Matthew Bayot (originario di St. Louis) è uno studente di musica indiana che nel 2004 comincia a scrivere di getto canzoni nello stile dei classici freak Jason Molina e Will Oldham. La volontà artistica a lui più cara sembra essere quella di riversare gli insegnamenti del raga e della musica modale in alcune delle sue canzoni. Ne esce un Lp, "Circling Buzzards", pubblicato dalla Fire Records, che colleziona i suoi primi frutti creativi. Così come Johanna Newsom (nel suo esuberante esordio su Drag City del 2004, "The Milk-Eyed Mender" cfr.) contornava la sua voce stridula, calibrata tra le vocalist del folk prebellico degli Appalacchi e le nenie vibranti di Bjork, con arrangiamenti barocchi per arpa e clavicembalo, così Bayot tenta la carta della mescolanza del psych-pop con i timbri degli strumenti tradizionali (tabla, sitar).
La prima sfera del disco, in effetti, tenta numeri di contaminazione, senza per questo affondare il colpo. Il suo songwriting è anzi abbastanza circospetto. All'inizio ("Cast No Shadow") fanno capolino gli orientalismi di McGuinn, mentre "Beauty Myth" sfoggia unisoni di chitarra acustica Donovan-iana e sitar, secondo un blues-raga dall'interpretazione vacillante, e "Winterpollen", con una sezione ritmica più scandita, fa quasi pensare a certo tardo Byrne. In "Dragon's Tail" la voce sporcata di echo duetta con una chitarra a incroci country-rock nella quale si inserisce un sitar discreto. "Sore Thumb", sorta di sperimentazione con le scale orientali alla Ben Chasny, sommata a un impacciato sound sculpting dall'andamento ballabile, è puro riempitivo. "Meg" è un modo sempliciotto per sitar e tabla (ma comprensivo di un cambio melodico che ne stempera il mood).
I già blandi paralleli con la Newsom si perdono del tutto in pezzi come "Your Favourite Fruit", una ballad convenzionale per chitarre scampanellanti e voce filtrata, che lascia da parte la strumentazione indiana per rivolgersi stancamente a Smog e Molina. "Drowning" attacca distorsori e amplificatori e sfodera una jam centrale per avvicinarsi al Gabriel più impavido. La title track, il brano con cui l'album termina, è una piece folk-rock per arpeggi pastorali e gorgheggi angelici.
Da un estremo all'altro. "Gin With Jodi" propone 13 minuti improvvisati per soli sitar e tabla, che per contrasto diventa il cuore pulsante del disco. Dialoghi strumentali, call-and-response, rarefazioni, innalzamenti e vedute aeree: si tratta un'incursione nel folk indiano in piena regola, ma con più di un occhio di riguardo alle puntate tonali. Qua e là trapela ostentazione, come pure una certa confusione su quale delle due dimensioni (modale o tonale) Bayot voglia/possa far emergere, ma l'insieme è nobilitante.
Ritmo sostenuto all'inizio, uniforme nell'insieme dell'album, inciampa quando prova a scendere nei dettagli della scrittura sofisticata. Qualche momento di facile commozione, e un bandleading inetto, fuori fuoco. Bravo Jaipal Singh (uno dei maestri di Bayot) alle tabla. "Gin With Jodi" rimane l'episodio più disinibito del 2005.
24/11/2016