Facciamola breve. Black Rain è Stuart Argabright, il quale è anche co-fondatore (1979) della famosa band no wave minimalista di New York degli Ike Yard.
Dopo il successo avuto con Raime, la britannica Blackest Ever Black riprova a piazzare nuovamente un proprio articolo tra le migliori uscite annuali. Seguito della raccolta uscita nel 2012, “Dark Pool” è dunque il gradito ritorno in studio e sulla scena dopo ben 18 anni. Basterebbe l’intro e la prima traccia per farsi un’idea dell’intero album: oscura electro-wave infarcita da lamentosa ferramenta industriale. Non limitandosi alle due prime tracce, troviamo allumina fotoluminescente e polveri di radioisotopi condensati in una futuristica Ebm (il disco è parzialmente ispirato ad alcuni scritti di Philip K. Dick e J.G. Ballard), acari pneumatici che incidono l’epidermide rilasciando impulsi magnetici cuneiformi (“Data River”), piattaforme codificate technodroniche (“Burst”), elettricità residua e invasivi rituali tran(c)erotici (“Night In New Chiang Saen”), laceranti registrazioni sonore d’ipnosi regressiva (“Protoplasm”) e, infine, religiosa synth-wave dalle sfumature gotiche ed eteree (“Profusion”).
La traccia finale è melmosa e sudicia Ebm industrializzata che annienta e sovrasta gli ultimi latenti squarci minimal-noise dell’artista.
Anche questa volta l’etichetta londinese ha fatto centro, perfino nella scelta della copertina, accattivante per i milioni di seguaci di sonorità electro-industrial anni Novanta. Chiudiamo con due aggettivi: un disco violaceo e maledettamente sporco.
13/09/2014