Amanda Rogers

È una di quelle storie vissute costantemente e orgogliosamente ai margini, quella di Amanda Rogers, cantautrice e pianista statunitense dalla lunga e mutevole carriera, avviata da giovanissima età. Una di quelle storie che si fa fatica a rintracciare, nella congerie di informazioni che quotidianamente ci sovrasta, ma che non si esita a far propria, come il racconto di un vecchio amico che non si rivedeva da tanto tempo, l'intesa col quale però sa essere ancora forte, quando ravvivata nel modo giusto. Ed è con lo stesso criterio, con un intimismo che ambisce a schiudersi, ad abbracciare una maggiore universalità d'intenti, che la songstress di Syracuse, oramai all'ottavo album in saccoccia, firma il frutto più ambizioso della propria arte, laconicamente intitolato “WILD” (sì, tutto maiuscolo).
Perché, se anche è vero che dalla nostra si può avere un'incredibile conoscenza della musica popolare americana, dal folk passando addirittura al jazz e al Tin Pan Alley, e si ha un orecchio formidabile per la melodia facile e il ritornello accattivante, affrontare comunque un doppio album non è mai impresa agevole, con tutti i rischi che ad una decisione simile possono conseguire. Considerata la fetta piuttosto ridotta di doppi davvero riusciti, che tengano a freno ridondanze e ovvietà in una tracklist solida da cima a fondo, apprestarsi dunque all'ascolto di un lavoro simile con una certa circospezione è più che comprensibile, dacché la fregatura è letteralmente dietro l'angolo. Per nostra fortuna, le cose non vanno a questo modo.

Da talentuosa artigiana della canzone, da compositrice attenta ai processi della comunicazione pop, la Rogers sventa il pericolo dei troppi riempitivi schierando in campo ogni mezzo a sua disposizione e progettando con cura la stessa scaletta. Certo, non mancano nel complesso episodi più in sordina, ma tutto sommato i due dischi si digeriscono bene, strappando anche più di qualche momento di autentico apprezzamento: dosando con abilità ritmi e pause, arrendevolezze da scafata balladeer e colorati motivetti dal sapore retrò, con una serenità interpretativa che solo raramente cede alla stucchevolezza (“And The Birds Will Sing”, “Sad Song”), la cantautrice ripercorre mentalmente decenni di musica a stelle e strisce, in una rilettura che esprime una delicatezza lontana da fatali oleografie, tanto quanto un appassionato riassunto di anni e anni di passioni musicali.
Passioni che sa sfruttare al meglio, quando imbrocca la strada maestra verso la grande canzone: il midtempo jazzy di “Genes I'm Always Wearing”, con quel ritornello steso tutto in minore, diventa quasi l'emblema di una maturità che arriva dritta al punto, se le viene concessa piena libertà d'azione. E così fanno di rimando anche gli altri episodi più avvincenti nella raccolta: il country-pop  di “This American Dream” sa coniugare sottotesto politico e serenità narrativa, senza per questo scadere nell'ovvietà imbarazzante di tante operazioni consimili, mentre lo sbarazzino honky-tonk elettrico di “Welcome To The Show”, in accoppiata al southern-pop di “10¢ Songbird” investiga un rapporto con il passato scevro da facili nostalgie, sofisticato com'è da un arrangiamento corposo che catapulta il brano dritto nella contemporaneità.

Poi sì, qualche scivolone non manca: l'ennesima cover di “Creep” dei Radiohead per esempio, posta a chiusura dell'intero lavoro e priva di tutto l'angst che caratterizza l'originale, poteva essere tranquillamente cassata, e indubbiamente la scaletta con qualche snellimento ne avrebbe giovato, ma anche così, è davvero difficile obiettare sulla riuscita complessiva dell'opera, che anzi mostra una vitalità che esercizi simili a malapena riescono a concepire. Con un curriculum così vasto, Amanda Rogers non ha insomma poi molto più da dimostrare: e noi la lasciamo così, spirito libero e selvaggio, in attesa della prossima mossa.

18/05/2014