The Builders And The Butchers

Salvation Is A Deep Dark Well

2009 (Gigantic)
alt-country, roots, americana

Per concedersi l’opportunità di un’autentica pace spirituale bisogna aver sperimentato l’abisso, almeno una volta nella vita. Va bene, espresso in questi termini suona come il più logoro dei luoghi comuni sul tema della redenzione. La vera notizia oggi, l’aspetto realmente incredibile di questo vecchio adagio, è che esista ancora qualcuno che ha voglia di servirsene per esercitare la propria creatività e suscitare emozioni. Il parallelo beatitudine/dannazione ha sempre affascinato gli statunitensi e tante pagine della loro cultura popolare sono state scritte facendo ricorso a questo comodo espediente. La salvezza è un pozzo scuro e profondo. Lo sostengono con smisurata convinzione gli emergenti The Builders And The Butchers, un gruppo a tal punto appassionato di dicotomie da adottarne una come ragione sociale. La predilezione per i contrasti e per i chiaroscuri è molto più di una semplice cifra stilistica nella vicenda di questa giovane formazione indipendente, diventa il riflesso di una personale parabola ascendente alla ricerca del proprio posto nel mondo. 

La storia, emblematica e ancora ferma alle battute iniziali, racconta di una fuga dall’Alaska verso la città più affine al proprio tumultuoso sentire (la solita benedetta Portland, Oregon) sulla medesima rotta percorsa quasi in contemporanea dai Portugal The Man. Per cinque improbabili aspiranti alla fama, il momento del disgelo. Ieri l’enciclopedia di Ryan Sollee, cantante e chitarrista, non contemplava altre voci al di là di “punk” e “rock”, oggi il giovanotto pel di carota scopre nel solaio virtuale della nuova residenza bauli e bauli di musica delle radici – l’Americana con la A maiuscola – e gli si spalanca davanti un baratro di pura estasi. Per un paio di anni i ragazzi scrivono canzoni e le suonano come disperati, fino a consumare gli strumenti portati dal nord come unico bagaglio. Pubblicano un disco eponimo, si fanno apprezzare nella zona grazie ad una serie di performance a dir poco trascinanti (a supporto di Dax Riggs, Helio Sequence e Port O’Brien) ma sembrano destinati a restare nell’ombra, come tanti altri. Il primo tassello del loro mosaico della fortuna ha il faccione di Chris Funk, chitarrista dei Decemberists che a tempo perso si improvvisa talent scout e produttore. L’offerta di aiuto è troppo ghiotta per rinunciarvi e porta con sé la disponibilità di ambienti, mezzi e collaboratori di prima scelta, una manna che nessuno dei Builders avrebbe saputo immaginare anche solo un paio di mesi prima. 

Qui si apre di fatto il capitolo di “Salvation Is A Deep Dark Well”, entusiasmante opera seconda e possibile tagliando vincente per l’ennesima irresistibile compagine Made in Portland. Incontrandoli per la prima volta sulla propria strada, l’orecchio e l’occhio disattenti potrebbero scambiare i cinque barbuti statunitensi per la milionesima combriccola di folkster in cerca d’autore, di quelle spuntate come funghetti nel sottobosco indie nordamericano (anche canadese dunque) in una notte lunga un lustro. L’insopprimibile urgenza di questi improvvisati migratori underground basterebbe però da sola a sgombrare il campo da qualsivoglia equivoco, soprattutto quelle impressioni superficiali dettate dalla strumentazione e dalla mise adottati in fretta e furia dai musicisti in fuga dal gelo della loro adolescenza. Caratterizzato da una coerenza sonora e di scrittura indiscutibile, impregnato di una retorica battista attualizzata che ne corrobora l’impatto, “Salvation” assume i contorni di un anomalo concept da più parti definito (con demenziale inadeguatezza) “gotico”, un viaggio in parallelo nel cuore del manicheismo tanto caro all’America popolare (qui l’American Gothic si rivela sorprendentemente pertinente) e nell’identità musicale di quello stesso universo, tra un passato che torna oggi d’attualità e una raccolta di cartoline con sopra impressa la mitologia tascabile della frontiera. 

L’esplorazione parte dall’oscurità di “Golden and Green”, con quella che ha tutto il sapore della premessa. L’invito a chiudere gli occhi favorisce l’immedesimazione con il protagonista dell’intera vicenda, anche se in un’intervista Sollee ha dichiarato di aver tratto ispirazione per questo brano da uno dei più straordinari idiot savant della storia dell’arte, Henry Darger (che ha già influenzato una pletora di artisti, da Natalie Merchant a Sufjan Stevens, dalle Vivian Girls agli Animal Collective, dai Majical Cloudz ai Comet Gain passando per i Wussy). Impetuosa ed eclatante, la canzone d’apertura definisce le linee emotive e sonore dell’album, con la voce tremula di Ryan che irrompe e sale in cattedra affiancata dai calibri dei due batteristi (una delle particolarità dei Builders), dai violini e da chitarre d’ogni sorta. Il pronto rinforzo offerto dalla ruspante “Devil Town”, immediata ma attenta al dettaglio con la sua rustica fisionomia bandistica (resa fruttuosa da un songwriting all’altezza), consolida la sensazione di trovarsi al cospetto di una macchina ideata per impressionare e in cui ogni elemento svolge alla perfezione il proprio compito. Dietro la console Chris Funk mostra di saper infondere quel senso di magico equilibrio che a questi ragazzi evidentemente mancava, rifinendo e arrotondando i suoni rispetto alle asprezze folk di quel primo lavoro, ma senza svilirne l’incisività, anzi, assecondando le potenzialità di una band di pura sostanza, già speciale di suo. Un sodalizio quanto mai indovinato, dunque, alla riscoperta della più incendiaria musica roots del secolo passato.

Introdotta dal banjo e dall’armonica, “Short Way Home” è un’esplosione di colori e umori ferrosi – con atmosfere che tendono al sanguigno e al blueseggiante – in cui troneggia la voce nasale e istrionica di Sollee. Un ridotto immaginario a base di ali dorate, angeli, avelli tenebrosi, sangue, fiumi ed alberi in fiamme, è snocciolato con la giusta convinzione in testi carichi di suggestioni millenaristiche. Il diavolo si ritaglia un ruolo da protagonista (non poteva essere altrimenti) come metà oscura dell’animo umano, mentre il fuoco divampa in ogni dove con l’esplodere delle emozioni. Il diversivo spagnoleggiante intavolato dall’iperbolica “Barcelona” coincide con l’episodio in cui i debiti verso il Decemberists’ style affiorano in tutta la loro evidenza (ricordate per casoO Valencia?), forse con qualche Meloysmo di troppo nel cantato. La vena genuinamente enfatica e il calore autentico della band preservano comunque il pezzo dall’artificio dell’imitazione dozzinale e della teatralità Picaresca trasformandolo in un irresistibile omaggio, quasi una personale reinterpretazione del classicismo di un gruppo ormai arrivato. 

Forti di una partenza tanto veemente e risoluta, i Builders si concedono il lusso di piazzare subito qualche colpo ad effetto, giusto per il piacere di stupire l’ascoltatore anche senza andare a stravolgere il proprio gioco smaccatamente espressionista. Con l’affilata “Hands Like Roots” simulano il disimpegno nel riempitivo per prodursi in realtà in uno dei più riusciti esperimenti dell’album: una radicale dinamizzazione dei meccanismi e degli stilemi tipici del country, temprati dalla compattezza granitica di un sound a più dimensioni e dal ricorso a un’andatura volutamente irregolare. In “Down in the Hole” e “Raise Up Your Weary Hands” si punta a una veste più delicata limitando i contributi dell’artiglieria pesante (sempre cruciali comunque in chiave energizzante, specie sui refrain), liberando l’eccellente mandolino di Harvey Tumbleson – vera griffe nel suono dei cinque – da compiti di semplice manovalanza pirica e spiazzando un po’ tutti con la ricodifica in chiave western/chicana del più azzeccato dei ritornelli (“When you make fire with the devil / Don’t be surprised if you get burned / You were among the lucky ones / And he only took your hands”). Prima della fine c’è ancora tempo per dare fuoco alle polveri. “Vampire Lake” e “In The Branches” vanno direttamente in cima alla lista dei titoli più frenetici e roboanti del disco, con il solito trambusto della sezione ritmica organizzato con disciplinato furore e una bella scorta di violini irrequieti (nella prima) a bilanciare il costrutto con la lingua pura del cuore. 

Incastonata tra le due, “The Wind Has Come” opta nuovamente per una strategia di mimetismo Dicembrista, esponendosi senza timore al rischio della stilizzazione e della maniera. Il passo sofferto e un impianto sonoro votato alla massima sobrietà la rendono un passaggio quasi alieno, straniante, un’isola d’estenuata malinconia in mezzo allo scorrere irruento delle altre canzoni. Ma l’energia che qui è magistralmente trattenuta basta a confermare per intero le credenziali del gruppo, dimostrandone l’autorevole disinvoltura anche alle prese con registri non proprio canonici per la band di stanza a Portland. “The World Is A Top” funziona egregiamente come conclusione della parabola, l’uscita dal pozzo a riveder le stelle. La vetta è raggiunta con un’esternazione elettroacustica impeccabile in quanto a rilascio emotivo, con l’impiego di calzanti coloriture gospel in bassa fedeltà ad ampliare lo spettro espressivo di “Salvation Is A Deep Dark Well” (rispolverando una delle folgoranti formule del bellissimo esordio). Ancora una volta nell’ordine delle idee, dal vuoto del silenzio, la forza dei Builders risulta enormemente amplificata.

Una scommessa vinta a tutti i livelli, quindi, combriccola ed album da promuovere subito a pieni voti. Il consiglio è di provare l’assaggio, ma una premessa è d’obbligo: a scherzare col fuoco (e col diavolo) capita di ritrovarsi scottati. Se siete fortunati vi “prenderà la mano”. 

23/05/2016

Tracklist

  1. Golden And Green
  2. Devil Town
  3. Short Way Home
  4. Barcelona
  5. Hands Like Roots
  6. Down In This Hole
  7. Raise Up Your Weary Hands
  8. Vampire Lake
  9. The Wind Has Come
  10. In The Branches
  11. The World Is A Top

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