Chicago 2018... It's gonna change.
In effetti son cambiate parecchie cose dai tempi della magica stagione americana, quando il post-rock era la chiave di volta d'ogni nuova esplosione creativa.
Parlando di Sam Prekop è arduo prescindere da quella compilation, tributo alla città culla delle avanguardie anni Novanta, dal momento che proprio nel doppio omaggio alla schizofrenica comunità underground americana (Clearspot, 1999) si trovano fra gli altri i semi che hanno condotto Prekop e altri sopravvissuti fino ai giorni nostri.
"Post-rock", ovvero la formula magica che, come "new wave" nel decennio precedente, racchiude tutto e il suo contrario.
Nella stessa culla troviamo intenti a scambiarsi compositi umori i Tortoise, l'immancabile Jim O'Rourke, schiere di jazzisti imbastarditi d'elettronica, improbabili glam-rocker (Bobby Conn), e infine un nemmeno troppo sotterraneo esercito post...pop.
Prekop è l'uomo che assieme a John McEntire (colonna portante dei Tortoise, appunto) e ad Archer Prewitt, ha messo assieme i The Sea And Cake, Prekop è l'uomo che prende a prestito i tremori jazzy della ventosa città dell'Illinois, già di per sé ebbri di pulsioni latinoamericane (alla maniera di Arto Lindsay, però) per ritagliare melodie leggere, che accolgono la lezione dei padri nobili del pop americano.
Potremmo anzi sbilanciarci e dire, sia pur col timore d'essere blasfemi (poco c'importa), che Prekop sta ai The Sea And Cake come Donald Fagen agli Steely Dan.
Così come il Fagen solista s'inebria di funky, specie in "Kamakiriad", Prekop, privato della band, dismette quasi del tutto le tentazioni avant di quella proposta pop (riferimenti che a onor del vero tendono a farsi rari già in "One Bedroom" e che in questo album si rintracciano solo nel sommesso ipnotismo di "C+F") , in favore di una composizione semplificata, più ortodossa, ma non per questo meno accattivante.
Sei album col gruppo d'appartenenza, seconda esperienza solista, un album d'esordio jazzy datato 1999 di straniante bellezza, e il comune denominatore fornito da una prospettiva che saccheggia dalle sperimentazioni e che con indolente stupore le restituisce sotto forma di canzoni da ascoltare su strade incorniciate da tramonti primaverili, o in un confidenziale dopo cena.
Non cercate in quest'album svolte epocali, poiché il vibrare delle emozioni-in-quiete si gioca tutto sull'impercettibile, nella ricerca di nuovi retrogusti di malinconìa.
Al contrario, ciò che potrete trovare è la cura maniacale per il dettaglio, una scrittura che mira alla mente quando non riesce nell'impresa di colpire al cuore. E il vezzo per la digressione: al riguardo è illuminante "Dot Eye", brano dall'incipit soave che con discrezione declina in ruvidezze elettriche che richiamano alla mente persino i Talk Talk di "Laughing Stock".
C'e' poi un momento in cui Sam gioca a fare i Tortoise che a loro volta approcciano gli Steely Dan, con la strumentale "Magic Step", che traccia linee rette di virtuosismo, di quelle che solcano fossati fra i musicisti normali e quelli che suonano per davvero.
I difetti di "Who's Your New Professor" sono quelli che caratterizzano anche altre produzioni di Prekop, la cui predilezione verso la forma in alcuni casi fa venir meno la sostanza: qua e là vi è un manierismo di fondo che chi ha confidenza col Nostro non potrà fare a meno di riscontrare, non solo da oggi.
Così, a margine di diversi episodi riusciti - il pop trasognato di "Something", l'arpeggiato omaggio in chiave folk di "Chicago People", il viaggio in dormiveglia di "Density" - inciampiamo in meri esercizi stilistici che sanno di già udito ("Two Dedications", "Little Bridges", "A Splendid Hollow", e qui ci fermiamo) e che nulla aggiungono a quanto già detto da questo raffinato esegeta del pop.
Peccati veniali, che tuttavia non possiamo fare a meno di evidenziare e che non possono non incidere sul giudizio finale.