Una delle sorprese più grandi presentate dagli October Gold, duo che proviene dall’unione, sul palco e fuori, di un cantautore e una violoncellista, è che questo loro secondo disco è ispirato alle saghe di Steven Erikson. Per chi non lo conosce, Erikson è il creatore di un mondo alternativo dalle sfaccettatture “evolutive” e dalla profondità storica, nonché dal respiro epico che fanno impallidire non solo un autore di pari eminenza - anche se più telegenico – come Martin, ma anche, beh, lo stesso Tolkien, padre del genere. Un’opera di ampiezza a tratti sovrumana.
Che questo duo di apparentemente prevedibile raffinatezza e carineria (il duetto romantico dagli sprazzi Beirut-iani di “Old Stones”) si ispiri a un tale opere, piuttosto che a più forbite immagini Dickinson-iane, è veramente motivo di stupore, pur in questi tempi di revival fantasy.
Ed è senz’altro un motivo per approfondire la musica degli October Gold, pur in questo contesto idillico (senz’altro privo della drammaticità dei romanzi di Erikson, qui evocata sparutamente con qualche movimento di violoncello, in “All The Colors” e “Gallan’s Hope”) e alquanto aderente agli ultimi canoni chamber-folk-pop, come mostra il nervoso motivo acustico, alla Bowerbirds, dell’iniziale “Song For The Last Prayer” e della più accorata title track.
Il disco si conferma comunque di buona e costante qualità: anche le incursioni, preventivabili, verso il neo-folk più psichedelico (“Where Ravens Perch”), dato l’argomento fantasy, vengono affrontate con una certa freschezza, tutto sommato anche nel crooning elegiaco, in stile quasi Hegarty-iano, di “Dust In Dreams”.
L’impressione generale è, però, che la scrittura sottostante non sempre regga, preoccupandosi di dipingere immagini e richiami, sui quali si sviluppano gli arrangiamenti, piuttosto che proporre brani in grado di autosostentarsi, o discostarsi da una generale medietà.
26/09/2013