Barn Owl

L'immaginario desertico di Evan Caminiti e Jon Porras prosegue la sua ascesa verso vette di splendore celestiale, progressivamente erodendo lo spazio che separa i sentieri polverosi dalle galassie più lontane.

Nel solco del precedente "Ancestral Star", "Pale Star", dunque, tesse le fila della continuità, mentre "Turiya" origlia alla porta che li separa dall'Oriente. Nel flusso ipnotico e ripetitivo del suono, oltre all'influenza del minimalismo americano (come ci tengono a sottolineare, lì in casa Thrill Jockey) si riconosce ancora una volta una netta filiazione Earth, che va ben oltre il semplice rinnovamento dell'apparato scenografico. Un'americana dilatata oltremisura, qui lavorata ancora più in profondità, resa oltremodo più definita dalla produzione di Phil Manley. Trascendenza sembra essere la parola d'ordine. E ovviamente, il raga come simbolo di una sospensione infinita, di un'austerità sfuggente ed estatica ("Devotion I"), che si disintegra dentro le masse distorte e cupe di "The Darkest Night Since 1683", in parte debilitata da una coda languida e desolata.

Tutta la seconda parte, comunque, sembra mettere da parte le tensioni "verticali" per perdersi in un infinito gioco di meditazioni attraversate da un senso irrimediabile di mistero ("Midnight Tide", "Light Echoes"), da un'inquietudine millenaria che continua a rigenerare se stessa, accordo dopo accordo, senza aggiungere granché a quanto già disposto nella prima parte ("Devotion II", che si disperde dopo una furibonda tempesta di distorsioni). La sostanza, insomma, è quella di un lavoro in perfetto stile Barn Owl, buono per tenere a bada gli appassionati del genere.
A dare man forte al duo di San Francisco ci sono Michael Elrod (The Alps, Date Palms) alla tanpura e al gong, Steve Dye dei Portraits al clarinetto e il batterista Jacob Felix Heule.

23/08/2011