Anjou

Anjou

2014 (Kranky)
drone-noise, dark-ambient

“A volte ritornano”, si dice di solito in questi casi, anche se stavolta un “a volte c'è chi si illude ritornino” potrebbe calzare decisamente di più. Stiamo parlando dei Labradford, che di presentazioni non hanno certo bisogno. O meglio, a conti fatti non ne stiamo parlando. Forse già solo accennare al nome Labradford per parlare di Anjou è un errore a priori. Lo è nonostante Anjou siano Mark Nelson e Robert Donne, ovvero due terzi dei Labradford, e il posto di Carter Brown sia occupato da Steven Hess, ovvero la metà nascosta di Pan American.

Donne e Nelson tornano a lavorare insieme dopo tredici anni in cui ciascuno ha portato avanti la propria carriera solista al di fuori di una band mai scioltasi ufficialmente, e in cui il qui assente Brown ha fatto sostanzialmente perdere le sue tracce a livello artistico. Tornano a collaborare forti di due esperienze diametralmente opposte, l'uno proseguendo nel coniare una forma personalissima di ambient music, l'altro accasandosi presso una punta di diamante dell'ambiente slowcore (Spokane) e tendendo la mano a giovani discepoli del suo stesso sound (Gregor Samsa).

Tornano a lavorare insieme in circostanze non dichiarate, lo fanno con uno Steven Hess in più che, chiamato a fare da terzo incomodo nel ritorno dei due titani, finisce apparentemente per mettersi al posto di guida. Già, perché “Anjou” pare volersi (giustamente) tenere lontano dal verbo Labradford in maniera quasi ossessiva, ingabbiato nella necessità di dover dimostrare una nuova, fiorente identità. Fatta di droni, buchi neri, peripezie oscure assortite, distorsioni e rumore. Tanto rumore. Forse troppo.

L'ossessione di cui sopra non basta a tenere i tre a distanza da un passato troppo ingombrante per non ripresentarsi, e paradossalmente questo è un bene. Perché è in passaggi come il tribale malsano di “Readings”, la maestosa “Inclosed” e la ninna nanna di “Adjustement” che va cercato il cuore pulsante del disco, e l'alchimia fra Nelson e Donne torna quella dei tempi migliori. E non è un caso che si tratti dei momenti più vicini al passato storico, per certi versi pure autoreferenziali, eppure più efficaci e riusciti.

Troppo rumore, dicevamo: quello che soffoca un altro possibile auto-omaggio in “Lamptest”, che detta i tempi della paralisi dub di “Sighting”, che da sfoggio di sé in una chiusura abrasiva e teatrale quanto statica come “Fieldwork”, e che avvinghia una “Specimen Question” che potrebbe essere brutta copia di uno scarto del Fennesz di “Venice”. L'eccezione rappresentata da “Backsight”, quasi un outtake del Pan American più organico, funge da spartiacque di un album riuscito a metà. Ma da due fuoriclasse è decisamente lecito aspettarsi di più.

09/10/2014

Tracklist

  1. Lamptest
  2. Sighting
  3. Specimen Question
  4. Readings
  5. Inclosed
  6. Adjustment
  7. Backsight
  8. Firelight