, sfarzo baroque-pop a non finire: queste sono le coordinate di un lavoro che dell’attualità semplicemente non sa che farsene e preferisce offrire un nuovo contesto a un universo musicale ormai dato per definitivamente tramontato.

220x270_04bis_02Certo, è vero che la contingenza storica appare anche piuttosto favorevole all’emersione di un'artista come lei. È giusto dell'anno prima l’uscita, sull'altra sponda dell'Atlantico, di un instant-classic come “Back To Black” di Amy Winehouse, che ha riportato sotto i riflettori le movenze e le forme di un modo del tutto dimenticato di comporre musica pop, correndo a ritroso fino ai tempi d'oro della Stax e della Motown, in un'attualizzazione grintosa e sanguigna degli stilemi degli sfavillanti Sixties angolofoni. Inoltre, l'attitudine barocca e magniloquente dell'album trova un notevole corrispettivo nel coetaneo “Release The Stars” di Rufus Wainwright, altra personalità capace di donare nuovo lustro e contemporaneità a linguaggi che parrebbero ormai appannaggio esclusivo giusto di quei rari affezionati.

220x270_03bis_02Insomma, oltre al talento non mancano certo nemmeno le condizioni ottimali affinché una bella fetta di pubblico venga irretita, né l’opportunismo per stagliarsi tra i precursori di una tendenza “vintagista” (si prenda il termine con le opportune pinze) che da Adele a Lana Del Rey avrà partita facile con le platee mainstream negli anni a seguire. In effetti, quanto si agita in questo debutto è una succosa quanto fascinosa anticipazione di tanti dischi pubblicati da quelle esponenti di un raffinato pop dei tempi andati, impreziosito da lussuose orchestrazioni, archi mirabolanti e appassionate torch-song da diva affranta. Eppure, rispetto alla stragrande maggioranza delle colleghe che più o meno autonomamente ne seguiranno i passi, il carattere e lo spessore della proposta parlano di una consapevolezza elaborativa e di un livello espressivo che pone la Atkins su un gradino superiore, che parla di una maturità e di una finezza conquistata con anni di faticosa gavetta, di inciampi, limature espressive e ripartenze.

220x270_08_09Strutturato come una sorta di controproposta a “Greetings From Asbury Park, N.J.”Neptune City è un album in cui interprete e autrice emergono con prepotenza, dettando le proprie regole e imponendo una personalità che prescinde da semplici categorizzazioni. Nell'arco dei dieci brani, la songwriter dà pieno saggio della propria versatilità, destreggiandosi tra brillanti notturni da Hollywood dei tempi d'oro (“Together We Are Alone”, limpida ballata costellata da puntelli sommessi di pianoforte e vividi pattern di violino), episodi in cui concretizzare il sogno di un secondo album da parte delle Ronettes (evidente il riferimento al taglio melodico e alle cadenze espressive da girl-group spectoriano nell'apertura “Maybe Tonight”; la più pacata chiusura “Kill The Headlights”, in cui pianoforte, chitarra e un finissimo lavorio di archi puntellano un pregiato carosello soul), momenti di vero tripudio barocco, in cui ricomporre con tutta la magnificenza possibile l'eredità del pop americano anni Sessanta (“The Way It Is”, che tra clavicembali e twang-bluesy rappresenta l'esempio più indicativo di quanta forza venga riposta negli arrangiamenti del disco).

220x270_12_09Anche con un menù a tal punto sostanzioso, Nicole svetta con la necessaria disinvoltura, grazie a una vocalità potente e intensa, che però non indulge mai nell'autocompiacimento o in tecnicismi privi di sostanza. L’album sa infatti regalare un ottimo e variegato campionario di interpretazioni, spaziando in maniera sfumata e quasi impercettibile (a differenza di quanto accadrà talvolta nelle prove successive) dal sensuale all'imperioso, dal nostalgico al grintoso, fino a spingersi ad azzardare qualche giocata sul terreno dei più suadenti crooner d'America. Capita con la title track, ballata dal sapore country stracolma del fascino e della malinconia di uno standard vocal-jazz (e con aperture melodiche che a loro modo preannunciano le volute art-pop di St. Vincent o della già menzionata Lana Del Rey), in cui biografia e narrazione si intersecano in un intreccio indissolubile, per una fra le numerose dediche che l'autrice rivolge esplicitamente a luoghi o situazioni legati alla sua città natale.
E i luoghi del cuore si estendono sino a lambire le ideali quinte teatrali della Grande Mela. In “Brooklyn's On Fire” il discorso si arricchisce in termini di animazione e si spinge a promuovere una coralità allora all'apice della voga, in un incastro perfetto tra botta e risposta da combriccola indie-folk e appassionati refrain, come una novella Dusty Springfield trovatasi nel pieno del tumulto e della passione ma capace di distaccarsi dal troppo coinvolgimento con un pizzico di ironia. Da qualsiasi lato lo si prenda, insomma, il disco non presenta alcun cedimento sostanziale, anzi, se possibile lascia intendere come quello della Atkins sia un talento che sa mettersi all'opera nei più svariati contesti.

220x270_06_08Il groove trascinante, con tanto di campanellini natalizi di corredo e clavicembalo, di “Party's Over” (quasi un rimaneggiamento più dinamico delle eleganti elegie dei Left Banke) e la grinta rock, tutta batteria e linee di elettrica, di “Love Surreal” (notevole la pronuncia di “surreal”, a volte scandito in modo da rimandare a un più concreto “so real”) testimoniano della perizia di una cantante che già ai primi passi discografici sa conferire tutta una gamma di nuance a un corredo espressivo perfettamente articolato e riconoscibile. E questo è soltanto l'inizio. Calendarizzato in un primo tempo per luglio 2007, Neptune City arriva nei negozi solo alla fine di ottobre, su precise disposizioni del co-presidente Rick Rubin (che ritiene necessario un re-mastering). Debutta al ventesimo posto nei Top Heatseekers di Billboard ma, nonostante le buone recensioni, buca in maniera piuttosto vistosa l’obiettivo che si erano posti ai piani alti in casa Sony: fare di Nicole una star di prima grandezza e non semplicemente una pur bella copia di Loretta Lynn o, per restare alla contemporaneità, di Jenny Lewis (nomi tirati spesso in ballo, non sempre a proposito, dalla stampa).

Un mondo pieno d’amore

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Un 2008 speso quasi esclusivamente in giro per gli Stati Uniti e l’Europa, per promuovere il disco, si chiude con la pubblicazione di un Ep di cover, Nicole Atkins Digs Other People’s Songs, sempre via Columbia (che nel frattempo tenta il tutto per tutto ristampando anche il primo Ep). Si tratta di una piccola collezione di riletture ad ampio raggio (dai Doors ai Nada Surf, dai Mamas & Papas ai Church) tutto sommato ineccepibili e sufficientemente vibranti, cui Nicole presta la propria inconfondibile espressione imbronciata con il giusto trasporto, sopperendo ai limiti di una parte musicale che pecca forse per eccessiva regolarità e lindore calligrafico (nella slavata “Inside Of Love” le sue doti di interprete di razza emergono in tutto il loro potenziale). Il superclassico “Dream A Little Dream Of Me”, in particolare, pare scritto apposta per Nicole che quasi gigioneggia con insopportabile bravura.
Da rimarcare, in questo stesso periodo, anche la sua partecipazione come spalla vocale e corista nell’apprezzata opera seconda di A.C. Newman, “Get Guilty” (2009).

220x270_07_09Quella che segue è però una fase difficile e piuttosto turbolenta in cui la Nostra fatica a ritrovarsi. I musicisti della sua band si sganciano per altri impegni proprio mentre la lunga ma tormentata relazione sentimentale con Paul Ritchie (dei Parlor Mob) giunge al capolinea. Non fosse abbastanza, la cantante viene scaricata anche da quelli della Columbia, che evidentemente si aspettavano riscontri commerciali di tutt’altro ordine. Questo spiega perché per il sophomore si dovrà attendere l’inizio del 2011, dopo la firma con un’etichetta indipendente, la Razor & Tie. Produce Phil Palazzolo, già al lavoro con New Pornographers, Okkervil River, Ted Leo, conosciuto durante la breve esperienza in studio al servizio proprio di Newman. Per l’occasione Nicole assembla una band in accompagnamento nuova di zecca – in seguito descritta da lei come il miglior gruppo di musicisti con il quale ha avuto modo di collaborare – composta dai chitarristi Irina Yalkowsky e Bradley York, il bassista Jeremy Kay e il batterista Ezra Oklan. Ospite d’eccezione in “War Is Hell” Jim James dei My Morning Jacket.

220x270_09_09Mondo Amore rispecchia alla perfezione gli stravolgimenti attraversati dalla cantautrice nel biennio precedente, allontanandosi dalle patinate atmosfere retrò del debutto a favore di sonorità più nervose e moderne, decisamente improntate alla scoperta di un'anima rock in passato tenuta a bada. Ne sia una dimostrazione il singolo di lancio “Vultures”: il cantato spezzato ma potente, i continui cambi di intensità e colore, una minacciosa sensazione di fatalità a condire il tutto (ben evidenziata anche dallo splendido video che accompagna la canzone), fanno del brano una totale inversione di marcia rispetto a chi si aspettava un proseguimento dello stile sofisticato e laccato che sicuramente le sarebbe valso più di una lusinghiera critica in lidi non troppo sospetti. Ma alla Atkins a quanto pare non manca il coraggio, e alle seducenti influenze Brill Building di Neptune City, che le hanno procurato il non lusinghiero titolo di novella Dusty Springfield, si sostituiscono batterie più pronunciate, ritmiche serrate e anche quel pizzico di estrosità in più in fase compositiva, che la mettono quindi al riparo da eventuali paragoni con le varie Adele di turno.
Eccola quindi, preda del suo trasporto emotivo, abbandonarsi alla scatenata melodia di “You Come To Me”, flirtare con il country nello scanzonato episodio di “My Baby Don't Lie”, cavalcare con mordente il refrain agrodolce in “Cry Cry Cry”, sfruttando un timbro vocale graffiante, che denota una rinnovata sicurezza.

220x270_10_09E' la voce palpitante e sanguigna di Nicole che funge da collante all'ampio ventaglio di registri adottati, e ancor di più le sue splendide interpretazioni, tese a mostrare una femminilità rafforzata, piena di nuove consapevolezze e pronta ad affrontare le prossime sfide con spirito deciso e propositivo. Pure nelle tre torch-song di chiusura è assente ogni traccia di eccessiva delicatezza, per quanto l'esilità degli arrangiamenti sembri professare il contrario. Le raffinate orchestrazioni jazzy, cesellate al minimo dettaglio, nulla tolgono infatti alle letture vibranti che la cantautrice fa della sua musica. A partire dal conclusivo “The Tower”, brano-capolavoro del disco, tutti i lenti racchiusi in quest'ultimo si muovono sulla doppia coordinata appena descritta, senza mai soffocare la chiarezza melodica, intensificata dal lirismo stentoreo di una donna fiera e combattiva, che nella forza delle sue emozioni trova il modo di reagire alle incognite dell'anima, anche quando tutto sembra crollarle addosso (“There's a tower crumbling down”, intona con struggimento nel climax del pezzo succitato).
Il curioso titolo italiano trova così una spiegazione: il mondo è pieno di amore, la Atkins se ne è resa conto e dona anima e corpo a una ritrovata armonia con quanto la circonda. Le sue canzoni, dotate di quella capacità comune a pochi di saper parlare a un pubblico ampio senza mai scadere nella banalità, raccontano di vita, di vita vissuta con la piena percezione di quanta incredibile bellezza possa esserci attorno a noi, nonostante le tante avversità da fronteggiare. Tocca agli ascoltatori, sempre meno purtroppo, recepire il messaggio e farne tesoro, custodendolo come una fiammella minacciata dal vento.

220x270_11_07Se le vendite stentano, la critica plaude. Di Mondo Amore parlano in termini più che lusinghieri il New York Times e Rolling Stone, della festa di presentazione tenuta alla Music Hall di Williamsburg scrive persino il New Yorker, mentre Spin Magazine descriverà l’esibizione di Nicole e i Black Sea al South By Southwest come la più entusiasmante dell’intera rassegna. Un tour infinito degli Stati Uniti tiene impegnata la Atkins per circa un anno, opening act per i concerti di Black Keys, Nick Cave & The Bad Seeds, Primal Scream, Regina Spektor e degli amici Avett Brothers (per vederla finalmente in Italia toccherà attendere invece il 2013, quando si esibirà di spalla agli Eels), e la Razor & Tie prova a battere il ferro rovente con un Ep live, "‘Till Dawn", alla fine del 2011. Solo al termine dello sfiancante carrozzone la Nostra comincia a dedicarsi alla scrittura di nuovo materiale assieme al produttore Jim Sclavunos, già batterista proprio di Nick Cave e, in precedenza, dei Sonic Youth. Le lavorazioni si arenano tuttavia a causa dell’uragano Sandy, che distrugge parte della casa-studio di Nicole nel New Jersey rendendola a lungo inagibile, oltre ad alcune centinaia di copie in vinile delle sue precedenti uscite.

Angoscia in chiave chamber-pop

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Venuto a conoscenza delle sue ultime sventurate vicende, Tore Johansson invita la Atkins in Svezia, mettendo a disposizione se stesso e il proprio studio per le registrazioni del nuovo album. Il risultato, che non fa mistero di ambire a essere davvero l’album del ritorno per la musicista, si intitola Slow Phaser e rappresenta il lavoro forse più bizzarro della statunitense, finanziato grazie a una campagna di crowdfunding e pubblicato con qualche rischio direttamente dalla label personale della cantante, la Oh, Mercy!
Proprio la presenza del produttore scandinavo va a sancire un implicito e ideale raccordo con l’opera di debutto e non è un caso che se ne riconosca la mano sin dall’avvio, quando le luci soffuse e le movenze sensuali ma severe di Nicole, da perfetta femme fatale, trascolorano in un retro-pop avvolgente e notturno. A colpire è la sicurezza, arma che fa parte da sempre del suo corredo di artista. Il carattere e il tocco da maliarda contribuiscono a rendere sontuosa una ballad corrucciata e misuratissima, evidente soluzione di compromesso tra le fantasmagorie baroque-pop dell’esordio e la coraggiosa giravolta autoriale del sophomore: l’indirizzo espressivo di un terzo Lp che si preannuncia non facile sarà questo, in fondo.

220x270_18_06La constatazione trova importanti riscontri nella successiva “It’s Only Chemistry”, resa euforica e ciondolante come un’escursione in alto mare, anche per merito di un coro chiamato a dare man forte e ubriacare dolcemente. La Atkins abbraccia l’ascoltatore in un esercizio da consumata maestra di seduzioni dove, cooptando un armamentario più tradizionalista (compreso il banjo) e profondendosi in un’esibizione che flirta apertamente con il country, si rende proprio testimonianza di questa ricerca di smaliziati accomodamenti tra le precedenti incarnazioni, quella fiabesca e colorata e una più intimista, ben radicata nel suo retroterra yankee. Su tutto svetta l’interpretazione al solito convincente, prova di virtuosismo affilato e senza macchie.
In Slow Phaser la scrittura sembra inseguire le stesse traiettorie eclettiche e oblique della Brisa Rochè più spregiudicata, giocando in sottrazione e non disdegnando ombreggiature sintetiche nel quadro di un comunque agilissimo easy-listening. Il ricorso alle sottili ibridazioni stilistiche si offre come comodo espediente cui la cantante è abile a conferire la giusta concretezza plastica, in virtù delle qualità policrome della sua voce favolosa, calda, lucente.

220x270_13_07Da principio gli arrangiamenti possono spiazzare, così come gli inserti corali rutilanti. “We Wait Too Long” è l’episodio nel quale un simile artificio si rivela più scoperto e l’esecuzione tende a gonfiarsi in un numero magniloquente che pecca un tantino per affettazione. Non c’è tuttavia ruffianeria nelle pose un po’ estenuate, e la reiterazione finisce per legittimare anche le scelte apparentemente più audaci. Meno Nashville e più avant-pop à-la My Brightest Diamond, insomma, ma ogni rischio di sofisticazione è scongiurato in partenza perché Nicole resta una songwriter dalle radici solide e profonde. Affascina con la limpidezza del suo canto da sirena e, se una semplificazione delle trame pare innegabile, questo non limita le suggestioni di una firma genuina e personale. Che dà il suo meglio nel caso di “Red Ropes”, avvantaggiandosi della stessa eccelsa naturalezza melodica delle più riuscite tra le sue pagine di ieri, da “The Way It Is” a “The Tower”. Anche nell’enfasi di uno sviluppo che non si preclude derive melodrammatiche, la Atkins è sensazionale per come riesce a frantumare il vincolo delle adulterazioni formali e a imporsi nella sua autenticità di donna prima che di artista. Stentorea, infettiva, toccante, come in poche oggi sanno essere.

220x270_05_10Le fumose e grigie architetture che soprattutto nella (notevole) seconda parte servono da fondali rivelano una curiosa corrispondenza con la Apple dell’ultimo, sofferto album. Anche Nicole non ha timore a mostrarsi più cruda, abbrutita da mood gravati dall’inquietudine, ma ne esce con polso, con la forza di incantesimi tanto semplici quanto efficaci. La magia risiede nell’angolarità di quella sua voce così versatile, le cui inflessioni sospingono i brani esattamente dove lei desidera, a toccare le giuste corde in chi vi si presti.
E’ spigliata la ragazza del New Jersey, eppure, come Fiona, assai meno solare di quanto si sarebbe portati a immaginare. Così il placido folk-pop dalle screziature seventies di “The Worst Hangover” svolta a sorpresa nell’ennesima angosciosa torch-song, mimando la progressiva caduta in una spirale dolorosa, disperata persino.
E a completare il quadro di questo inatteso apparentamento pensa la piccola follia gospel intitolata “Sin Song”, che ricorda da vicino la polifonia tutta intarsi apparecchiata dalle sorelle Maggart in “Hot Knife”, vitale e cantilenante ma solo falsamente spensierata. Per il congedo è promosso invece un passaggio più quieto, depurato dalle scorie della propria inclinazione espressionista ma pur sempre vigile, mai veramente pacificato.

220x270_14_07Provata dalla gestione esclusiva della parte distributiva, per la sua quarta uscita Nicole firma con una piccola etichetta dell’Alabama, la Single Lock. Ispirato ai lavori di (una fin troppo ovvia) Dusty Springfield, di Peggy Lee, Candi Staton, Barbra Streisand e, nuovamente per lei, l’idolo Roy Orbison, il nuovo Goodnight Rhonda Lee viene registrato a Fort Worth, Texas, in appena cinque giorni, assieme al team Niles City Sound (Autin Jenkins, Josh Block, Chris Vivion, con il contributo di Ben Tanner degli Alabama Shakes) un pool di produttori apprezzato a livello nazionale in quanto artefice del successo della stellina retro-soul Leon Bridges, ideale per offrirle quel mood romantico e quell’atmosfera di classicità soul di cui la Atkins andava in cerca da tempo.
E’ un disco che parla di redenzione personale al termine di una nuova fase di vulnerabilità e transizione: il raffreddarsi dell’entusiasmo, un matrimonio felice ma vissuto evidentemente come una sorta di traguardo, l’eccessiva leggerezza nel consumo dei superalcolici; e poi la grave malattia del padre, una molla per destarsi dalle secche in cui era lentamente scivolata, per ritrovare lo slancio e l’ispirazione perduti. Del tutto cruciale si rivela poi il trasferimento dalla quiete fin troppo confortevole di Asbury Park – dove più o meno lungamente la Jersey girl ha sempre vissuto – all’assai più elettrizzante cornice di Nashville, di fatto un luogo d’elezione per un’artista come lei. A incoraggiarla, soprattutto, un amico di vecchia data come Chris Isaak, ospite anche come autore in “A Little Crazy”.

220x270_19_07Il titolo della raccolta si riferisce all’alias che la Atkins ha sempre attribuito alle sue pessime abitudini, la parte di sé incline al vizio che era tempo di mandare a dormire, una buona volta, ma chissà che nel nuovo corso non rientri anche la cover di “Heroes” prestata negli stessi giorni a un celebre marchio di birra per una campagna di responsabilizzazione contro la guida in stato di ebbrezza. Un disco che parla di risvegli e di auto-disciplinamento quindi, non senza una buona dose di ironia, e che non mostra alcuna remora nel tornare a guardare persino con prepotenza a un passato che trascolora subito in mitologia. Più gioioso, dopo gli squilibri eccentrici (e qualche sprofondo umorale) di Slow Phaser, è con ogni probabilità il suo lavoro più solare e consapevole. La title track, per dire, ritorna con fiducia al primo e mai sopito amore, quello per un country vivacizzato da cadenze jazz, trovando sponde inattese nella più recente fatica di un’altra artista talentuosa che sembra aver voluto giocare tutte le sue carte sull’introspezione e il cuore, la Sallie Ford di “Soul Sick”.

220x270_15_07La cantautrice del New Jersey ritrova sin dall’avvio la splendente intonazione confidenziale dell’esordio, limando quanto basta gli svolazzi orchestrali per lasciare al centro della scena la magia priva di adulterazioni di quella sua voce robusta, ora meno trionfante e più umana, meno timorosa di rivelare qualche fragilità ma ancora in vena di meraviglie e di ammalianti infezioni demodé. Il suo sofisticato pop-noir suona oggi più adulto ed equilibrato, meno ingenuamente pirotecnico o fiabesco, attento come non mai alle implicazioni filologiche, all’esattezza di un cifrario espressivo che è spudoratamente derivativo e, proprio come nel caso di Leon Bridges, si compiace di esserlo. Viene alimentato in chi ascolta il piacere di una sorta di effetto-diorama, senza tuttavia le ripercussioni tipiche dei lavori troppo teatrali e con la compensazione di un cantato forse mai così caldo e vero, incisivo a prescindere dalla sontuosità dei decori (che appaiono in realtà assai più ponderati rispetto alla sua norma). L’economia di risorse gioca a suo favore, perché consente di dare il necessario risalto a tutte le sfumature di un’interprete che sa essere sensuale e sentimentale, languida e caparbia nel volgere di una stessa canzone.

Cosa manca allora a un album così attento alla resa emozionale e nel contempo alla forma? Qualche scossa sorprendente, forse, perché se i brani riescono placidi e magnificamente levigati, è innegabile che quella vena di follia qui evocata solo nell’incipit (ma di fatto poi disconosciuta) avrebbe fatto comodo a una raccolta priva di strappi degni di nota. Stavolta le esplosioni suonano tutte rigorosamente controllate (“Brokedown Luck”, ad esempio) e quindi per forza di cose almeno in parte disinnescate. Così, se la fruizione vive delle gratificazioni legate a questo o quel dettaglio, sembrano mancare i colpi di fulmine cui Nicole ci ha da sempre abituati e qua e là uno sbadiglio va messo in preventivo. La classe, ad ogni buon conto, non si discute e una gemma notturna come “I Love Living Here (Even When I Don’t”) sembra qui apposta per ribadirla.

220x270_17_06Passaggi appena più frizzantini grazie a una scorta di fiati (“Sleepwalking”) controfirmano un’impressione di sostanziale gradevolezza ma non stravolgono le prospettive di un album tutto giocato in ripiegamento sul velluto di una rassicurante comfort-zone stilistica, a volerla dire tutta assai meno coraggioso del suo predecessore. Ma si tratta indubbiamente del disco di cui la Atkins aveva bisogno in questo momento, ed è appunto in tale ottica che lo si deve inquadrare e apprezzare. Come già Mondo Amore qualche anno prima, Goodnight Rhonda Lee è un’opera ispirata da molte fratture dolorose e tuttavia condotta con polso, silenziando al massimo la propria indole viscerale ma non quella fascinosa espressività di artista irrequieta. Anche quando affronta apertamente i propri demoni, Nicole tralascia la crudezza che altrove non si curava di occultare, per servirsi invece della medesima malia sobria e malinconica degli altri passaggi, tenendo a freno l’impulsività per privilegiare la ponderazione di una mente finalmente lucida. Capita nelle battute conclusive, tra una magnifica “A Night Of Serious Drinking” e la splendida ballata noir di “A Dream Without Pain”, che chiude le danze.

Tre anni dopo la più dolorosa venture country, giunge il secondo capitolo sotto la Single Lock, Italian Ice, album che conferma Nicole Atkins come autrice di spessore, incapace di produrre un album al di sotto di certi standard. Pur mantenendo fede ad un'estetica gloriosamente vintage, il quinto album respinge un'assimilazione troppo ortodossa, lasciando che siano trasporto vocale e personalità autoriale a fare la differenza, in un riavvicinamento al soul che premia il calore e la maturità di una delle più affidabili interpreti della canzone americana.
Il tocco sixties che pervade tutta la raccolta, con i suoi rimandi all'estetica Brill Building (che già “Neptune City” propose, per quanto in chiave ben più carica) e alle grandi eroine del blue-eyed-soul, non si accattiverà in alcun modo le grazie di chi dal cantautorato cerca maggiore modernità timbrica e un approccio meno classico. Anche così, la penna di Atkins sa essere tutt'altro che scontata, banalizzante, offre una manciata di canzoni che sanno come dialogare con la classicità senza perdere di vista la poderosa espressività della sua autrice, che scava nuovamente nel proprio vissuto per trarre linfa vitale. I ricordi della giovinezza e delle estati trascorse lungo il Jersey Shore diventano materiale plastico, sostanza emozionale che la songstress riversa in dieci inediti (“A Road To Nowhere” è una cover, sottilmente venata da spunti psych, del brano di Carole King) giocati sul senso di casa e di appartenenza, su una nostalgia strisciante che però sa come non tradursi in stucchevole nostomania.
Con gli amici ed eroi musicali di una vita a dare man forte, il progetto si divincola tra spazzolati rock dall'atmosfera magica (“AM Gold”), ballate country dal sapore carpenteriano (“Captain”), momenti di puro storytelling, in cui la voce di Atkins splende nel suo possente contralto (“St. Dymphna”, perfetta trasposizione del tocco spectoriano ai giorni nostri, con tanto di doloroso testo a corollario). E se si potrebbe sentire il bisogno di maggiore dinamismo, l'accoppiata “Mind Eraser”-“Domino”, con i loro bassi slanciati e i groove sommessi, dà un tocco di modernità funk che nel 2020 trova assoluta corrispondenza. Un peccato che la chiusura appaia più sottotono del dovuto, non riuscendo a spingersi oltre il compito ben fatto, resta comunque la certezza di un'autrice ben conscia delle proprie capacità, sfruttate ancora una volta per un album di buon livello, dotato del giusto slancio.

Nicole Atkins continua insomma a confermarsi artista non certo oscura o ostica, ma comunque intensamente problematica, passionale, mai banale. E tra lievi sfumature e qualche immancabile turbolenza sentimentale, i suoi dischi continuano a somigliarle, a riflettere la sua bellezza elusiva e preziosa.

Nicole Atkins

Discografia

NICOLE ATKINS
Bleeding Diamonds Ep(Red Ink, 2006)7
Neptune City(Columbia, 2007)7,5
Digs Other People’s Songs Ep(Columbia, 2008)6
Mondo Amore(Razor & Tie, 2011)7
Slow Phaser(Oh’ Mercy!, 2014)7
Goodnight Rhonda Lee(Single Lock, 2017)6,5
Italian Ice (Single Lock, 2020)6,5
NICOLE ATKINS & THE BLACK SEA
…’Till Dawn Ep (Razor & Tie, 2011)6
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Maybe Tonight
(video, da Neptune City, 2007)

The Way It Is
(video, da Neptune City, 2007)

Neptune City
(video, da Neptune City, 2007)

Under The Milky Way
(video, da Digs Other People’s Song, 2008)

Hotel Plaster
(video, da Mondo Amore, 2011)

My Baby Don’t Lie
(video, da Mondo Amore, 2011)

Vultures
(video, da Mondo Amore, 2011)

The Tower
(live, da Mondo Amore, 2011)

Cry Cry Cry
(live, da Mondo Amore, 2011)

And What I Wouldn't Do
(outtake, da Mondo Amore, 2011)

Dark Magic In Your Eyes
(outtake, da Mondo Amore, 2011)

Metal And Memories
(outtake, da Mondo Amore, 2011)

Girl, You Look Amazing
(video, da Slow Phaser, 2014)

Who Kill The Moonlight?
(video, da Slow Phaser, 2014)

Red Ropes
(live, da Slow Phaser, 2014)

Listen Up
(video, da Goodnight Rhonda Lee, 2017)

A Little Crazy
(live, da Goodnight Rhonda Lee, 2017)

Domino
(video, da Italian Ice, 2020)

Captain
(video, da Italian Ice, 2020)

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