Lindstrøm

Smalhans

2012 (Smalltown Supersound)
nu-disco, space-disco

Dire che Hans-Peter Lindstrøm si faccia desiderare tra una pubblicazione e l'altra, immerso com'è in un buon numero di collaborazioni e progetti paralleli che a nome suo esclusivo rischierebbero di saturare il mercato, equivarrebbe a mentire sapendo di mentire. Malgrado ciò, per l'uomo che ha contribuito ad aggiornare la lezione di Giorgio Moroder e Cerrone al gusto e alle esigenze delle generazioni del nuovo millennio, l'annuncio qualche mese fa del suo nuovo lavoro solista, così a ridosso rispetto a “Six Cups Of Rebel” uscito giusto a febbraio, sembrava testimoniare un'autentica voglia di strafare. Pericolo scampato fortunatamente, ché in “Smalhans” di autocompiacimento, di voglia di mettersi comodo con le pantofole e andare giù di pilota automatico, non ve n'è il benché minimo indizio. Riposte nel cassetto le fluttuazioni sperimentali del pur interessante predecessore, il rapidissimo nuovo corso del producer norvegese affronta con una decisione rinnovata le pulsioni più pop e ballabili di quella disco music che ha rimaneggiato con grande consapevolezza in tutte le sue forme, aggiungendo un'altra tessera al suo puzzle in costante mutamento.
Presupposti chiari, conclusione ancora più chiara: scavalcare la vena intellettuale e un po' errabonda che aveva limitato, se non frenato, le avventurose evoluzioni dello scorso album, e puntare ad un'alchimia concisa e diretta, ma non per questo meno avvincente. In un certo senso, i sei brani di “Smalhans” (tutti nominati a partire da pietanze tipiche della terra dei fiordi) mostrano un Lindstrøm che, se non gioca a spiazzare, muove le fila della sua musica con l'elegante accortezza di un marionettista. Il che, per uno sulla piazza da dieci anni buoni, è un complimento non da poco.

La space-disco, nei suoi codici e nel suo lessico, è infatti soltanto il punto di partenza, la leva su cui agire per muovere un sistema intero di coordinate sonore e non. E così, già l'iniziale “Rà-àkõ-st” è un eloquente affresco di quanto ci aspetta in questi trentaquattro minuti scarsi: nucleo melodico lanciatissimo e prorompente, un senso della progressione dai risvolti quasi bolero, impulsi galattici persi nella polvere della tempo e del suono. Il tutto, senza mai perdere di vista la chiarezza, la limpidezza dei groove e dei crescendo, cesellati con semplicità e gusto sopraffino.
Ed è in questa assoluta linearità dei brani, nel loro svilupparsi senza imboccare troppi percorsi paralleli, che il progetto confessa tutta la forza con cui è stato plasmato. Una linearità che nel suo dipanarsi acquista la forza della confidenza, senza per questo impantanarsi nel confortevole rifugio della conformità. Ecco come i Daft Punk di “Harder, Better, Faster, Stronger”, presi dal loro languido sognare in chiave house ( e di inserti house il Nostro ne sparge a profusione per tutto il disco), mostrano in “Vōs-sākō-rv” di poter essere riletti con la necessaria leggerezza in un contesto vivido e pungente, tutt'altro che caricaturale nell'espressione.

Con un modo di fare affine nelle intenzioni, l'epica moroderiana ravviva e infiamma lunghe disquisizioni astrali come “Vā-flę-r” e “Ęg-gęd-ōsis”, brulicanti di quel fermento e di quel nervosismo che servono a spazzare via eventuali sentori di lungaggini in arrivo. Sono però dissertazioni che osservano il cielo da una prospettiva esterna, che ne descrivono i movimenti da un'ottica terrena, quasi come se il producer avesse staccato un pezzo di universo e lo avesse scaraventato in mezzo alla pista da ballo.
Perché l'obiettivo finale, dopotutto, è proprio quello: puntare al dancefloor, a far muovere (e smuovere) le gambe della vasta platea dei club, piuttosto che rinchiudersi, ancora una volta, nella sua piccola navicella spaziale e vagare tra le stelle. E con l'impeccabile intervento in fase di mixing di Todd Terje, il nome nuovo in una scena elettronica norvegese che non smette di coltivare virgulti, l'obiettivo si può dire raggiunto a tutti gli effetti. Un carosello divertito ancor prima che divertente, un torrente di cromie e percezioni in cui finalmente far confluire tutta la propria vocazione per un suono che sappia essere elaborato e coinvolgente al tempo stesso.
Non si può parlare di un capolavoro (il suo personale lo ha già registrato quattro anni orsono), ma è la constatazione di come i sintetizzatori e i loop del “magro Hans” continuino a donare attimi di genuino rapimento. Quasi quasi, viene voglia di assaggiarle, queste vivande locali.

28/11/2012

Tracklist

  1. Rà-àkõ-st
  2. Lāmm-ęl-āār
  3. Ęg-gęd-ōsis
  4. Vōs-sākō-rv
  5. Fāār-i-kāāl
  6. Vā-flę-r

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