Autori di due dischi fondamentali per le sorti del thrash/black
metal italiano ("Into The Macabre" (1987) e "Fragments Of Insanity" (1989),
i liguri Necrodeath tornano alla carica con un album nuovo di zecca e meritano
di certo la nostra attenzione. Ovviamente, come spesso succede in questi casi,
l’ispirazione non è sempre a livelli da urlo, ma bisogna pur farsene una
ragione. E mentre lo fate, intanto sarà meglio tenere desta l’attenzione su un
particolare non di poco conto: i Nostri hanno ancora molte cartucce da sparare e
non temono in alcun modo confronti.
Ovviamente, non c’è da aspettarsi
rivoluzioni o quant’altro, quanto, soprattutto, una quarantina di minuti scarsi
di sana violenza-passione metallica, a cominciare da quella "Forever Slaves" che
macina chilometri di doppia cassa e riff tumultuosi. Spettacolare, chi può
negarlo?, il gioco incrociato degli strumenti nell’ heavy tinteggiato di
nero-pece di "War Paint": ovvero, la classe non è acqua, c’è poco da stare lì a
discutere. L’intro acustica di "Master Of Morphine" è perfetta nel sondare il
campo per un mid-tempo thrashy e, se i blast-beat di "The Wave"
demonizzano quanto più possibile un suono scintillante e febbrile, "Theoretical
And Artificial" svolge un discorso molto più hard , con il solito, ottimo
lavoro di Peso sulle pelli e la voce di Flegias che sa come attirarci in un
labirinto di ossessioni e timori.
Ma è "Identity Crisis" a consegnarci,
in carta regalo, il primo dei due piccoli gioielli del disco: sinfonismo
black che insegue e pennella un appiccicosissimo refrain finto-horror.
Più scontata la successiva "Beautiful-Brutal World", calo di tensione che, però,
non osa ferirci più di tanto, confinato, com’è, verso la fine, prima dei
cristalli acustici di "Hyperbole" e della lunga apoteosi della title
track . Vetta assoluta del disco (e tra i capolavori del songbook
-Necrodeath), quest’ultima mette in scena un po’ tutte le componenti del loro
sound : ritmiche imperiose, quasi matematiche in quel loro
salire-cavalcare o, anche, danzare robotico, para-industriale; voce spiritata,
malefica, schifata — o, per tagliare la testa al toro, inquieta, dannatamente
inquieta; rifferama "scalato", sfiancante. E un senso di disorientamento
generale, quasi ci trovassimo davvero all’inferno e quel cazzone del Diavolo non
avesse proprio l’aria di voler fare sconti. Una girandola di emozioni
scheggiate, di contorsioni spiritiche-spirituali, di voci che tagliano il
tessuto sonoro e che innalzano panegirici a chissà quale feroce divinità. E, se
con i numeri non ho granché voglia di sbilanciarmi quest’oggi, so di certo che
tornerò a rimettere su questo disco più e più volte, anche solo per gustarmi,
fino all’ultimo secondo, questi nove minuti e poco più di delirio.
11/05/2006