Un esordio discografico accompagnato dall'hype e chiacchieratissimo ancora prima della sua uscita rischia molto spesso di essere liquidato od osannato per i motivi sbagliati.
Quando poi si tratta di un album di purissimo indie-rock che giunge da una città icona dell'hype e del glamour musicale come San Francisco e, per sovrapprezzo, è addirittura fortemente appoggiato da Pitchfork, c'è davvero il pericolo che l'aspetto musicale possa passare in secondo piano.
Occorre, in questi casi, fermarsi e riflettere. Ascoltare e ascoltare, far sedimentare le sensazioni e le percezioni.
Preceduto da un paio di singoli dall'impatto immediato ("Lust For Life" e "Hellhole Ratrace") e da un notevole battage mediatico, il debutto dei Girls, intitolato, con buona pace degli utenti di Google, semplicemente "Album", ricade certamente nella suddetta categoria. Se a tutto questo si aggiunge che le biografie dei due componenti della band, Christopher Owens e Chet "Jr" White, sono infarcite di abusi di droga, strane sette religiose, perdizione, prostituzione e redenzione, allora l'insidia che la frittata del pregiudizio sia fatta è davvero elevatissimo.
Sarebbe davvero un peccato, però, soffermarsi solo su questi aspetti estetici e superficiali: benché, infatti, i video e le immagini che riempiono il booklet del cd siano esteticamente impeccabili e contribuiscano ad attirare l'attenzione, è la musica a contare davvero e a non deludere le aspettative.
La musica dei Girls è un incredibile groviglio di citazioni che spaziano dalla West Coast alla Gran Bretagna, dagli anni Cinquanta ai Novanta, senza mai che un'ispirazione o un punto di riferimento determinato riescano a emergere costantemente facendo sì che (a volte addirittura all'interno dello stesso brano) i riferimenti e le ispirazioni siano molteplici.
Senza dubbio evidenti sono i richiami ai fifties e al rock'n'roll ("Lust For Life", "Big Bad Mean Motherfucker"), ma nessuno dei brani di "Album" avrebbe potuto vedere la luce senza l'esperienza shoegaze di band quali Spiritualized e Ride ("Morning Light") e il britpop degli Suede ("Headache") e, ancor di più, dei Pulp, cui rimandano le atmosfere, i suoni e, soprattutto, quell'attitudine da "coming down" di molti brani (i fantastici sette minuti di "Hellhole Ratrace" su tutti, ma anche "God Damned" o "Darling").
Registrato "da nessuna parte", così come il duo tiene a precisare nelle note di copertina, "Album" risulta musicalmente vicino anche agli anni Sessanta per la sua attitudine a suonare quasi lo-fi, senza per questo esserlo affatto, avvicinandosi, sotto questo aspetto, a tante produzioni dell'epoca: oltre le chitarre, dietro il ritornello, fioriscono una serie di sottili dettagli di estrema eleganza che, piuttosto che soffocare i vari brani, ne accrescono l'efficacia e le capacità additive.
A questo "minestrone" musicale si affianca e sovrappone la camaleontica voce di Owens che riesce a cambiare tono e registro più volte anche all'interno della stessa canzone e richiama alla mente i migliori glam-singer di ogni epoca, da Bolan a Bowie, da Brett Anderson a Jarvis Cocker e non si vergogna neanche di citare mostri sacri come Costello, Morrissey, Buddy Holly o Roy Orbison. La maggior parte dei brani è interpretata con gioia, quasi allegramente, ma in fondo alle corde vocali di Christopher Owens si può sempre notare quel retrogusto amaro, quel vago sapore di abbandono e sconfitta, quel mal di testa esistenziale che assale chi tenta di stordirsi e dimenticare tra party, droghe e alcol.
In quasi tre quarti d'ora di musica i Girls riescono a coprire un ampio spettro musicale, regalando, nei loro inni per disadattati e sfortunati in amore, qualche perla e tante buone intuizioni e lasciando intendere che, se il music business o qualche eccesso di troppo non dovessero travolgerli, il loro futuro musicale potrebbe essere degno di grande attenzione al di là di qualsiasi moda o "sponsor" ingombrante.
30/12/2009