Ex insegnante d'inglese e autrice di poesie in spoken word, nell'arco di un decennio Jill Scott s'è rivelata una delle protagoniste più interessanti del nu-soul d'autore. Scoperta a Philadelphia all'inizio degli anni 2000 nel giro dei Soulquarians (The Roots, Erykah Badu, James Poyser), ha inciso tre album di ottima fattura (specialmente i primi due) e di notevole successo commerciale (specialmente il primo), accomunati dal sottotitolo "Words And Sounds". Negli ultimi tre anni, come succede a molte colleghe e rapper, ha avviato anche una discreta carriera da attrice televisiva e cinematografica. Dopo quattro anni di pausa discografica, il nuovo album "The Light Of The Sun" marca una certa discontinuità rispetto al passato, a cominciare dal titolo. La Scott, inoltre, ha scelto di lasciare, non senza polemiche e strascichi legali, l'etichetta indipendente che l'aveva lanciata (la Hidden Beach) e per cui aveva rappresentato - si passi il termine - la gallina dalle uova d'oro, accasandosi alla Warner.
Un cambiamento che si riflette sia nelle atmosfere, più rilassate e contemplative, che nel sound iperprodotto e lussuosamente modellato da uno stuolo di musicisti e collaboratori (con il sempre più influente JR Hutson, fautore del nuovo corso e vero e proprio punto di riferimento a partire dal disco precedente). "The Light Of The Sun" è un album accuratamente costruito attorno alle sempre notevoli capacità vocali della Scott, interprete di duttilità ed estensione fuori dal comune, e concepito allo scopo di rilanciarne le quotazioni di fronte a un pubblico se possibile ancora più ampio. La musica è un elegante concentrato dell'afflato orchestrale del "vecchio" philly sound con cui la Scott è cresciuta e di sincretiche contaminazioni nu-soul. La scrittura, tuttavia, lascia minore spazio alle fantasie artsy, alle improvvisazioni a tema che riaffiorano, qua e là, solo nell'intermezzo afro-freak di "Quick" e nel vaudeville per beat-box "All Cried Out" (con il contributo di uno dei massimi interpreti di questa tecnica: Doug E. Fresh). Ridotta è anche la componente più hip-hop-oriented, che coglie nel segno, con sfumature funk e reggae, nel singolo "Shame". L'altro singolo di punta sdogana la disco-soul nostalgica (e molto philly anch'essa, nell'uso degli archi) di "So In Love", in duetto con un'altra vecchia gloria del nu-soul, Anthony Hamilton.
Ma il vero nocciolo dell'album è costituito dal melodismo raffinato, dal soul confidenziale venato di jazz e lounge di brani come "Making You Wait", "Blessed", "Until Then (I Imagine)" e "Some Other Time". Uno show di classe, a tratti un po' compiaciuto ed auto-indulgente, che tocca l'apice nella classicheggiante "Hear My Call", quasi un numero da recital broadwayano. A conti fatti il miglior colpo d'ala la Scott, Hutson e i suoi musicisti (con il chitarrista Randy Bowland e il bassista Adam Blackstone in grande evidenza) lo regalano nei nove minuti di "Le Boom Vent Suite", moderno quiet storm in tre parti, sorretto dagli staccati della chitarra, dal piano sciolto e squillante quasi rag e dalle invenzioni vocali, in un brano che ricorda, per molti versi, lo stile della Badu.
30/06/2011