L'Ankh, altrimenti detta chiave della vita e croce ansata, è un antico simbolo sacro egizio. Esso simboleggia il concetto di vita in tutte le sue sfumature mistiche, religiose ma terrene e ontologiche: rappresentazione stilizzata del grembo materno, nodo in cui s'intrecciano positività e negatività nel cammino esistenziale, l'unione dell'organo genitale femminile (l'ansa) e di quello maschile (il braccio verticale della croce), di Iside e Osiride, il tragitto del sole che anima la natura e l'uomo con essa e il delta del Nilo che la feconda e rende florida la sua prole. Una dualità complementare e universale che si adatta alla perfezione alla vita e alla musica di Erykah Badu. In particolare alla sua ultima opera "New Amerykah" di cui questa "Part Two", ribattezzata "Return Of The Ankh", è per l'appunto l'ideale continuazione. L'altra metà della nuova (Am)Erykah, a sentire lei. Il lato destro del suo cervello, quello più istintivo, caotico, emozionale. Consacrato dunque ai sentimenti, all'amore, al privato dell'esistenza, laddove in "Part One" a prevalere era un approccio concreto e analitico alle cose. Alla musica, specialmente, ma anche alla politica e all'attualità dell'America di fine decennio, in guerra anche e soprattutto contro se stessa (non a caso il sottotitolo dell'album era "4th World War").
Essendo stato progettato, composto e in parte inciso nello stesso periodo, anche se da session diverse, "New Amerykah Part Two" ha molto in comune con il suo predecessore a cominciare dallo stesso team di firme prestigiose che affiancano la Badu alla scrittura e alla produzione: James Poyser, l'immortale J Dilla, Questlove (dei Roots), Madlib, 9th Wonder e Georgia Anne Muldrow, fra gli altri. I due capitoli, inoltre, condividono la stessa struttura da concept musicale che, contaminandosi attraverso i meandri, gli stili e le epoche della musica black, si sviluppa in un circonfuso flusso sonoro raccordando le singole canzoni attraverso una serie di dissolvenze incrociate. I brani, insomma, pur conservando tratti, forme e sonorità ben definite, tendono a confluire in un insieme ad alto potenziale cinematico, onirico, ambientale. Uno scenario che ricorre spesso nell'opera della Badu. La naturale evoluzione di quel non-genere afroamericano che nei Settanta chiamavano Quiet Storm dall'omonima canzone di Smokey Robinson.
La differenza più significativa rispetto all'album gemello consiste invece in un uso più esteso e diffuso delle parti strumentali rispetto al sampling e all'elettronica, una scelta in controtendenza rispetto alle ultime due prove, un punto di contatto con la vecchia Erykah, quella degli esordi. Anche se poi è sempre lei, la sua voce, la sua interpretazione, a fare la differenza. E c'è l'impressione che canzoni così scentrate, proluse, ellittiche, scadrebbero nell'esercizio di stile se cantate, pardon incarnate, da qualcun altro/a. Come la morbida rarefatta elegia di "20 Feet Fall" che apre l'opera, o il soul più ritmato e sincopato, ma ugualmente liquido e onirico, di "Window Seat", pezzo forte che la Badu cosparge di vocalizzi sensuali, impudici, insistiti e di avvolgenti strie elettroniche. Passando per estremi opposti come l'alato p-funk dalla chimica progressiva e poliritmica di "Agitation", da una parte, e la quadratura metronomica e hip-hop di "Turn Me Away (Get The Munny)", pop-soul spumoso e sbarazzino ai limiti della disco, "Fall In Love (Your Funeral) e "Love", saturo groove elettronico e finiture quasi glitch, dall'altra.
Congedo in perfetto stile Badu con i suoni preziosi e certosini di "Incense", arpa celtica su boom-klat (di Madlib) e vocalizzi eterei, e il "black to the future" di "Out My Mind, Just In Time": una suite di dieci minuti e rotti, un viaggio musico-temporale in tre movimenti sullo stile di "Green Eyes" o "Orange Moon" (da "Mama's Gun"). Qui la Badu dapprima rinnova il suo amore per Nina Simone e Billie Holiday, quindi, con un salto di quasi mezzo secolo, ci riporta in pieno, brumoso nu-soul, per naufragare infine nel gorgo di un jazz-lounge spaziale e psichedelico.
Affascinante, sofisticato, inafferrabile, incorreggibile questo è l'art-soul di Erykah Badu. Una musica paragonabile ormai solo a se stessa. E, ancora una volta, all'altezza di questo paragone.
12/04/2010