Beth Jeans Houghton & The Hooves Of Destiny

Yours Truly, Cellophane Nose

2012 (Mute)
art-folk-pop, songwriter

Esiste un posto lontano, nel quale la fantasia non conosce limiti, dove l'inventiva e l'ispirazione sono pane e companatico dei suoi abitanti, alla costante ricerca di uno stimolo che ne scateni il debordante ingegno. A quanto pare, la ventiduenne Beth Jeans Houghton, affiancata da tre veri purosangue, gli indomiti Hooves Of Destiny, ha fatto più di una capatina in questo piccolo Paese della Cuccagna, annotando con cura tutti i dettagli di tale avventura.
Piuttosto che serbarlo al riparo da occhi (e orecchie) indiscreti, la nostra ha preferito, intrepida, condividere il resoconto di una simile esperienza con tutti quanti, suddividendone il racconto nei dieci brani che compongono "Yours Truly, Cellophane Nose", prima opera veramente importante per la cantautrice e polistrumentista britannica, che segue la pubblicazione di due brevi Ep negli anni scorsi.

Funambolico e vivissimo, l'esordio sulla lunga distanza della Houghton è (si scusi la banalità) un'opera destinata a far parlare di sé, un caleidoscopio attraverso il quale osservare, ogni volta, singoli frammenti di un talento incontenibile, difficilmente tenuto a bada. Nella mezz'ora e poco più di durata del lavoro, la biondissima inglese, devota al suo naso cellofanato, svecchia, alla stregua  dei Leisure Society nell'annata conclusasi, decenni di tradizione folk albionica, all'insegna della più sfrenata libertà d'intenti.
L'attualizzazione di tale, ricchissimo linguaggio non passa dai drammi barocchi delle Unthanks, né tanto meno dalle suggestioni pastorali della Memory Band. I pezzi si vestono di arrangiamenti cangianti e densissimi, in cui confluiscono tensioni glam-rock, ricche partiture da camera e finanche lievi spunti psichedelici, che avvolgono, senza mai schiacciare, le rigogliose aperture melodiche, derivanti da una scrittura fervida, pulsante, costantemente sopra le righe.

Più che nel sontuoso e inappuntabile spettro strumentale, i retaggi folk sottesi al lavoro sono da individuare nello scheletro portante dei brani, che mostrano ben più di un collegamento alla grande tradizione inglese. Ma appunto, si tratta di semplici rievocazioni, perché a ben vedere, la sensibilità con cui la Houghton ne rilegge gli elementi ha ben poco a che spartire con qualsiasi progetto revivalista. Si potrebbe poi tirare in ballo un gran numero di nomi (dal brillante humour di un Neil Hannon all'intricato lirismo di una Shara Worden), ma non farebbero altro che suggerire il contorno di un'opera che, con qualche azzardo, si può definire unica nel suo genere.
Facendo a meno di tutto un sostrato elettronico, con cui avrebbe avuto la strada spianata a contaminazioni imprevedibili, la cantautrice, lontana da ogni cliché compositivo, dispensa l'originalità di cui è dotata alla ricerca di forme-canzone oblique, e ciononostante a presa rapidissima, in un perfetto equilibrio tra ricerca e giocosità pop.

Si stenta a crederci che in una canzone esemplare come "Lilliput", pura delizia auditiva, non vi sia un vero e proprio ritornello a esaltare un soprano così delicato da sembrare ultraterreno, con giusto le sostenute sferzate di archi a sopperire alla "mancanza". Parimenti, ci si stupisce per la modernità del vorticoso passo di valzer in "Carousel", al frenetico ritmo del quale l'artista registra una delle sue interpretazioni più riuscite.
Non che nei rari momenti di maggiore spoliazione le esecuzioni si facciano meno toccanti: lo sfrontato camaleontismo si mantiene intatto in una preziosa ballata da manuale come "The Barely Skinny Bone Tree", dove ai soffici richiami corali si sovrappone l'incantevole nitidezza di una voce che sa anche essere incredibilmente soul, tenendosi a debita distanza dall'isterismo canoro di una Florence Welch.

Inutile tentare di individuare un trait d'union; la quantità di variabili che entra in gioco, anche all'interno di una singola canzone, fuga ogni dubbio in questo senso. Tanto meno i testi, evanescenti fotografie di universi paralleli, saprebbero unificare le tracce a favore di una comunanza di obiettivi. Si saltabecca così dagli incubi geometrici di "Dodecahedron", amplificati dal pizzicare frenetico della chitarra, alla suggestiva elegia al chiaro di luna a nome "Nightswimmer", che delicatamente si dondola al sognante richiamo del clavicembalo, piuttosto che alla sferzante invettiva power-pop presente come ghost-track in coda al disco.

Eppure, ad ogni ascolto di più, si ha la piena convinzione che tanta esuberanza non sia dettata semplicemente da una presuntuosa voglia di strafare, o di mostrare le indubitabili doti di una songwriter conscia del proprio talento. I passaggi perfetti tra brano e brano, le continue trovate compositive, la limpidezza delle stravaganti melodie non fanno altro che puntare l'accento su quanto, in un simile lavoro, sia "creatività" la vera parola d'ordine, a dimostrazione che nel vastissimo macrocosmo della canzone d'autore, non è stata ancora detta l'ultima parola.
A soli 22 anni, Beth ha scritto un capitolo eccezionale del grande canzoniere britannico, forse non tra quelli più letti, ma di quelli che, con la dovuta attenzione, sapranno accattivarsi le grazie di molti.

23/02/2012

Tracklist

  1. Sweet Tooth Bird
  2. Humble Digs
  3. Dodecahedron
  4. Atlas
  5. Nightswimmer
  6. The Barely Skinny Bone Tree
  7. Liliputt
  8. Veins
  9. Franklin Benedict
  10. Carousel

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