Dopo quasi venti anni di costante attività, sostanzialmente passati a incendiare buona parte dei palchi del pianeta, i BellRays tornano in studio per un disco che segna un punto di svolta più che netto nel sound della band statunitense. Alcune modifiche all'interno della line-up (ritorno di Bob Vennum alla sei corde dopo anni passati al basso e l'ingresso di Billy Mohler a sostituirlo in quel ruolo) fanno da contorno a “Hard, Sweet And Sticky”.
La rabbia cieca del punk e del garage unita a quella più scura del cantato soul, la formula che ha fatto sobbalzare chiunque li ascoltasse per la prima volta, sembra essere svanita, scomparsa con la stessa velocità di una delle staffilate che i quattro ci regalavano in album come “Grand Fury” o “Let It Blast”. Stanchi della polvere e forse di essere semplicemente considerati come un progetto fuori dagli schemi, interessante ma nulla più (ma l'avrà davvero pensato qualcuno?), con quest'ultima uscita si spostano prepotentemente sul terreno dell'hard-rock più classico, di chiara impronta Ac/Dc, per poi lasciare maggior spazio alla vena soul, con una serie piuttosto corposa (almeno rispetto a quanto ci aspettassimo) di ballad.
Le intenzioni appaiono ben chiare sin dall'opener “The Same Way”, organo, chitarra acustica e la più classica delle struttura di pieni e vuoti ad alternarsi tra strofa e ritornello. “One Big Party” e “Infection” sono il palese tentativo di dare alla rabbia rock'n'roll un tiro quanto più catchy possibile. La prima più veloce e “car oriented”, la seconda più scandita, tendenzialmente blues, entrambe condividono l'appoggio sostanziale sulla voce sempre da brividi di Lisa Kekaula.
Dopo un paio di episodi in cui diventa difficile non avvicinarsi al pulsante skip, arriviamo a “Blue Against The Sky”, ballata r&b/soul in chiave moderna dove, ancora una volta, la voce della Kekaula fa da collante e propulsore del brano e, forse, al miglior episodio del disco, “The Fire Next Time”, altra ballata questa in cui riaffiora una gran vena compositiva, memoria lontana di locali fumosi con spettatori comodamente accomodati a tavolini sempre troppo poco illuminati per poterne distinguere il viso, con una voce che si veste di sensuale tentazione. A inframezzare le due troviamo “Psychotic Hate Man” che sembra presa in prestito da Danko Jones e, almeno, dimostra che la rabbia non è svanita, in realtà, ma pare sia stata più semplicemente messa da parte.
I fantasmi scandinavi di band come Hellacopters e Gluecifer aleggiano pesantemente nei momenti in cui si tenta di affondare l'acceleratore quanto più possibile, ed è il caso di “That's Not The Way It Should Be”, tiro catchy anche questa, ma sicuramente più fresca e affascinante, quasi come fosse una outtake di “Payin' The Dues”. Il tempo per abituarci a questa, relativamente, nuova attitudine dei Californiani è poco, tant'è che è immediata la brusca frenata. In “Wedding Bells” la voce si fa nuovamente filtrata, i suoni sembrano quasi venire da un vecchio vinile ondulato a 33 giri, con annessa coda che ricorda da lontano la psichedelia, un ultimo respiro prima della chiusura affidata a “Pinball City”, a metà ancora una volta tra il revival hard-rock degli ultimi anni e una riproposizione appannata della formula dei vecchi dischi.
Di sicuro un album che spiazza, un disco in cui il suono pare liberarsi con un colpo di mano indifferente della polvere di cui era ricoperto, un tentativo forse di alzare il tiro. “Hard Sweet And Sticky” sembra una scossa di assestamento che segue una serie di devastazioni telluriche, un solletico che a malapena si lascia notare. Il dato di fatto è che i BellRays si fermano a metà dell'opera, si lasciano alle spalle gran parte di ciò cui ci avevano abituato, ma non si ristrutturano con un suono ben delineato, identificabile e personale, affidando interamente alla voce della frontgirl il compito di imporli all'ascolto. Davvero troppo poco per una band che era abituata a investirci con un muro di suono sempre imprevedibile e accattivante.
16/12/2008