In pochi avrebbero scommesso su un ritorno a buoni livelli di Mos Def dopo il mezzo passo falso di “True Magic” (2006). Anche fra noi ammiratori della prima ora cominciava a serpeggiare un po’ di scetticismo. A trentasei anni suonati e con una parallela carriera d’attore cinematografico ad assorbirlo a tempo pieno, oltre che regalargli non poche soddisfazioni (ricordiamo i ruoli da protagonista in “Solo due ore”, al fianco di Bruce Willis, “Be Kind Rewind – Gli Acchiappafilm”di Michel Gondry, fino al recentissimo “Cadillac Records”, in cui interpreta sua maestà Chuck Berry, niente meno), la fase declinante della sua atipica parabola di rapper intellettuale e cosmopolita sembrava già cominciata. Invece l’artista originario della Native Tongue Posse, accompagnato da un manipolo di produttori all’altezza della situazione (Madlib, The Neptunes, oltre a un pezzo dell’immancabile J Dilla che, parafrasando Fabri Fibra, “fa più canzoni lui da morto che io da vivo” ) rispolvera le sue notevoli qualità d’interprete, autore e musicista completo, in un album che, se non è propriamente “estatico” come promette il titolo, è senz’altro una ripresa piuttosto riuscita dello stile che lo rese grande ai tempi di “Black On Both Sides” e “The New Danger”.
Ricco di rimandi sia musicali che testuali alla “nuova frontiera” islamica dell’America di fine decennio (un argomento che a lui, musulmano convertito a meno di vent’anni, sta ovviamente a cuore come testimonia l’incipit affidato a un discorso di Malcom X che invita a elevare la disputa razziale a guerra contro la povertà fisica e morale della nazione), “The Estatic” è un disco dall’impianto ritmico sobrio e minimale, che si appoggia all’hip-hop tradizionale costa est per declinarlo in un modus - ora elettronico, ora strumentale - elegante, progressivo e sfaccettato di rock, funk, affluenze latine, mediorientali, pop (i numeri cantati abbondano) e neo-soul.
Se l’intro energica e chitarristica di “Supermagic” ci riporta alle atmosfere tese e promiscue di “The New Danger”, “Twilite Speedball” ha un incedere caustico e street da manuale (fiati slabbrati, archi cupi, rintocchi taglienti), “Auditorium”, su una vena black orchestrale anni 70, è un anthem fulminante in cui è incastonata la strofa gioiello di Slick Rick, indimenticato e “occhio-bendato” eroe della old-old-school, “Wahid”, una contrastata danza dei veli, “Quiet Dog Bite Hard” fa calare sul preludio condottiero di Fela Kuti una gragnola tribale e tambureggiante, sorretta dal basso e dalle percussioni e propulsa dal flow giocoliere.
Piazzato grosso modo a metà, il singolone “Life In Marvelous Time” è, invece, da classificare fra gli episodi meno riusciti: rap da arena fin troppo pompato, dal suono “rocky” e mainstream. Poi, in sequenza, le esotiche “The Embassy”, basso formicolante e melodia salmodiante, e “No Hay Nada Mas”, rilascio afro-cubano, aprono adeguatamente la strada all’impatto strumentale (funk-rock screziato di psichedelia) di “Pretty Danger”. E il piatto è ancora ricco e saporito con l’inciso reggae di “Workers Comp.” e “Revelations”, sospesa fra danza di guerra da “mille e una notte” e tentazioni alt-rap, anche se a fare di nuovo la differenza è la trilogia finale: “Roses”, preghiera nu-soul dal sapore antico e poetico condivisa con la splendida voce di George Anne Muldrow, e “History”, taglio oldschool classico e torrenziale che lo ricongiunge all’antico gemello Talib Kweli (ai tempi dell’album a denominazione Black Star), dove i due rivendicano e ripercorrono, appunto, la loro storia comune, e “Casa Bey”, p-funk tumultuoso (fiati e synth sul binario del basso e della batteria) suonato, rappato e cantato in forma smagliante.
23/07/2009