Death By Unga Bunga

The Kids Are Up to No Good

2012 (Jansen Plateproduksjon)
power-pop

Conoscevamo la Norvegia per la sua rinomata fama in ambito black e death metal, per il rock sempreverde dei Motorpsycho, il folk-pop d’alta classifica dei King of Convenience o quello carbonaro di Jens Carelius, l’elettronica scura degli Ulver e quella funky dei Royksopp, nonché per tutta quella schiera di cantautrici aliene che puntualmente ingrossa le sue fila ma non smette di sorprendere, da Hanne Hukkelberg a Susanna Wallumrød, da Jenny Hval a Susanne Sundfør e via andando.
Ignoravamo però del tutto che nel paese dei fiordi esistesse un pugno di mosche bianche estremamente motivate nell’orientare le proprie velleità artistiche nel campo del puro citazionismo rock’n’roll.

“The Kids Are Up to No Good” irrompe come un vero e proprio fulmine a ciel sereno colmando così la nostra lacuna, offerto da una formazione di ragazzi poco più che ventenni ma alquanto abili nel proporre un garage revival scritto e suonato a regola d’arte. I pochi che hanno parlato di loro, foto promozionali alla mano, hanno tirato in ballo con non troppa originalità il look dei primi Beatles, ma a noi sembra che il frontman Sebastian Ulstad Olsen faccia vanto piuttosto di un caschetto dorato (e di un physique du rôle) degno di Brian Jones o, ancor più, del compianto batterista dei Byrds, Michael Clarke.
Difficile dire se sia un caso, ma la propensione per lo schietto power-pop primigenio che i Death By Unga Bunga ostentano senza snobismi sembra riportare in prima battuta proprio alla band di Roger McGuinn e compagni.

La ragione sociale questi cinque pischelli di Moss, cittadina sul Mare del Nord non distante da Oslo, l’hanno rubata ad una raccolta dei Mummies, forse il gruppo chiave del garage-punk californiano degli anni ’90, assieme all’indole chiassosa che li contraddistingue. Colore ed energia sono le prerogative sostanziali nella loro musica, oltre alla perfezione nei meccanismi easy listening, alla fusione armonica di acustico ed elettrico, a un suono vintage per nulla posticcio e ad una spensieratezza senza quartiere e, in fondo, senza tempo. Tra riff potenti, svisate d’organo e melodie tagliate con l’accetta, questo loro secondo album (a due anni dall’esordio, “Juvenile Jungle”) allestisce in poco più di mezzora un’agile sfilata di potenziali hit d’altri tempi.
Quelli di “Out of My Mynde” e “I Wanna Go Wild” sono solo i primi di una lunga serie di ritornelli micidiali che guardano ai sixties con ammirazione e baldanza, esternando poi questo entusiasmo in una collezione di irresistibili numeri retro-pop, prossimi in maniera impressionante al grado zero della “canzonetta”. Ancora meno sovrastrutture intellettuali che nel brillante carrozzone Gentleman Jesse & His Man, e una distanza non incolmabile dalla purezza quasi commovente dei The Barbaras, tanto per citare due dei nomi più gettonati nel 2012 in territori musicali analoghi. La più che incoraggiante perizia strumentale e vocale completa un elenco di ottime referenze.

E’ un album che proprio non inventa nulla questo, anche nella sintesi e nella commistione dei generi. Però funziona. Procede per luoghi comuni senza vergogna, ma ogni cliché è esibito nella piena aderenza ai rispettivi modelli, predisposto con una cura del dettaglio da cultori autentici e un opportunismo semplicemente scintillante. Bravissimi nell’alternare episodi più movimentati (in maggioranza) ad altri meno euforici, i Death By Unga Bunga ottengono il massimo dalla grande varietà di soluzioni e sonorità nelle loro corde, a fronte di un risultato che per il fruitore non cambia: una resa incondizionata al clima di disimpegno festoso che anima il disco. Dal romanticismo da bravi ragazzi à la Hollies (“Jenny”) alle parentesi guascone, questi giovani scandinavi rivelano un temperamento tra il ludico e il trasformista non indifferente, riservandosi (con stile) la disinvoltura nell’alzare la voce o infiammare le chitarre al momento giusto, un po’ come quel Roky Erickson da loro venerato senza riserve.

Per il resto l’ascoltatore potrà sempre concedersi la gratificazione del vecchio gioco dei rimandi al passato: dall’omaggio scoperto ai Violent Femmes della canzone omonima all’affinità fin troppo sospetta nei confronti dei Romantics in “Feel Alright”, passando per i Who nel filtro ultrasoffice dei Dodgy (“Be Like You”), qui i richiami di rito sono una vera e propria manna. Forse è troppo facile riconoscere nel gioiellino “Mary Jane” i leggendari Zombies e insieme l’espansività jangle-pop dei Rain Parade. O negli otto minuti conclusivi di “Hallucination Generation” un beat ulcerato degno dei Cramps e di nessun’altro.
Di certo chiunque non riconosca nel Farfisa della title track o nei fiati di “Shakes All Over” lo svacco adorabile di Pete Zaremba, sappia che è squalificato in partenza. Già, Zaremba: e se fossero proprio i nuovi Fleshtones questi ragazzini norvegesi?

27/01/2013

Tracklist

  1. Out Of My Mynde
  2. I Wanna Go Wild
  3. Jenny
  4. Violent Femmes
  5. The Kids Are Up to No Good
  6. Feel Alright
  7. Tomorrow Today
  8. Be Like You
  9. Love Itch
  10. Mary Jane
  11. Shakes All Over
  12. Tell Me No Lies
  13. Hallucination Generation (Take Me Home)


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