Dopo Jake Bugg, continua la saga dei giovani virgulti senza macchia lanciati sui palchi che contano ancora imberbi, ricchi di premi conquistati ancora prima di avere un Lp pubblicato - cosa che poi avviene sotto il cappello di una major, puntualmente. Tocca ora a Tom Odell, enfatico martoriatore del proprio pianoforte, propinatore indefesso di emozioni in sollucchero, imitare le peripezie amorose dei Chris Martin e dei Tom Chaplin, in un disco comunque moderato se non altro nella durata.
Vincitore addirittura del BRITs Critics' Choice a inizio anno, scaraventato da Jools Holland non appena le sue dita predestinate hanno calcato i tasti bianchi e neri in quel di Brighton, Tom Odell narra con piglio Butler-iano ("Hold Me") le sue heartbreak song, utilizzando con sprezzo del pericolo (e del ridicolo) il fragore di percussioni e cori, lanciando per aria la sua voce vagamente strozzata, reminiscente di quella di Finn Andrews dei Veils e abbozzando progressioni Mumford-iane ("Grow Old With Me").
Tutto risuona del classico pop britannico degli ultimi quindici anni: almeno un paio di pezzi suonano molto vicini a "In My Place" dei Coldplay ("I Know", "Sirens"), eppure il tutto riesce con una certa freschezza e orecchiabilità, nonostante il vago senso di ottusità che certamente deriva dalla giovane età del ragazzo.
Sono insomma del tutto ingiustificati gli strali della sedicente critica inglese (un sonoro 0 da Nme): certo, "Long Way Down" non ha niente di cool, è un disco di canzoni acerbe scritte al pianoforte da un ragazzino chiamando in causa tutti i possibili cliché musicali e lirici. Ma, se non altro, si avverte nettamente il tentativo di scrivere un classico, un album di canzoni, senza curarsi delle "scene" e delle mode, cosa che sembra interessare tanti suoi coetanei e superiori.
28/06/2013