Ormai credo sia ufficiale, e il timore di una smentita è davvero bassissimo: la terra del fuoco e del ghiaccio, quell'Islanda teatro di alcune delle più eccitanti manifestazioni in musica degli ultimi venticinque anni, presenta la più alta densità di musicisti, professionisti e non, al mondo; non si è poi così lontani dalla verità insomma, nel sostenere che ogni islandese tenga in famiglia almeno un interprete delle sette note, un intrepido musicante pronto a dar battaglia. Dopo un 2013 che ha visto l'isolsa di nuovo parziale protagonista nel fitto chiacchiericcio musicale internazionale (grazie anche a stuzzicanti ritorni e qualche discreto esordio), nel 2014 è il turno dei debuttanti, misconosciuti Atónal Blús, di aprire le danze.
Chi sono costoro? Difficile fornire indicazioni molto precise, al di là di qualche nome direttamente pescato dalla loro pagina Bandcamp: a dire il vero, è soltanto la musica l'unico dato certo che riusciamo a ricavare, da parte di questo stramboide act dal profondo Nord. In fondo, la questione ci interessa davvero poco, non saranno di certo dettagli come questo a modificare ogni eventuale considerazione sul lavoro. Perché “Höfuðsynd” arriva e nei suoi tre quarti d'ora scarsi scardina, per tutti coloro che ancora avessero qualche dubbio, ogni valutazione superficiale sulla ricchissima “scena” di quelle terre. Non magici incanti a mezz'aria, nemmeno sconfinati paesaggi elettronici, a venir fuori è un atteggiamento più caustico e irriverente, che macina e rifrulla stimoli diversissimi compattandoli in un ibrido dalle varie e difformi sensazioni. Il gioco ha inizio.
Introdotto da “Atónal Blús”, sferzante blues strumentale in tempo dispari (costante quest'ultima un po' dell'intero album), rumoroso e pieno di colpi di scena come nella migliore tradizione progressive (si arriva a effettuare perfino sopralluoghi nel country-rock più distorto e slabbrato), il disco è un profluvio di trovate brillanti e dinamiche inconsuete, quando non proprio originali, in un clima di continuo flirt e rottura con le convenzioni del formato-canzone, peraltro accentuato dalla scelta proficua di gestirsi tra l'idioma madre e la lingua inglese. Se quindi il pattern dalle cadenze simil-funky di “Sexy Slave” potrebbe apparire come una ruffianata un po' fine a se stessa, l'impressione viene rapidamente smentita dalle impietose sgranature di chitarra e da una coltre rumorista che rende il trasporto tutt'altro che immediato. Idem dicasi per le impressioni balcaniche di “Svartur Köttur Og Pardus Bleik” (aperte dal tripudio in chiave A Hawk And A Hacksaw di “Balkan Boogie”, ma con l'esilità dell'armonica a sostituirsi agli ottoni), in cui il sostrato di bouzouki, proiettato verso le tradizioni più profonde della Grecia, rimbalza sulle asperità interpretative del cantato.
Non è però tanto nel loro suonare “difficili” o “diversi”, concetti fin troppo aleatori e di scarso significato, che si cela il segreto del progetto: è più nel sapersi contenere tra i vari spunti timbrici e compositivi, nell'accorparli evitando ogni prevenibile e fastidioso eccesso, il motivo di un simile centro. Non ci si sorprende quindi, nel poter ritenere il drumming pressante, quasi metallurgico, della title track (l'armonica a disegnare nuovamente rapidi svolazzi melodici) e il canto ferino di “Oxygen Kills”, teso su una rincorsa a perdifiato di tastiera, parte integrante dello stesso contesto, facce diverse di un prisma sonoro in cui ironia, un moderato fascino per l'assurdo e una buona dose di divertimento vanno a costruire una delle esperienze più bislacche, stranianti, infine intriganti di questi ultimi tempi. E scusate se è poco.
16/02/2014