Clayhill

Small Circle

2004 (Eat Sleep)
pop

Esce certamente nel periodo dell'anno più adeguato, questo debutto sulla lunga distanza dei Clayhill, trio inglese che aveva già fatto parlare di sé, alcuni mesi or sono, grazie al mini album "Cuban Green", che si presentava volenteroso all'ascolto, fiero del suo non così ingenuo né così facilone impasto di jazz, folk, piccola elettronica e pulsione introspettiva di chiaro stampo cantautorale. Lì, in quel momento, con quell'Ep, si prometteva. Qui, ora, con questo album, si mantiene e si calca la mano laddove più è in gioco la propria identità. E una delle canzoni meglio riuscite, intitolata "Grasscutter", recita ad un certo punto: "How do I feel, I feel like me/ Lift your heads up Cuban green/ I'm coming for you"; e come dimostrazione di chiarezza d'intenti e sicurezza d'azione possa bastare.

Esce al momento giusto, si diceva. L'estate è appesa al muro, in camera, dentro già sgualcite cartoline di mare, vette montane, città visitate e follie compiute. Ottobre porta odore di foglie che si seccano, di cieli rannuvolati, di piogge che scendono da zone interne del mondo e dell'animo, e un buon album da far andare con in mano le prime tazze di tè fumante non casca certo male. E sia come sia, anche i nostri paiono attaccarsi al treno mai domo del revival acustico anche se arricchito, anche se complicato. Altri, come loro. Hai voglia quanti. Eppure ogni ascolto fila via e ne chiama subito un altro, non per confermare già avute impressioni, ma per scovarne e stimolarne altre, inaspettate e comunque buone. Atmosfere suffuse, talvolta tagliate via, brutalmente, dalla voce di Gavin Clark. Suoni curati, quel tanto da dimostrare attenzione al particolare senza scadere in un gratuito sciovinismo. Quello che c'è serve.

Balzano alla mente nomi d'autore, grandi nomi, mostri sacri. Corrono veloci davanti agli occhi copertine di dischi tenuti nel sacrario, il solo richiamarsi ai quali puzza di blasfemia. E per questo non cadremo in alcun errore di approssimazione, né di impazienza. Saremo qui ad aspettare il secondo disco, quello famigerato, il banco di prova. E forse pure un terzo, perché non si sa mai. Resta il fatto che siamo piacevolmente colpiti da questo debutto. Resta il fatto che Ali Friend, Ted Barnes e Gavin Clark si incontrano volentieri in ogni brano, si annusano, si amalgamano, si assecondano. Fanno in modo che l'ascoltatore non sia colto mai dalla brutale e avvilente sensazione di aver sentito per tutto l'album la stessa canzone, lo stesso giro. Variano, saltellano, scompongono e ricompongono eppure sempre omaggiando un'indole ben precisa, che mira alla zona riposta, al centro verso cui tutte le arterie convogliano e da cui tutte le vene dipartono. La copertina dell'album, una volta tanto, pare essere indicativa.

E' uno di quegli album che non spara le sue migliori cartucce subito, ma sembra voler preparare il terreno, preparare l'ascolto, acchiappare l'attenzione e l'amicizia dell'ascoltatore, per poi consegnarli delicatezze e preziosismi. In effetti, se vale la pena ricordare "Northern Soul" per il festoso sposalizio tra elettronica, suoni quasi funk, spruzzate di jazz sostenuto che aprono a distorsioni di certo post-rock, o anche "Even Though" per l'assoluta cura degli arrangiamenti, sono le ultime tracce ad accattivare e accontentare di più.

"Mystery Train", uno dei brani più jazzati dell'offerta dei Clayhill, arriva col numero sette. Dialogo soffuso tra il piano e il basso, sullo sfondo di un iterato ritmo di batteria, appena sgraziato da una distorsione anch'essa mandata in loop per tutto il brano, finché l'inconfondibile voce di Clark s'impossessa della scena alternandosi a una azzeccata sezione di violino e cello. Subito a seguire la già ricordata "Grasscutter", pezzo più abitudinario, ma azzeccatissimo. Ridondante, amalgama perfettamente i vari contributi sonori, aperti da un brusio di gente vociante e da una striata di cello che sembra lì per dare il via a un incontro sonoro che issa questo brano allo status di singolo, di hit.

I numi tutelari di Nick Drake e di certo John Martyn sono invocati per "Afterlight", in assoluto il pezzo più intimista dell'album, acustico e scarno, in cui la voce assume ancor più il suo connaturato ruolo di guida e porta l'ascoltatore nel territorio che pare essere congeniale ai tre giovani inglesi. "Afterlight", brano serale, appunto, struggente, mentre il canto sembra morire cullato dal gioco teso sulle corde del violino e della chitarra. Glorioso.

06/12/2006

Tracklist

  1. Alpha Male
  2. Northern Soul
  3. Moon I Hide
  4. Human Trace
  5. Even Though
  6. Rushes Of Blonde
  7. Mystery Train
  8. Grasscutter
  9. Afterlight
  10. End Refrain

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