Broken Records

Non ci vuole molto a capire, nell'ascolto di "Let Me Come Home", che i Broken Records ci sono cascati di nuovo. Il gruppo scozzese, schiacciato anche dalla sua stessa ponderosa lineup - sette elementi che comprendono la presenza fissa di un violoncello e di un pianoforte, provate a digerirli - si è lanciato nuovamente in un melodramma sguaiato, roboante, grezzo.
Un'emotività, come già nel comunque fortunato "Until The Earth Begins To Part" (2009), lasciata a briglia sciolta, buttata sul piatto sformata e scotta, che fa a pugni con le dichiarazioni del leader, Jamie Sutherland, che dice di essersi ispirato a Springsteen e Cave (forse in "Dia Dos Inamorados!"?) per questo disco, nonchè ai primi Rem.

In realtà, pare impietoso già il raffronto con i contemporanei Arcade Fire: il cantato ben sopra le righe di Sutherland ricorda più che altro una versione involuta e growleggiante di Flowers. Siamo in effetti dalle parti di quelle emozioni grandiose ma insipide di certi gruppi indie-rock che ammiccano al mainstream (niente di male in questo, per inciso) ma che, magari, puntano più che altro a una comparsata nell'epopea del puritanesimo twilightiano ("I Used To Dream").
La maggior parte dei pezzi ospita infatti ritmiche guerresche, spedizioni nella terra nemica del cuore dell'amata, oscillazioni quiet-loud ("Ailene", ad esempio) come se piovesse, ampi movimenti di violino, facili ricorsi a sovrapposizioni corali di strumenti ("You Know You're Not Dead").

Tutto sommato, però, "Let Me Come Home" ha dalla sua pezzi che certo sapranno trascinare e, magari, agganciare i Nostri alla scia del clamoroso successo dei Mumford And Sons. Buon per loro se questo avverrà, eppure non si può non augurarsi che il movimento scozzese di questi "condottieri del cuore" e aizzatori di folle - ricordiamo anche i Frightened Rabbit - non stabilisca uno standard, un modello per chi li seguirà.

15/11/2010