Death In June

The Rule Of Thirds

2008 (Ner)
neofolk
5.5

Prima di tutto una curiosità: nei giorni precedenti l’uscita di “The Rule Of Thirds” i curiosi e gli impazienti avrebbero potuto trovare sulla Rete un “advanced promo” dell’ultimo lavoro di Douglas P.; peccato che quelle 13 tracce altro non fossero che una raccolta di Connie Francis, melensa cantante pop degli anni 50-60... Niente vieta di pensare che dietro il simpatico scherzo non ci fosse altro che lui, mister Death In June, pronto a punire così coloro che non volevano aspettare il momento da lui stabilito. D’altronde sono anni che Douglas P. sfrutta bene le potenzialità del web, con tanto di sito ufficiale (anzi, due), Myspace, ITunes e così via. C’è una ragione precisa, comunque, per iniziare a parlare di “The Rule Of Thirds” con l’aneddoto di cui sopra; nonostante la sua dimestichezza con i mezzi di comunicazione attuali, infatti, questo nuovo lavoro, che segue di quasi quattro anni il precedente “Alarm Agents” in comproprietà con Boyd Rice, appare del tutto slegato da contingenze temporali e da una qualsiasi attualità, e segna una nuova fase nel percorso artistico dell’uomo. Quanto poi questa possa essere feconda, è tutto un altro discorso.

Per introdurlo al meglio, si vuole qui ricordare una differenza emersa proprio in questi anni tra Douglas Pearce e David Tibet, l’altro grande protagonista del calderone chiamato neofolk, o con altri distinguo folk apocalittico. Laddove quest’ultimo ha ampliato sensibilmente il suo giro di collaborazioni anche con personaggi apparentemente lontani dal suo humus culturale, mantenendo tuttavia intatta la sua vena lirica e poetica, Douglas P. si è definitivamente ritirato in un eremo solitario, in tutti i sensi. Chiuse tutte le collaborazioni, interrotta l’attività dal vivo, il suo Fort Nada in Australia è diventato un bunker dove seppellirvici, con l’unico contatto con il mondo esterno fornito da una connessione via modem per i suoi affari (il tutto detto in senso lato, ovviamente).
Allo stesso modo, la musica di quest’ultimo “The Rule Of Thirds” (per inciso, il titolo richiama un concetto della fotografia che permette di dare equilibrio estetico alla scena da ritrarre), è stata definitivamente spogliata da ogni altra possibile influenza e aggiunta, riducendosi al solo suono di chitarra acustica, solo a tratti sporcato da interferenze ambientali quali estratti da dialoghi, film o stralci sinfonici rimasticati.

Quello che ascoltiamo è quindi una versione purificata di quel folk europeo che lui ha contribuito forse più di altri a rendere genere autonomo e riconoscibile, ma che in realtà si traduce in una semplice rilettura dei temi musicali e lirici che l’hanno fatto conoscere e apprezzare. Le atmosfere rimandano a “Rose Clouds Of Holocaust” e in certi passaggi agli ultimi due album, solo più scarne e rarefatte. Il problema è che il risultato appare ai primi ascolti sconfortante: questo album suona non tanto vecchio, quanto già sentito senza nulla più che lo innervi; pesa soprattutto l’eccessiva monotonia che serpeggia in tutte le tredici canzoni, dovuta alla chitarra monocorde e al canto, sempre carezzevole ma anch’esso poco propenso alle variazioni armoniche, che non trova adeguato risalto data la veste spoglia che lo accompagna.

C’è qualcosa, allora, che impedisce di considerare del tutto bocciato “The Rule Of Thirds”, e guardare con amarezza al declino artistico di questo artista? Forse la consapevolezza che nella loro povertà queste canzoni suonano comunque sincere e appassionate; la voce non ha perso il suo fascino conturbante e le melodie hanno la grazia consueta di altre composizioni.
Si affaccia l’ipotesi che i temi eterni in cui si dibatte Douglas P. non abbiano necessità di altri sfondi, e semmai egli abbia voluto rendere più classico e “incontaminato” il suono che l’ha reso figura di spicco nel panorama gotico e post-industriale.
Ora come ora però questa “purezza” suona impoverita e debole, lasciando il terribile dubbio che dietro cotanta poetica, dietro armonie e miti che pescano nel cuore dell’Europa e che risplendono qui una volta di più, non vi siano altro che sterilità e incapacità di comunicare.

Death In June stavolta sembra suonare per sé, per ribadire a lui stesso innanzitutto un primato e dichiarare di non aver bisogno d’altro, e lo dice infatti tra le righe di “Truly Be”. E se davvero così fosse, sarebbe difficile parlare con cognizione di causa anche delle singole canzoni, che pure mostrano lati ancora interessanti: a parte le prime tre-quattro, che scorrono via senza particolari tratti distintivi, in “The Perfume Of Traitors” la voce assume cadenze velenosamente dolci, le stesse che fecero grandi canzoni come “Runes And Men”.
“Last Europa Kiss” è semplicemente classica nel tema e nelle atmosfere, qui più accese, “My Rhine Atrocity” campiona curiosamente uno stralcio da un film italiano anni Cinquanta, mentre la conclusiva “Let Go”, la più strutturata a livello di produzione, avvolge in un abbraccio caldo e struggente, da ultimo addio. Ma sembra proprio questo il sentimento che si prova al termine dell’ascolto, un addio all’artista e a una proposta che forse ha raggiunto qui il suo ultimo miglio.

In definitiva, “The Rule Of Thirds” difficilmente attirerà nuovi adepti del culto Death In June, e anzi è possibile che molti se ne distacchino, scoraggiati da un lavoro che suona ancora sincero ma non offre molte soluzioni d’ascolto.
Il voto finale, dunque? Lo si consideri in equilibrio tra quella che può essere la valenza di questo disco, e la speranza che dopo essersi spogliati di tutto, si abbia la volontà di percorrere una strada diversa per esprimere la propria visione artistica.

31/03/2008

Tracklist

  1. The Glass Coffin
  2. Forever Loves Decay
  3. Jesus, Junk and the Jurisdiction
  4. Idolatry
  5. Good Mourning Sun
  6. The Perfume of Traitors
  7. My Last Europa Kiss
  8. The Rule Of Thirds
  9. Truly Be
  10. Their Deception
  11. My Rhine Atrocity
  12. Takeyya
  13. Let Go