Hanne Hukkelberg

Featherbrain

2012 (Propeller)
avantgarde songwriting

Un giorno dovrà pur essere chiarito, com'è che ogni cantautrice che si discosti un minimo dal binomio voce-chitarra (oppure, il che è più raro, voce-pianoforte) e decida di osare con forme-canzone più destrutturate e arrangiamenti maggiormente diversificati rispetto alla media, debba per forza essere un'emula di Kate Bush o un'aspirante Björk, a seconda dei casi. St. Vincent, Bat For Lashes, Siobhan Donaghy, Alison Goldfrapp e molte altre, chi più chi meno, hanno subito un simile "trattamento", quando a conti fatti, tra una e l'altra di somiglianza non è che ve ne sia poi molta. Certo, si tratta di due nomi di indubbio peso e dai meriti inconfutabili, bisogna però vedere quanto le loro "figlie" siano mere imitazioni e poco altro. Prendiamo Hanne Hukkelberg, ad esempio: tre album e un Ep alle spalle, tutti alquanto differenti uno dall'altro, e lì tutti quanti, fissi a snocciolare sempre i soliti nomi per tentare di esemplificare un percorso in musica che presentava, ben percepibili, peculiarità sue proprie.

Sarà anche il caso che, arrivati al quarto album di un curriculum decennale ormai diventato alquanto denso, si riconoscano i meriti di un'artista a suo modo davvero sottovalutata e di un approccio compositivo che ha pochissimi rivali attualmente. Capace di rilanciare, in seguito all'uscita del suo delizioso debutto "Little Things", in grandissimo stile la scena alternativa norvegese (e non credo che ci sarebbe stato tanto interesse per le varie Susanne Sundfør, Jenny Hval, Silje Nes, se non fosse dipeso da questo disco), la biondissima musicista non se ne è rimasta seduta sugli allori, ma passo passo ha mostrato di essere ben più di un simpatico carneade atto a stuzzicare la curiosità di pochi, esibendo ad ogni uscita spicchi di un'ispirazione più unica che rara. Adesso, "Featherbrain", o meglio, come abbeverarsi direttamente alla sorgente dopo aver solcato sentieri sempre più tortuosi e impervi, saggiando la purezza senza eguali dell'acqua che da lì zampilla.

Il cammino di Hanne potrebbe essere descritto proprio in questo modo, con i suoi precedenti lavori a delinearsi quasi come degli schizzi preparativi (di ottima fattura, ma pur sempre dei preparativi) in attesa della folgorazione necessaria a rendere di un abbozzo un dipinto fatto e finito. Al suo nuovo lavoro, l'artista centra pienamente il bersaglio e propone un saggio di decostruzione musicale che fa sembrare il jazz-avant-pop di "Little Things" un campionario di jingle pubblicitari. Conficcando le sue radici profondamente nel clima di avanguardia rock settantiano che sta ritornando piano piano in auge, il nuovo corso della norvegese non cede a tentazioni classicamente cantautorali (tant'è che l'unico brano che vi si potrebbe avvicinare, "Noah", presenta una melodia a malapena abbozzata, puntando soprattutto sulle interessanti acrobazie vocali della Nostra) ma preferisce indagare con ancor maggiore incisività le sottili linee di demarcazione che separano cacofonia da consonanza, rumorismo spinto da leggerezza pop, convenzione e sperimentazione.

Come un destriero recalcitrante, l'artista si rifiuta in alcun modo di lasciarsi domare da barriere di qualsiasi tipo, le abbatte invece con forza inaudita e formula un linguaggio che non sa semplicemente di una maturità raggiunta, ma che la pone tra le più argute e ingegnose sperimentatrici sulla piazza. La definisce "antique pop music", e non si è molto lontani dalla realtà dei fatti: nelle dieci canzoni/non-canzoni, l'elettronica e l'impiego dei potentissimi mezzi moderni vengono ridimensionati a favore di un recupero di una dimensione sonora più casereccia e interiore, che fa rivivere timbri e vibrazioni dimenticate. È il riscatto delle piccole cose che si scoprono cariche di significato e dotate di una propria, poetica, personalità. Non stupisca quindi come un soffio di teiera riesca a farsi strada tra gli sparuti tintinnii di "The Bigger Me" e a ricoprire alla perfezione il ruolo di accompagnamento per gli equilibrismi della linea cantata. Stessa cosa dicasi per la successiva "My Devils", riuscitissimo matrimonio tra asciuttezza tribale e tormentata liturgia pagana, tra le migliori composizioni in assoluto dell'anno.

È una girandola senza sosta, un continuo sballottamento da un'idea verso quella successiva, tutte quante tenute insieme solamente da quella patina produttiva che sa di stanza polverosa riaperta dopo anni di totale abbandono. Indubbio quindi che una mancanza di coesione potrebbe disorientare i più frettolosi e indurre a pensare della fatica come di un mischione privo di compattezza. È con più ascolti che si capisce come invece il disco funzioni meglio da collettore di spunti e suggerimenti piuttosto che come corpus unico. Ecco che riescono in tal modo a convivere minacciosi incubi ad occhi aperti, scanditi dallo stentoreo risuonare dell'organo ("The Time And I And What We Make"), sbilenche e convulse danze folkloriche ("You Gonna"), arcane profezie scovate chissà dove ("Erik", unico pezzo interpretato in lingua madre).

Certo, l'assimilazione dei tantissimi dettagli qui contenuti si rivela tutt'altro che semplice e immediata: l'universo costruito dalla Hukkelberg non ammicca in effetti nemmeno un istante all'ascoltatore, talvolta beandosi compiaciuto della propria unicità in lungaggini non proprio necessarie (si pensi ai sette minuti di "Too Good To Be Good", prossima a una folktronica oscura e deviata). Accorta seduttrice e incantatrice di serpenti, la nordica tesse con metodica lentezza la sua tela: quando meno ve lo aspettate, vi troverete rapiti, e stranamente a vostro agio, nelle misteriose stanze della mente di "Featherbrain".

04/09/2012

Tracklist

  1. Featherbrain
  2. Noah
  3. I Sing You
  4. The Bigger Me
  5. My Devils
  6. Too Good To Be Good
  7. SMS
  8. The Time And I And What We Make
  9. You Gonna
  10. Erik

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