Ogni tanto anche John Dwyer si prende una pausa.
Non dalla forsennata sovraesposizione delle sue uscite discografiche, quello mai. Per uno come lui, che da sempre registra a ritmo indiavolato, non è certo un problema ostentare un’incontinenza creativa che quasi lo avvicina al Nick Saloman degli anni d’oro, giusto per non ridursi a menzionare il solito Robert Pollard. Ogni tanto, si diceva, il ras della scena garage di San Francisco sembra prendersi una licenza dalle classiche sonorità della sua band – e dalla band stessa – ma senza rinunciare al marchio Thee Oh Sees in bella mostra sui dorsi e sugli adesivi dei vinili mandati in stampa. Reminescenze dagli albori solitari sotto la sigla OCS, evidentemente, o forse solo il bisogno di svagarsi senza dover rendere conto a chicchessia per tutto il ciarpame prodotto malmenando chitarre, rullanti, tastiere, clarini e marchingegni elettronici da quattro soldi.
“Dog Poison” rappresenta la prima occasione utile, da diverso tempo, per tornare a dare asilo a questa folle sarabanda solista e potersi dedicare alle sonorità più crude e spregiudicate del proprio corredo di artista. Non sarà l’unica né tantomeno l’ultima ma, in considerazione della maggior accessibilità che aveva reso irresistibili i suoi più diretti predecessori, si fa fatica a non considerarla la più spiazzante diversione della pur breve carriera del Nostro. In fondo si dimostra anche franca e onesta come meglio non si potrebbe sperare: è sufficiente l’abbrivio, affidato alla farsesca “The River Rushes”, per registrare il ritorno allo squinternato e ciondolante psych-folk in salsa acustica degli esordi, animato qui dalle ormai consuete esternazioni weird (flauti rancidi, urletti e falsetti), in leggero anticipo sul farneticante florilegio di “Castlemania”, pure esclusiva farina del solo capobanda. Il sound è volutamente sgangherato, fangoso, malsano, ma una Brigid Dawson poco più che comparsa non rinuncia a qualche decorazione aulica delle sue, pur vedendo ridotta la propria estenuata delicatezza a un esile ghirigoro, germoglio chiamato a farsi strada in un denso strato di umido, sudicio terriccio sonoro.
Sbiellato, appesantito, regolarmente sfibrato da deformazioni grottesche, il giovane mattatore californiano si produce in una nuova galleria di antitormentoni puerili, canzoncine giocose corrotte con dolo dalla solita razione di bizzarre alterazioni e da un lo-fi tornato su buoni livelli di terrorismo sonico dopo quel paio di passaggi, per così dire, più potabili. C’è sempre un ché di inquietante dietro la sua idea di divertimento, o di estate, come ben dimostrano gli spensierati motivetti di “Sugar Boat” e “Dead Energy”, godibili anche nella loro singhiozzante deriva nonsense. Ecco servita così una collezione di anomale ballate che emanano l’olezzo dei fiori ormai guasti, di colori alterati dal tempo, di un sistematico sabotaggio espressivo. Non ci sono calcoli tuttavia, e questo basta a preservare il disco dai rischi della maniera e di pose troppo furbe. Tutto è puntualmente ricondotto a una condizione di scherzo a briglia sciolta, e in quest’ottica anche brutture e sporcizia conquistano una loro (faticosa, occorre dire) dignità.
Con i fiati e le distorsioni che irrompono spesso come spiritelli, in uno sfrigolante sottobosco di assurde invenzioni, è alquanto divertente il fatto di non sapere mai bene dove sia Brigid a cantare, e dove piuttosto ci si trovi in presenza di una caricatura muliebre abbozzata da John. La naïveté del gruppo, pur in formazione ridotta, guarda insomma verso nuovi e più strampalati traguardi, e l’assenza di filtri consente a Dwyer di andare esattamente dove vuole: una landa di fantasie deteriorate da percorrere a piacimento, senza mappe o solidi appigli tramite i quali orientarsi. Le sinistre evocazioni sono presto dissimulate dal taglio ludico conferito dagli interpreti, quel tono da aberrante balocco meccanico assemblato alla meglio con materiali incoerenti e rigorosamente di recupero. E’ questo a fare di “Dog Poison” un pastiche di rimandi stilistici frammentari, un’incongruente antologia di brani-Frankenstein, sgraziati forse oltre il lecito ma a modo loro genuini.
L’impressione, a conti fatti, è che l’album vada ascritto però tra pagine minori della discografia Thee Oh Sees, ben più spassoso per chi l’ha scritto o prodotto che non per l’incauto ascoltatore che se lo debba sorbire. Un capitolo a parte, insomma. La sosta consapevole in un inquietante lunapark. Qualcosa di diverso, a ben vedere, da un semplice passaggio interlocutorio. Di simili valvole di sfogo, in fondo, un tipo vulcanico come Dwyer non smetterà mai di aver bisogno.
In seguito, comunque, anche la ricreazione gli riuscirà senz'altro meglio.
22/03/2014