Chicago ha sempre rappresentato qualcosa di più di una semplice base per Kranky. La formidabile etichetta dell'Illinois, mai sazia nonostante un catalogo forte di punte di diamante dal valore inestimabile e sempre aperta a orizzonti nuovi, ha portato negli ultimi anni sotto la sua ala protettiva alcuni talenti provenienti dalle scene più sotterranee della metropoli. Ken Camden fa parte di questa categoria di prediletti: figura a dire il vero rimasta fino ad oggi un po' nell'oblio, la cui polivalente personalità artistica porta a inquadrarlo sia come “il chitarrista degli Implodes” che come autore di una forma di synth music melodica e cristallina dalle chiari radici kosmische.
A voler ben vedere, questa passione per l'elettronica atmosferica risale a prima ancora della nascita del quartetto dream-gaze che ha rappresentato negli ultimi anni la sua principale occupazione, e data per la precisione a inizio millennio, con Arco Flute Fondation e Meisha, primissimi progetti condivisi con Mike Tamburo, Matt McDowell e Pete Spynda. Da allora, Camden ha affinato la propria tecnica e sviluppato una miscela – già proposta sotto spoglie più aride e chitarristiche nel precedente “Lethargy & Repercussions” - che unisce costruzioni sintetiche dal sapore analogico, flussi incrociati, power electronics e arpeggiatori spiegati, per quanto mai sopra le righe.
Non siamo distanti dallo Steve Hauschildt più quieto, ma anche certe recenti proposte di casa Denovali – Petrels e il Greg Hains elettronizzato – tendono a venire alla mente lungo i sei movimenti di questo “Space Mirror”. Nebulose e sciami dal retrogusto galattico si alternano dipinte dai sintetizzatori, lasciando dietro in “Moon” una scia candida e lontana, pronta a svanire fra bagliori e scure coltri di archi sintetici di “Trapezium”.
Le danze si aprono però all'insegna del dinamismo: quello dei sequencer che omaggiano un po' Suzanne Ciani e un po' Robert Rich in “Spectacle”, e quello dei passi felpati dal tocco cameristico della successiva “Eta Carinae”. In chiusura sono invece poste due suite dal sapore totalmente diverso: la densa “Antares” tocca la vetta del lato etereo di Camden, una tela fitta e nebbiosa di droni memore degli ultimi AUN, mentre l'increspata “Dominic Sunset” porta a compimento quello che potrebbe essere un omaggio a “Oxygène” firmato Erik Wøllo.
Disco maturo di un musicista totalmente a suo agio in un mondo così diverso da quello a cui era solito venire associato con gli Implodes, “Space Mirror” è forse la prima prova solitaria compiuta in toto di Camden. Un'opera dal forte sapore citazionista, che non cerca né trova il contatto con il nuovo - nelle atmosfere e nelle immagini come nei suoni - ma confezionata con cura sopraffina e una genuina passione tangibile anche ad ascolto distratto. In un 2013 in cui l'ambient music di stampo cosmico ha rappresentato il luogo di approdo o partenza – quasi come un fortino protetto al meglio – per tutta una serie di talentuosi musicisti, l'americano riesce nell'intento di apporre anche la sua firma.
22/09/2013