Blue Willa

Blue Willa

2013 (Trovarobato)
avant-rock, songwriter

I Baby Blue nascono a fine 2004 per opera di Serena Altavilla (voce) e Mirko Maddaleno (voce e chitarra), pratensi, supportati da una sezione ritmica (Duccio Barberi e Graziano Ridolfo), e si mettono in luce con un paio di Ep d’esordio all’insegna di un blues-rock basato su armonie vocali imprevedibili e un gusto filastrocche e tiritere: l’elettronica e giocosa “Alligator”, le intuizioni dei B52’s portate allo sfascio dell’ira come nel noise-rock instabile di “Herzog” e il garage fragile di “So Much”. “Hot Hand” è invece il primo breve esempio della loro idea di canzone composita, contesa tra scatti foxcore e parentesi ansiogene alla PJ Harvey.
Il loro primo album, “Come!” (2009) punta anzitutto a un ripiegamento pop, ma sempre con deviazioni e allucinazioni, anche nel canto (una Altavilla predominante sul resto). Già “River”, PJ Harvey al canto con i White Stripes, e “Miss”, garage-blues narcotico a due voci alla X, infestato di tempi irregolari, e il cowpunk fratturato di “About It”, alzano il volume. Più avanti s’infiltrano creazioni agrodolci, come il post-post-punk dei Vampire Weekend diretto da Captain Beefheart per “All You’ve Known”, “Mess”, il boogie infernale di “Silently”, o i toni circensi subliminali nel bailamme di “Took Me Long”.

Il secondo “We Dont’ Know” (2010) immette una dose maggiore di avanguardia nei complessi intrecci vocali della babelica “Dawn”, nel valzer di “Don’t Ask Me Why” e ancor peggio nel calderone di voci invertite che chiude e annienta la cantata blues di “Porto Palo”. Ancora un gusto per i tempi ternari fa scaturire la nenia di “I Don’t Know”, poi festicciola lisergica, ma le loro scelte si fanno più radicali in “Oh Marie”, preghiera cantata senza batteria, nell’uso di strumenti originali come il banjo (“Shut Up”, la mollemente Barrett-iana “Stay a While”), e persino in una prova di muscoli hard-rock (“Hearthquake”).
Alla fine di quell’esperienza (segnata anche da un tributo ai Codeine) si tramutano in Blue Willa, sostituendo Burberi con Lorenzo Maffucci al basso, implementando Altavilla anche a seconda chitarra e percussioni, e soprattutto beneficiando della produzione di un’ammiratrice d’eccezione, nientemeno che Carla Bozulich.

Così, nel disco omonimo il neonato progetto semplicemente s’ispessisce, per nulla timoroso di mostrare eccessi e conseguenze radicali nel sound. Lo svolgimento delle “canzoni” è finalmente libero, allucinato ed espressionista. Creazioni come il lied attonito di “Eyes Attention” si evolvono attimo dopo attimo, dapprima come alti sospiri à-la Liz Fraser, sostenuti da risonanze-dissonanze di accordion francese, elettronica, chitarre noir ribattenti, quindi come coro che fonde e intreccia tutto l’insieme.
Di nuovo il coro neutralizza uno scatto nevrastenico alla Lydia Lunch di “Fishes” e fa riavviare la pièce secondo una decostruzione Royal Trux-iana. Senza soluzione di continuità arrivano “Tambourine”, saltarello gotico che, in modo più sottile di “Fishes”, diventa filastrocca diabolica (in ogni caso fatta detonare più volte) e il valzer stregato impiantato in una landa di effetti sonori turbolenti di “Moquette”. “Vent”, altro prodigio, passa da armonie vocali narcotiche, rarefatte e psichedeliche, a un crescendo rapido, dapprima stomp drogato quindi distorsione che schiuma cacofonie a go-go. In “Spider” le due voci persino vagano in una sospensione elettronica, quasi che il “Magical Mystery Tour” dei Beatles fosse diventato colonna sonora per anime dannate, tra rimbombi e miraggi gregoriani e persiani, fino a un’ascensione di massa. Lo scheletrico standard jazz di “Rabbits” diventa presagio sinistro di marcia infernale, quindi apre a una seconda canzone a mo’ di recitativo. E’ la composizione più articolata del disco, al limite della frammentazione.

Più avanti questa complessità si fa un po’ da parte. “Birds” è una sequela anti-ritmica e anti-armonica, mentre le voci continuano indisturbate ad alternare strofa e ritornello, lo stesso dicasi per la mitraglia di batteria e l’armatura di distorsione di “Moan”, e “Cruel Chain”, in cui la somma delle due voci fa risultare un timbro extraterrestre per una tranquilla ninnananna blues. Il campione di quest’area è senz’altro “Good Glue”, cavalcata nevrotica di spasmi hardcore, la cui compattezza (dura neanche due minuti) stride col resto.

E’ anche una prode dimostrazione d’interpretazione velenosa che evita finto dilettantismo e accademismo ostentato quest’albo dall’ardua collocazione. Una porzione di canzoni difficili, mini-suite che sono mosaici scomposti, e un’altra di idee più brevi, meno ambiziose e d’istinto gestuale. Bozulich le esalta entrambe, donandovi il suo maledettismo ego-religioso e - al contempo - modellandole come un imponente blocco unitario. Ingegnere del suono: Davide Cristiani. Mixato a Parigi e sull’Himalaya.

06/01/2013

Tracklist

  1. Eyes Attention
  2. Fishes
  3. Tambourine
  4. Moquette
  5. Vent
  6. Good Glue
  7. Rabbits
  8. Birds
  9. Moan
  10. Cruel Chain
  11. Spider

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