La scelta di un brano di George Harrison (incluso in “All Things Must Pass”) come nome della band non è un caso: Kyle Nicolaides, Tony Cupito e Daniel Curcio non nascondono infatti la loro ammirazione per Beatles e Led Zeppelin, pur restando figli di una generazione che ha conosciuto i segreti del rock attraverso gli intrecci del grunge.
Più vicini ai White Stripes che agli Smashing Pumpkins (nonostante siano stati gruppo spalla nei concerti di Billy Corgan e soci), i Beware Of Darkness amano infatti la complessità lirica di scrittori rock autorevoli come Bob Dylan e David Bowie e non disdegnano il soul di Bill Withers e le tentazioni letterarie di Fiona Apple.
“Orthodox” è un titolo che appare appropriato per un gruppo autore di una musica energica e ricca di gustosi nostalgici riff. Il trio americano ha calcato le scene per anni prima di affrontare la prova discografica; registrato in sole due settimane ai Sound Factory e ai Valley Recorder di Hollywood, l’album ha una consistenza sonora in bilico tra rock-blues e il rock alternativo dei tardi anni 90. Diviso in quattro sezioni, "Ignorance", "Loss", "Depression" ed "Enlightment", l'album offre più di un motivo d’interesse: la varietà e la complessità di alcune tracce stimola e a volte appassiona, mentre le canzoni crescono ad ogni ascolto, nonostante l’eterno déjà-vu di alcune soluzioni frena gli entusiasmi.
Vi è molta carne al fuoco nelle dodici tracce, una buona consistenza lirica che alterna momenti più intensi ad altri di routine, ma tutto questo senza mai annoiare. I Beware Of Darkness mettono a nudo tutte le loro influenze, ma a volte sembrano soggiacere alle loro stesse ambizioni e passioni: sono infatti frutto di pura devozione canzoni come “Life On Earth?”, (una ballata pianistica che spezza il ritmo dell’album omaggiando David Bowie) e il pop-rock alla Stones di “Sweet Girl“ (che mette in evidenza le buone doti del chitarrista).
Va decisamente meglio con “Howl”, un potente blues-rock che suona come una delle più riuscite riletture dei Led Zeppelin. Anche le ballate hanno la loro forza, specialmente “Morning Tea” una notturna e malsana mistura di John Lennon e Marc Bolan, oppure il folk-blues-rock alla Robert Plant di “My Planet Is Dead”.
L’intro di violini di “Ghost Town” con il suo appeal gothic-blues, la schiettezza di “Amen Amen”, il tono epico di “Salvation Is Here” sono sufficienti per archiviare “Orthodox” come un debutto interessante: perfino quando il gruppo indugia nel brit-rock alla Black Rebel Motorcycle Club (si ascolti “Heart Attack” e la meno riuscita “End Of The World”) il risultato resta gradevole e stuzzicante.
Il vero dilemma di questo esordio è una estrema compressione sonora che se da un lato garantisce un’uniformità alla variegata scrittura dei brani ne ostacola la solidità: gli strumenti suonano metallici e poco dinamici rendendo difficile rintracciare nelle dodici tracce quella personalità che vada di pari passo con le ambizioni del gruppo.
Concepito come un album in vinile con quattro tracce e quattro tematiche diverse, l’album suona a volte come una compilation di una generazione che nella furia di assorbire la storia confonde sacro e profano: un risultato interessante ma poco ortodosso.
16/10/2013