Ambrose Field & John Potter

Being Dufay

2009 (ECM)
sacred space music, modern creative, modern classical

Un’emozione indelebile, purissima, di quelle giungono improvvise, senza far rumore. Arriva da lontano, lontanissimo. Dispersa nel tempo, ogni tanto qualcuno la raccoglie, prendendosene cura. E aspetta che qualcun altro arrivi a condividerne l’intensità. 

“Being Dufay” nasce da un contrapposizione apparentemente insanabile: quella tra la preziosa vocalità fiamminga di Guillaume Dufay (esponente della "scuola di Borgogna" e massimo compositore del XV secolo) e le enormi possibilità creative dell’elettronica.
Desideroso di esplorarne i limiti, Ambrose Field (specializzato nella creazione di musica concreta, per il tramite della ricodificazione di sorgenti naturali) decide di immergere canzoni e mottetti del maestro fiammingo dentro sublimi landscape artificiali, realizzando un’opera talmente densa di significato e pregna di spiritualità da risultare quasi insostenibile.

Il compito di fondere quelle parole antiche con la flessibilità e la magia della voce è affidato a John Potter. Usando la voce come se fosse un’oscura sorgente di incantesimi, conscio del fatto che, il giorno in cui tutti gli strumenti saranno “inutili”, lo strumento più istintivo continuerà a darci la possibilità di entrare in contatto con il mondo circostante, il tenore inglese ci conduce per mano dentro le ebbrezze di un misticismo inebriante, tra i labirinti di polifonie maestose, iridescenti, sovrannaturali.
“Being Dufay” è un lavoro che appartiene a una dimensione bi-polare: da un lato, la devozione degli uomini; dall’altro, l’eterno raccogliersi del Mistero. Solo in questo dualismo, un’opera che tenta di abolire i confini spazio-temporali, onde raggiungere la luce purissima della visione artistica, può rintracciare linfa vitale. Asceti del suono, Field e Potter scrivono, dunque, una delle pagine musicali più meravigliose ed emozionanti degli ultimi anni.

Una voce, i suoi brividi raggelanti: l’invocazione di “Ma Belle Dame Souveraine” viene raccolta dal baratro e proiettata dentro un albeggiare di baluginii elettronici. Potreste immaginarvi dispersi in qualche solitaria cattedrale medioevale, con le vetrate battute da una pioggia insistente, mentre, in ginocchio, raccogliete le forze e iniziate a pregare sottovoce: “Ma belle dame souveraine, faites cesser ma grief dolour” (“O mia bella signora e sovrana, fate cessare il mio greve dolore”).
In “Je Me Complains”, gli equilibrismi vocali vengono sostenuti dal magnetismo aeriforme dei sintetizzatori. In un compenetrarsi sempre più fitto, le due sorgenti finiscono per sovrapporsi, scivolando dentro nebbie cosmiche, perturbati echi siderali e montanti dissonanze spettrali. Come una messa celebrata tra gli anfratti più nascosti ed inaccessibili dell’universo.

Il colossale capolavoro del brano eponimo è una discesa mozzafiato verso lo zampillo originario del turbamento. Quadrifonia dell’anima sorpresa lungo il cammino inesausto che dal dolore conduce verso la redenzione per il tramite di una creatura intangibile, diafana (la “donna-angelo” degli stilnovisti). Le liriche (“Quel fronte signorille/ In paradiso/ Scorge l'anima mia/ Mentre che in suo balia/ Stretto me tiene, mirando il suo bel viso/ I occhi trapassa tutti/ Dei altri e'l viso/ Con sì dolce armonia/ Che i cor nostri s'en via/ Pian pian infuso inano in paradiso”, da un adattamento del “rondeau” in francese “Craindre vous vueil”) si librano in un incanto verticale, ultraterreno, con il coro degli angeli mandato in loop, mimesi di una voragine spirituale che rimanda la sua totalità di contraddizioni.
Filtrato digitalmente, questo corpo-sonoro si tramuta in un fascio polimorfo e inestricabile di angoscia ed estasi, una sinfonia irregolare di sensazioni sfuggenti, di nitide astenie dell’animo. Poi, la voce torna a sporgersi dalla balaustra dell’immenso, specchiandosi dentro pozzanghere di cielo, tra silenzi e trasparenze di cristallo, ma ormai deformata, de-localizzata, trascinata dentro un vortice di celestiali, brucianti rapimenti.

Al confine tra la polifonia della "scuola di Borgogna" e le pagine più struggenti e metafisiche della Hearts Of Space (la “sacred space music” di Constance Demby su tutti), questa musica (capace, tra le altre cose, di scavare a fondo nell’essenza della musica di Dufay, quasi rintracciandone, per la prima volta, il significato più autentico, la sua reale portata trans-temporale) spira come una brezza arcana e ha la potenza devastante di un epos sacro.
I suoi landscape incorporei, impalpabili (come l'interludio minaccioso di "Presque Quelque Chose"),  sono nient’altro che la trasfigurazione di visioni dello spirito più che della mente. Probabilmente, lo stesso riflesso dello spirito che tenta di darsi consistenza, di “riconoscersi” (“Je Vous Pri”), mantenendo, così, intatto quel matrimonio tra Cielo e Terra che solo può destare in noi il palpito della creazione (“Sanctus”, che, in qualche modo, mette gli Stars Of The Lid dinanzi all’eredità dei Popol Vuh di “Hosianna Mantra”), fino al compimento dell’identificazione definitiva: nell’immobilità annichilente del Vuoto, la solitudine del pellegrino e l’ombra di Dio (“La dolce vista”).

Memorabile.

16/09/2009

Tracklist

1. Ma Belle Dame Souveraine
2. Je Me Complains
3. Being Dufay
4. Je Vous Pri
5. Presque Quelque Chose
6. Sanctus
7. La dolce vista

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