Vert

Some Beans & An Octopus

2006 (Sonig)
songwriter

 

E’ inglese, ma di stanza a Colonia, Adam Butler, in arte Vert, fino al maggio del 2004 un rispettabilissimo produttore di musica elettronica, con all’attivo quattro album. Poi, la svolta, in verità già evidente in quel “Small Pieces Loosely Jointed” (2003) che andava smantellando l’involucro elettronico in nome di un “cantautorato” mutante, aperto alle più svariate contaminazioni e forte di una strumentazione eccentrica o letteralmente personale (gli strumenti fatti “in casa” che rispondono al nome di shakerphone, palmonica e chissà quali altre diavolerie). Dietro tutto questo, un nome su tutti, come un santino da portarsi appresso, per ogni evenienza: Tom Waits, le sue cianfrusaglie sonore, scenografie mutevoli e dinamiche di una “canzone” fascinosissima, alcolica, per bassifondi umani, prima che urbani.

E Vert ne prende atto, operando un gioco post-moderno, iniettando dentro quella carne viva piccole ma penetranti dosi di genio eclettico e vivace, per una musica che osiamo definire “pop”, ma pop per il 21esimo secolo, dove idee e stili pomiciano, in un tripudio di primitivismo e modernismo digitale. Per questo suo personale capolavoro, il Nostro si è circondato di bella gente, tra i quali ricordiamo il sassofonista Tom Chant (già con The Cinematic Orchestra e The Eddie Prévost Trio), il rapper Noah23, il chitarrista Noël Akchoté (già all’attivo, tra gli altri, con Chet Baker e David Grubbs) e Andi Toma (Mouse On Mars).

Ad aprire le danze, un ragtime sgusciante, innervato ad un pizzicare statuario di contrabbasso e puntellato da fiati spernacchianti e coretti inebetiti (“Gretchen Askew”). La voce di Vert è decisa e serpeggiante, logorroica ma calibrata in mezzo al disordine. Le liriche (che lungo tutto il disco passano dal poetico al surreale, dal romantico al divertissement puro) fanno tutt’uno con la musica: corpo unico, blocco inscindibile. E, nel musichall con ritornello corale di “Velocity”, il sentore vivo di un cabaret beota al chiaro di luna. Che l’elettronica sia ancora, nonostante tutto, un cardine fondamentale del suo universo, lo dimostra l’uso che se ne fa per arginare o destabilizzare le strutture di questi piccoli, eccentrici universi sonori. Poi, in apertura di “This One”, beat spastici ne confermano il carattere essenziale, diluendosi e mescolandosi con musica turca per matrimoni e bleeps come staffilate.

Con fiati gigioni, l’hip-hop trova una chiave di volta estremamente moderna e molto suadente in “It Is So”, mentre un fantasma possibile di Marc Almond muove verso l’alto l’acquarello fragile di “October”, per una prospettiva autunnale che riaffiora in “Said The Signal To The Noise” e “Yrs” (e, in quest'ultima, la subdola solarità si confonde con un gusto avventuroso per la mutazione-in-corsa (passaggio mediano di hip-hop/grime spericolato e parossistico nel suo macinare rhymes e pulsazioni; spensieratezze pianistiche per musichall d’altri tempi). Un certo Dogbowl fa capolino, invece, nel tessuto jazz-rumba di “Paper Wraps Stone”, con stelline sintetiche a solcare un cielo di matti matricolati.

Mai un momento di noia, in questi solchi. Sempre all’erta, per gustarsi le invenzioni di Mr. Butler, un ragazzetto di cui farete bene ad appuntarvi immediatamente il nome. Se, quindi, in “Words” domina una matrice ska, in “The Familiar Girl” e “Step Under The Bulbshine” emerge in tutto il suo splendore il nome del nume tutelare di Pomona, qui intento a rimirarsi vivo ma trasfigurato. E, sia nella prima che nella seconda, “Swordfishtrombones” a go-go, ma con surplus di ghirigori elettronici di ascendenza Ravenstine -iana nella seconda, a tracciare un percorso già personale, coscientemente periferico e destinato a grandi cose.

25/10/2006

Tracklist

  1. Gretchen Askew
  2. Velocity
  3. This One
  4. It Is So
  5. The Familiar Girl
  6. October
  7. Yrs
  8. Paper Wraps Stone
  9. Step Under The Bulbshine
  10. Said The Signal To The Noise
  11. Words

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