I Taras Bulba, trio milanese strumentale già detentore di opere come “Nodo” e “Secret Chimiques”, ritornano sulle scene con “Amur”. La band è, a suo modo, il corrispettivo dei Calla, almeno per quanto riguarda l’alchimia di atmosfere improbabili, l’umore scuro costruito per panneggi non-musicali, l’improvvisazione controllata, lo scarso uso della voce, i campioni stranianti.
Il corpo di “Amur” è però formato da pièce interlocutorie che sembrano dare più interesse a stilemi che a una vera emotività: in “Coup De Grace”, la prima, il passo flamenco si fa largo tra una generale sfrontatezza armonica, ma non ha corpo su cui reggersi; “Ogro” punta ai climi esotici; “My Name Is Igor” non amalgama l’attacco Captain Beefheart, lo svolgimento noise-rock e l’epilogo di death-metal muto.
Spettacolare è il contrasto tra basso scartavetrato, batteria acrobatica e chitarra in trance di “Short Drop”, ma il trio semplicemente ripete la formula dei dischi precedenti, dalla dinamica sfumata forte-piano della title track, a rebus dalle componenti poco centrate di “Psicofonia”, volgendola a ginnastica.
La più lunga è “Ior”, una marca demoniaca in cui l’elettronica finalmente si mischia all’andamento percussivo (mentre nel resto del disco rimane giustapposta casualmente), a due passi dai Fugazi “industriali” di “Red Medicine”, un dub extraterrestre modellato di continuo fino a spegnersi in un’oasi dark-industrial.
Dalla consolidata formula post-hardcore/elettronica (mai così forte l’apporto del sampling), piatto forte di Fabio Magistrali - di nuovo in cabina di regia - i tre puntano sulla spettacolarità e il virtuoso fraseggio, non sulla poesia scarlatta e la minuzia da psicolabili. Solido materiale reso con ridondanza, ma il troppo insistere, le ripetizioni a vuoto sono difficili da perdonare.
08/10/2012