Ralfe Band

Attic Thieves

2008 (Tailtres)
dream-folk

Esistono in Inghilterra gruppi musicali che non capitano mai tra le pagine scivolose dell’Nme neanche per sbaglio e la Ralfe Band è senz’ombra di dubbio uno di questi. Il pubblico più accorto e paziente, capace di scavi metodici tra le pieghe del sottobosco sonoro più remoto, che nessuno ha la voglia e il coraggio di frequentare (come invece si dovrebbe), il pubblico con l’orecchio più lungo, si era già imbattuto nel nome di questa band, il cui esordio, “Swords”, vide la luce all’inizio dell’anno passato, suscitando un entusiasmo sotterraneo e un piccolo culto in crescita esponenziale, testimoniato anche dall’apprezzamento di una parte consistente della critica. Ora questo progetto, facente capo al duo costituito da Oly Ralfe e Andrew Mitchell (entrambi abilissimi polistrumentisti), si arricchisce di un nuovo importante capitolo.

Le coordinate stilistico-espressive della band rimangono le stesse, ma la grana degli arrangiamenti si fa più lavorata, l’intarsio compositivo tende a levigarsi, il suono acquisisce una maggiore compattezza di impatto, la scrittura risulta meno mossa e zigzagante, “più a fuoco”. Il che potrebbe anche non soddisfare pienamente a un primo approccio, ma bisogna saper assecondare il gioco e lasciarsi condurre per mano dal tessuto sonoro, perdersi nella ricchezza germogliante del suo ininterrotto sfaccettarsi e goderlo fino in fondo, senza aprire gli occhi fino a quando la musica stessa non sussurri all’orecchio di farlo, per mostrare dove ha portato chi si è “fidato” di lei.
Le atmosfere evocate sono molto varie: per lo più si parte da una base di polveroso folk britannico (nel senso di Fairport Convention e di Pentangle, per arrivare all’attualità di Tunng, Adem, Espers e compagnia), fatto rimbalzare tra riverberi acustici e arguti scioglilingua dal piglio giocoso e fantasticante (l’iniziale “Open Eye” e la splendida “Stumble”, così come gli ottoni domenicali da orchestrina di paese di “Helmutsine” ).

Poggiate più o meno stabilmente le punte dei piedi su queste basi, la band può poi iniziare a rincorrersi e a giocare a nascondino lungo i sentieri intricati e piacevolmente labirintici di una fantasia compositiva irriducibilmente “tra le nuvole”. Il repertorio delle divagazioni è vasto: si va dal tè nel deserto (messicano) di “Mirror Face”, un lenta marcia a capo chino sotto la furia di un sole deformante, in odore di vorticosi miraggi (alcuni noteranno la continuità di motivi già presenti nell’opera di gruppi come Devotchka o Beirut, anche grazie alle macchie di fisarmonica), passando per gli umori parigini, sottilmente prevertiani, di sontuosi intermezzi strumentali come “Big Head” o “Attics” (ma anche “Platform Boy” e la bellissima “St. Mark's Door”), che faranno la gioia di chi ancora cerca di conquistare una donna con un mazzo di fiori appena colti e poesie rimate scritte su fogli di carta profumata.
Il quarto punto cardinale di questa bussola ubriaca per esploratori e collezionisti di non luoghi, dopo Inghilterra, Francia e frontiera messicana, è senz’altro, come già nel disco passato, l’Est, inteso soprattutto come Balcani, vento zingaresco e candidamente tzigano che si sparge a pioggia un po’ su tutte le composizioni, permeandole di un alone ludico e favoleggiante.

Quello che può essere considerato il più “caposseliano” dei gruppi inglesi del momento confeziona così un fagotto di storie vere e inventate e di vibranti canzonieri da mettersi sulle spalle per vagabondaggi senza fine, attraverso una geografia scompigliata di terre ed epoche caoticamente sovrapposte. La repubblica inesistente dei sognatori ha trovato chi veglierà sui sonni tranquilli dei suoi cittadini per i prossimi anni.

17/11/2008

Tracklist

1.Open Eye
2. Stumble
3. Big Head
4. Mirror Face
5. Platform Boy
6. Attics
7. Helmutsine
8. St. Mark's Door
9. Two Lorenzos
10. Lost Like Gods
11. Queen of Romania

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