Resta il fatto, comunque, che i brani sono puro Zola Jesus-style, sostanzialmente legati a un'idea di dark-wave atmosferica e dalla venature dreamy, con la solita inquietudine che si annida nel profondo. In tal senso non è un caso che "Avalanche" (con gli archi suonati da Sean McCann e Ryan York) e il singolo "Vessel" aprano idealmente il disco, con le loro falcate solenni e un cupo umore fatalista. Un modo come un altro per mantenere la continuità con il passato, anche se il fuoco che si agitava oltre la "sporcizia" dei primi lavori sembra ormai irrimediabilmente destinato a spegnersi. Si può discutere quanto si vuole sulla qualità del suono, sul valore (aggiunto?) della produzione o sulla presunta volontà della Danilova di puntare direttamente al mainstream, tanto, alla fine, a mancarle è proprio il terreno sotto i piedi...
Esauritosi dunque l'effetto sorpresa (relativo, in ogni caso…), ascolto dopo ascolto va consolidandosi l'idea di un lavoro monocorde e poco ispirato che, in ultima istanza, rimugina sulle soluzioni del passato per reiterarle in una veste semplicemente più accettabile. Attraverso il techno-pop panoramico di "Hikikomori", i battiti electro di "Shivers", "Ixode" o di "In Your Nature" (che si agitano ora dentro un pulviscolo lontano di voci angeliche, ora oltre umbratili mareggiate di archi), i rintocchi pianistici e le sospensioni umorali di "Lick The Palm Of The Burning Handshake", la laguna intimista di "Skin" e una "Collapse" dai toni liturgici, si arriva alla fine anche con una certa stanchezza.
Non proprio un buon motivo per andare di repeat...
(27/09/2011)