Francamente i Djam Karet, che inizialmente avevano generato in me grandi entusiasmi, negli ultimi anni mi avevano un po' annoiato. Dischi sempre discreti, ci mancherebbe, ma sempre più di maniera e sempre più freddi. Poi ti arriva questo "Recollection Harvest" che giudico, diciamolo subito, il loro miglior disco da diversi anni a questa parte e uno dei loro migliori in assoluto.
L'album è diviso in due sezioni abbastanza diverse tra loro, praticamente quasi due dischi in uno. La prima è intitolata proprio "Recollection Harvest" e consta di cinque brani medio-lunghi. Già dal primo ascolto si rilevano diverse differenze rispetto alle prove immediatamente precedenti: 1) Dispiegamento maggiore di parti melodiche, con riduzioni delle epilessie di dialogo chitarristico; 2) Ribilanciamento del sound con molto maggiore spazio alle tastiere, in buona parte analogiche, a partire dal mellotron all'inizio della prima traccia; 3) registrazione e sound meno levigati, sembra quasi un live in studio, con tanto di batteria sferragliante e hammond "sporco" molto Seventies, a tratti un po' alla Santana; 4) Riscoperta parziale della chitarra acustica in diversi brani, ferma restando la base di un chitarrismo para-frippiano lancinante.
Conclusione? Il disco più progressive dai tempi di "Reflection From The Firepool", con dei riferimenti anche sinfonici oltre che, scontatamente, crimsoniani . La qualità delle composizioni è poi ottima, con temi che si susseguono, bassi slappati, tastiere rombanti e chitarre urlanti. Una piccola delizia. Questo per i primi cinque brani, che comunque occupano ben oltre della metà del cd. Poi, le sei successive tracce, nella parte chiamata "Indian Summer". E così si chiama pure il sesto brano, digressione chitarristica su base minimale di tastiere sintetiche, siamo in piena zona para-frippertronica , diciamo che potrebbe essere un brano degli Heldon.
Minimale è il termine che sottende poi tutta la seconda parte del cd, con arretramento della sezione ritmica, percussioni e scale chitarristiche con qualche voglia di Oriente, un filo di elettronica, un brano alla Mc Laughling nella sua fase mistico/acustica ("The Great Plain Of North Dakota"), altre digressioni elettroniche alla Phinas ("Dark Oranges", "Requiem"), psichedelismi assortiti. Insomma, una seconda parte molto meno rock, ma al contempo molto intensa e convincente. Un grande ritorno.
08/04/2021