Un viso immerso dentro un caleidoscopio televisivo, dentro una psichedelia tecnologica che ricorda gli esperimenti di Decoder e di un lisergico Leary, mostra un’ombra sintetica, un’identità gravitazionale negativa che assimila ogni elemento in sé.
Il nuovo capitolo del progetto di Trent Reznor, di sua moglie Mariqueen Maandig, Atticus Ross (già con lui in occasione delle colonne sonore “The Social Network” e “The Girl With The Dragon Tattoo”) e Rob Sheridan, è anche il più composito e organico; successore di due Ep (l’ominimo del 2010 e “An Omen” dello scorso anno) unisce in sé le diverse sfaccettature, barlumi di un corpo che si stava profilando nel buio racchiudendole nel primo vero debutto del progetto.
“Welcome Oblivion” è una decadente storia di sensualità corrotta, d’innesti elettronici sottocutanei di un corpo che cerca di esprimersi dentro coltri elettriche-paranoiche in continua frammentazione. Una narrazione divisa in tredici episodi legati in maniera talvolta approssimativa, senza creare un excursus emotivo complesso, e vittime di deja vu ricorrenti: un legame colpevole con il passato primigenio della creatura più famosa di Reznor, quei Nine Inch Nails che tra il 1989 e il ’92 partorirono “Pretty Hate Machine” e “Broken”.
Un filo rosso di rimandi che si rispecchia in ritmiche frammentarie, che riprendono una formula electro, post-industriale e la trasportano dentro loop sterili, cercando di rinnovarsi talvolta attraverso scorciatoie dal gusto Idm o techno, ma rimanendo chiuse in un circolo asettico. È questo il destino di “The Wake Up”, “Welcome Oblivion”, “How Long”, che nonostante alcune aperture eccitanti, muoiono poco dopo, non riuscendo a sostenere la voce di Mariqueen.
Quest’ultima purtroppo non cerca una dimensione personale tra i beat pe(n)santi e oscuri che permeano le pareti dei brani, ma rimane in una strana sospensione stilistica tra lo stile drogato che fu di Reznor e una visione più urbana dei Portishead meno noir.
Una sospensione che crea molto spesso un senso di vuoto, di mancanza di connessione emotiva con l’ascoltatore, che si vede trasportato in un ambiente incompleto, non focalizzato nelle sue dimensioni spaziali.
In questo non-spazio troviamo come unici appigli forti di un messaggio penetrante e coinvolgente il trittico finale “We Fade Away”, “Strings And Attractors”, “The Loop Closes”. Qui, tra beat oscuri ed esplosioni di schegge metalliche, si ha l’impressione di una forma stilistica completa, capace, in cui la voce di Mariqueen sa ondularsi e adattarsi in maniera coinvolgente.
Episodi a sé stanti possono considerarsi invece “Ice Age” (proveniente dall’Ep del 2012), che si muove storta su un bizzarro folk elettronico, e “Hallowed Ground”, piccola escursione conclusiva dentro un dark-ambient pulsante e rarefatto, labile come
una carta velina di cenere industriale.
In questo lungo e disomogeneo viaggio nella notte, Trent non sembra riprendere alcun elemento stilistico dagli ultimi episodi come scrittore di colonne sonore, ribadendo in “Welcome Oblivion” il desiderio di creare un’immagine a sé stante, peccato che questo si traduca in un obiettivo sfocato e di difficile identificazione.
Trent Reznor è un personaggio magnetico, capace di un’eccelsa comunicazione. Dopo aver sospeso e poi riacceso i motori dietro i NIN, paventando nuove collaborazioni e tour, dopo aver co-firmato due colonne sonore di grande inventiva e di successo, questo nuovo episodio attirerà sicuramente un certo numero di riflettori, peccato che ci sarà ben poco da illuminare.
11/03/2013