Un disco prog-black metal melodico si fa in tre semplici mosse: 1) date a un norvegese buone ragioni per incazzarsi (ma anche ogni tanto per calmarsi); 2) attaccate un doppio pedale a un maglio industriale; 3) appena il trambusto accenni a placarsi, cacciate dentro violini, tastierazze, chitarre classiche e qualsiasi altra cosa possa alzare il livello di tamarraggine e pretenziosità.
La ricetta è semplice, ma ci vuole un buon cuoco per renderla convincente. I Ne Obliviscaris non saranno troppo credibili come vichinghi (vengono da Melbourne) ma sono senz'altro ottimi cuochi. "Portal of I" è il loro primo album e ha buone chance di esser ricordato tra le migliori uscite dell'anno in ambito metal.
Che ha di così notevole? Equilibrio compositivo e talento melodico. Niente di nuovo sotto il sole dunque, se non una tendenza all'iperbarocchismo in ogni componente che ha poco a che spartire coi suoni avant/ambient/post che tanto ci hanno appassionato in tempi recenti.
Prendiamo "And Plague Flowers the Kaleidoscope", a puro titolo d'esempio. La partenza è un misto tra flamenco e capriccio paganiniano. Ghirigori violinistici, batteria saltellante, basso corposo un po' alla Cynic... Ma il metallo arriva solo dopo due minuti e rotti: un muro di chitarroni black e double vocals (clean e scream), in un clima che fa molto Agalloch ma non ha un briciolo del trasporto emotivo della band statunitense.
Già, perché "Portal of I", a dispetto del titolo, è quanto di più inespressivo e anticomunicativo si possa immaginare. Manierismo puro, ma in modo assai diverso dai classici prog-metal anni Novanta. Il quid non è lo sfoggio di tecnica strumentale (che pure non manca, sia chiaro), ma quello di tecnica compositiva: grande attenzione allora agli sviluppi, alle atmosfere, alle alternanze vuoto/pieno - e messa al bando assoluta di ogni assolo, cambio di tempo o giochetto tecnico che non sia strettamente funzionale al dipanarsi dei pezzi.
Lo spettro stilistico è abbastanza definito: molto classicismo, un po' di folk Ulveriano accortamente ripulito e smussato, il giusto di jazz che per darsi un tono funziona sempre. Qua e là emerge - forse - perfino qualche accenno all'emo più deteriore. Il risultato è entusiasmante, ma se vi fa ribrezzo non venite a lamentarvi: siete stati debitamente avvisati.
24/05/2012