Shannon And The Clams

Sleep Talk

2011 (1-2-3-4 Go!)
garage-revival

I mostri che abbiamo dentro, cantava Gaber qualche tempo fa. Soggetto in fondo assai corteggiato dalle penne dei cantautori impegnati, ma non disdegnato anche da quegli interpreti che con leggerezza hanno provato a esorcizzare in musica timori e brutture e segreti per lo più inconfessabili, accatastandoli in cumuli rozzamente abbozzati per poi affidarli all’abbraccio di una vampa spietata. Nessuna condiscendenza, nessuna pietà per loro. I mostri che siamo dentro non trovano posto nelle canzoni che amiamo, se non nell’apoteosi farisea di un ritornello espiatorio, nell’appendicite melodica che raschia via il marcio della diversità per restituirci il lindore smagliante di un conformismo sereno e inconsapevole. Di tanto in tanto non manca di farsi viva una voce che metta in dubbio l’autenticità del grande romanzo, tetro e sublime nella sua impassibile vocazione al congelamento. Acquartierata come un corpo estraneo nella più insignificante delle note a piè di pagina, nascosta dietro all’ultimo degli asterischi o coperta dalla soffice bambagia di una minuscola parentesi.

 

Quest’anno si è trattato senza dubbio del mirabile contralto della burrosa Shannon Shaw, primo premio ai campionati nazionali per la cantante emergente più improbabile della scena alternativa tutta. Affiancata per l’intera durata del torneo da un paio di spalle comiche come non le ricordavamo dai pirotecnici anni di Yattaman, la biondona di Oakland ha sbaragliato una concorrenza non proprio irresistibile regalando a una ridotta platea di reietti il più credibile elogio del diverso da un po’ di tempo a questa parte. Per riuscire nell’impresa ha dovuto indossare i panni grotteschi dell’inguaribile passatista, rimestando senza pace nel gorgogliante calderone della tradizione pop americana per smascherarne trucchi, ipocrisie e morale fasulla. In cerca del refrain perfetto con cui infiorettare il trionfo dei perdenti di lungo corso, ha dato prova di un romanticismo schietto, mimetico nella forma e graffiante nella sostanza, amplificatore ideale del desiderio di rivalsa di una schiera di artisti da sempre relegati all’ombra del successo. Oltremodo sincera e potente la scelta di campo, guidata dal primitivismo ingenuo e dall’insopprimibile e corrosiva attitudine freak del trio, scandita dal pulsare selvaggio ed ipnotico di un mantra (“One of us! One of us!”) rubato a uno dei capolavori maledetti della storia del cinema, ora e più che mai rivendicazione di un’appartenenza e di un’identità plasmata per forza di cose nel contrasto.

 

Il terzo album di Shannon e delle Vongole è però molto più di un semplice omaggio a Tod Browning e al suo indimenticabile plotone di scherzi della natura. E’ un sontuoso accumulo di citazioni più o meno colte, cortocircuiti kitsch e rimandi sgargianti al polveroso retrobottega culturale americano degli Oldies but Goodies, ben assortiti tra loro in nome dell’irriverente sottotesto di fondo. Non importa apparire brutti, sporchi o cattivi quando questo è il solo volto che si ha da mostrare, almeno a chi non ne merita di migliori. Il politically correct è un riguardo umiliante oltreché inutile in un persistente clima di buonismo iscariota, e tutti i compromessi possono prepararsi al confino eccetto quello che lega dolcezza e ruvidezza in una liaison irresistibile: non deve essere affatto facile suonare grezzi e raffinati al contempo, annullando gli scompensi dell’operazione recupero con la grinta commovente di chi si ostina a vivere tra le pagine di uno sbiadito album dei ricordi.

 

Con “Baby Don’t Do It” e “You Will Always Bring Me Flowers” si parte all’insegna di un’integerrima riscoperta del doo-wop e dei girl group, ma è solo la prima di una lunga serie di scaltre illusioni espressive. Il ricamo dei golfini delle pin up è presto corrotto dalle bizzose orlature rockabilly dell’elettrica di Cody Blanchard, mentre la tavola viene imbandita con ogni sorta di stravizio soul, R&B o proto-twee, con bizzarrie degne della svendita di un rigattiere (la chitarrina calypso e le congas di “Oh Louie”) mentre il beat impartisce dall’alto la sua benedizione come un Dio buono e misericordioso. Quello di “Sleep Talk” è un perfido garage-revival per cultori: prepotente, infettivo, commovente nella sua purezza e nella giustezza del suo modernariato, irrimediabilmente fuori moda come solo King Khan e Mark Sultan sembrano oggi in grado di essere.

Anche la malinconia è accessorio vintage di gran classe nella vetrina di questi abili falsari statunitensi: non si spiegano altrimenti le creste surf-pop rivisitate alla radice con la determinazione degli amatori intransigenti e senza blande smanie di contaminazione con il presente. L’unico elemento realmente originale è quell’indole scarmigliata, incontaminata, ludica e sempre un tantino inquietante che fa apparire Shannon & The Clams la versione psicotica e indignata delle Shangri-Las, soddisfacente nuova linfa per una collezione di stili altrimenti indirizzati all’oblio della pura accademia. Anche nella loro variante più ispida e ribelle, la procace frontwoman ed i suoi accoliti riescono a non tradire l’artificio dietro al minimo dettaglio, si rivelano bravi economi in fatto di fronzoli arrivando a svelare nell’emblematica “Toxic Revenge” la propria ideale certificazione genealogica tra Ramones e Ronettes (il nome Ramonettes avrebbe forse semplificato troppo le cose), prima dei fumi alcolici di un delirio no-wave degno delle Bride of No-No.

 

Come per numerosi altri apostoli del genere, la cura del particolare non lascia al caso nemmeno un riff, né un watt. In “Sleep Talk” questa precisione ha un esito davvero stupefacente nella resa sonora analogica, Pasqua solenne del riverbero, una chicca che i critici dalla memoria sempre troppo corta potrebbero archiviare per somma dabbenaggine come bassa fedeltà e arrivederci, facendo al disco il torto insopportabile di un apparentamento forzato alla scena neo-surf pidocchiosa del circuito californiano. Mezza chitarra in più la merita da sola l’interpretazione grandiosa della Shannon cantante, da brividi per come sa portare un alito di vita vera tra gli impeccabili fondali di cartapesta del filologicamente corretto. Una galleria di virtuosismi non leziosi destinati tuttavia al solo catalogo delle buone intenzioni senza quel taglio straniante, quella weirdness canaglia, le sinistre atmosfere di cui sono impregnati come spugne i dodici episodi dell’album. Lo stesso magico sgomento del ballo di fine anno sulle note di “Love Among The Stars”, con la trappola a sorpresa predisposta questa volta proprio dalla novella reginetta Carrie nella sua versione extralarge, impaziente di lordarsi di sangue nell’attimo stesso della sua incoronazione.

 

Favole che trascolorano in incubi, armonie svolazzanti che si fanno spettrali, cuori velenosi racchiusi nel guscio di una manciata di vecchie caramelle, così innocenti nel loro incarto di foglie d’oro e d’argento. In canzoni come “The Woodsman” risplende tutta la delizia dell’uomo nero. Rivivono gli anni cinquanta del sogno incontaminato, riletti nel candore guasto delle teen tragedy ballads dei sessanta e del death rock dei settanta, quattro minuti semplicemente strepitosi. E più di tutto i colori acidi di quello stesso sogno, ormai falsati dal tempo, nella pellicola condannata ad un’eternità sempre più rancida nella pancia di un’anziana Kodak. La voce di Shannon racconta come nessun’altra l’umore languido, malato, torbido e feroce di chi si è rassegnato alle seduzioni della propria mostruosità: sopra le righe ma in maniera autentica, dignitosa, tragica e non macchiettistica, straziata come Liz Taylor dallo sconfinato dolore della bellezza che si logora.

24/11/2015

Tracklist

  1. Baby Don’t Do It
  2. You Will Always Bring Me Flowers
  3. The Cult Song
  4. Done With You
  5. Tired Of Being Bad
  6. Oh Louie
  7. King Of The Sea
  8. Old Man Winter
  9. Toxic Revenge
  10. The Woodsman
  11. Half Rat
  12. Sleep Talk






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