La scandinava Li Lykke Timotej Zachrisson, in arte Lykke Li, perviene al suo secondo "Wounded Rhymes" alzando il volume del groove e della voce, e riducendo gli arrangiamenti a un più cauto intreccio tra arsenali di percussioni (beat digitali, tric-trac, timpani, tamburi, sonagli, etc.) e tastiere elettroniche dal sentore sornione.
Sebbene il concept di base non sia così originale (la fine di una storia d'amore fino alla rinascita), Lykke Li propone un concetto innovativo di party music. I refrain sono talmente appiccicosi da divenire motti irresistibili. Il canto impersona tanto ragazzette ye-ye quanto "mama" africane. Lo stile cita qualsiasi gruppo vocale femminile degli anni 60 (Shirelles, Supremes, Ronettes, Crystals, etc). Il risultato è davvero esorbitante. Rispetto alla timidezza del primo "Youth Novels", in "Wounded Rhymes" Lykke Li fluttua in altre galassie, come se le composizioni digitali da cameretta le fossero servite per prendere coraggio e iniziare a esplorare l'universo interiore, a cominciare dalla sua personale superhit, "I Follow Rivers", il più arguto bubblegum del 2011.
Canzoni dalla struttura infallibilmente elementare come "Love Out Of Lust" e, in misura maggiore, "Sadness Is A Blessing", la perla melodica, attingono tanto dalle produzioni lacrimogene di Phil Spector quanto dal techno-pop dei Saint Etienne, librandosi in un magico ritornello-inno.
Lykke Li è ipernevrotica nel calypso accelerato di "Get Some", che esplode in un ritornello "zulu" riverberato sinistramente dai tamburi. Di contro, "I Know Places" è il punto più rado (cantilena su accordi metronomici di acustica, sottilissima nebbia elettronica e silenti controcanti), che sfuma e riemerge come oasi psichedelica in tempo slow-core. "Unrequited Love" è un lento anni Cinquanta nel quale il coro sovrasta tutto, diventando in buona sostanza una minuscola messa da requiem in forma pop. Lo spiritual mantrico di "Silent My Song" è il "Pet Sounds" dei Beach Boys, mutato in cerimonia sovrannaturale hare-krishna.
I due pezzi garage-rock condotti dall'organetto, "Youth Knows No Pain" e "Rich Kids Blues" rispettivamente avviano e riavviano l'opera. Se "Rich Kids Blues" sposa il big-beat di Fatboy Slim alla pregnanza vocale della Badu (erigendo un retronuevo anche più potente di quello dei primi Garbage), "Youth Knows No Pain" è un concertino di coriste incazzate della Motown, su ticchettio di nacchere.
Non contenta dei groove infettanti disseminati in tutto il disco, Lykke Li appronta in "Jerome" un impasto creativo di "Da Da Da" dei Trio, shuffle tribale e sotterranea vibrazione elettronica alla Giorgio Moroder, nella quale - per aumentare il contrasto - il canto è ancor più allungato, corale, e persino funebre.
Secondo una sorta d'intima opera-rock in forma monologica (spesso magniloquente, con coerenza), il disco trova un inedito equilibrio tra etica e estetica, e tra dimensioni collimanti, un incontro tra l'universo comunicativo e estroverso della moda e l'universo muto e saggio della spiritualità. Se Lady Gaga rappresenta la vulgata, Lykke Li è Wagner.
22/03/2011