Allister

Una biografia pop-punk come tante. Tim Rogner (voce) e Johnny (chitarra), Chicago, compagni di classe al college, decidono di formare un combo di cover per feste liceali. Dopo essere stati notati dalla Drive Thru, nel 1998, cambiano nome in Allister (uno slang per Alasdair Gillis, personaggio della storica Tv dei ragazzi canadese, "You Can’t Do That On Television") e firmano un contratto a basso costo. Escono così, tra qualche cambio di line-up , "Dead Ends And Girlfriends" (1999), "Last Stop Suburbia" (2002), fino ad arrivare a "Before The Blackout", il più dispendioso in termini di produzione.

In quest’ultimo album furoreggiano in particolare i richiami dei Green Day post-"Dookie", a volte a un passo dal plagio ("You Lied"), altre mostrando come avrebbero potuto suonare senza la loro svolta power-pop ("Waiting"), ma anche gli accordi stoppati con precisione chirurgica tra il canto finto sofferto e il tono minore à-la Screeching Weasel che poi si libra nel chorus in tonalità maggiore ("Blackout").

Per il resto, il disco è un marasma di emo-core all’ingrosso ("The Legend of Pegleg Sullivan"), cori telefonati e iperprodotti ("Rewind"), riff metalcore affogati nella solita minestra hardrockeggiante populista ("Suffocation" e" Potential Suicide"), penosi scimmiottamenti Adolescents-Sex Pistols ("Easy Answers"), cieche cavalcate senza passionalità (che i nostrani e misconosciuti Evolution So Far sanno invece far esplodere in quantità industriali), modulazioni dinamiche fatte con lo stampino ("Alone") da far rimpiangere Avril Lavigne e Sum 41.

Nonostante la tecnica da mestieranti rodati dei signori produttori, che - rimpiazzando il bandleading - dà a malapena l’illusione di una maggiore inventiva, l’assente clamorosa è la più modesta delle crescite artistiche. Il punto è che neanche ci provano. Infausto.

08/03/2006