Chain & The Gang

Minimum Rock'n'Roll

2014 (Fortuna Pop!)
garage-blues, motown

What do I think about rock and roll in its current state?
I try not to listen. I find it in poor taste

Per chiunque coltivi passioni scadute da tempo o si aggrappi con ostinazione alla musica suonata senza calcoli, ogni nuovo album di Ian Svenonius non può che rappresentare un motivo per rallegrarsi. Basta una pungente sbertucciata (alla critica musicale, anche) come la vecchia “Interview With The Chain Gang”, a ricordarci cosa renda tanto adorabile questo semidio del circo alternativo di qualche annetto fa, oggi riciclatosi più che dignitosamente nei panni del sopravvissuto.

Un po’ di storia: Nation of Ulysses e Make-Up sono state realmente, fuor di retorica, band straordinarie. Gruppi che hanno colto in maniera genuina lo spirito dei tempi e lo hanno tradotto in una proposta sferzante, intelligente, irriverente, sull’onda lunga di chi (Fugazi, Drive Like Jehu) già stava facendo del post-hardcore un linguaggio musicale corrosivo quanto credibile. Il grosso problema per l’incredibile Ian, che di quelle formazioni era il cuore pulsante, è di non aver potuto continuare su standard a tal punto sanguinanti, forse per l’incapacità di correre al passo di una scena musicale a dir poco impazzita. Da qui la scelta di ripiegare con Weird War, Scene Creamers e Chain & The Gang, sulla formula di un revival gagliardo quanto attuale, reinventandosi sotto le spoglie di un acceso predicatore in fissa per il modernariato musicale dei neri: dal punk politicizzato dei Nation of Ulysses e dal garage evoluto dei Make-Up, una bella sterzata verso il blues licenzioso, il boogie, il rock’n’roll à-la Chuck Berry e quella furbissima etichetta, gospel yeh-yeh, che è diventata presto sinonimo della sua cifra eclettica e assai vitale, frullatore di generi e credo scanzonato di una piccola leggenda vivente. Lo Svenonius di Chain & The Gang è questo: una sorta di santone ciarliero e squilibrato, il profeta entusiasta di una religione dimenticata dai più, ma dalla lingua non meno caustica rispetto a una volta.

Certo rispetto ai tempi ruggenti di “13-Point Program To Destroy America” o “In Mass Mind”, il radicalismo a tutto campo è stato egregiamente rimpiazzato dall’ironia e dalla passione smodata per il passato. Ne è la più recente dimostrazione il nuovo “Minimum Rock’n’Roll”, quarto album a uscire con l’ultima delle intestazioni sopracitate, che si presenta nel solco dell’inconfondibile, sudicio garage-blues della casa, riavvicinando almeno in parte i Make-Up in quello che è solo il primo di una serie di indiavolati duetti. Nemmeno un attimo per ambientarsi e si rientra però subito nel clima morbido e ammiccante delle prime produzioni, con un numero di soul stazzonato reso intrigante dalla prova civettuola della vocalist di turno, Katie Alice Greer: sporcizia e grazia non esitano a dividersi la scena nell’ennesimo bel contrasto – nemmeno a dirlo – riuscitissimo.

Da qui in avanti si alternano sulla ribalta le più disparate incarnazioni svenoniusiane. Con il suo revivalismo scalcinato e arrembante, “Mum's The Word” ripropone lo Ian né troppo feroce né troppo benevolo già alla guida delle sue creature meno fortunate, lo scorso decennio; il ruvido ma languido seduttore dei passaggi “romantici” del repertorio ricompare da maestro di mimetismo in “I'm a Choice (Not a Child)”, mentre proprio nelle battute conclusive è quello tarantolato e da camicia di forza a recitare da protagonista, in una corsa a perdifiato tanto scomposta quanto irresistibile; per non tacere dell’infervorato divulgatore che torna a imperversare con le sue sgraziatissime urla muliebri in “Got To Have It Every Day”, tra salace polemismo, placida improvvisazione e lapidaria follia.

Una ricerca sul sound che rasenta il filologico, la sua verità sostanziale, resta il fiore all’occhiello di un progetto da sempre inteso alla stregua di un gigionesco divertissement. Per questo si enfatizzano la verve rutilante, il ricorso a motivetti oltremodo banali (ma accattivanti) e quella felice propensione al vintage che non è mai pura facciata, scegliendo piuttosto di tanfare di weirdness a un miglio di distanza. Non si spiegano altrimenti la rilassata celebrazione minimalista di questo mitologico universo musicale agli albori di tutto (la title track), la consueta buona dose di pattume r’n’b (“Stuck In A Box”), gli echi da vizioso girl-group (“Curtain Pull”), il bel numero tarantiniano – disperato e crepuscolare quanto basta – in odore di dropout da B-movie (“What R U In Here For?”) o gli audaci turgori strumentali che fanno tanto poliziesco anni settanta (“Fairy Dust”). Già, la polizia. Nel ricordarci che “il crimine non paga”, il suono inesorabile delle sue sirene esaspera l’etichetta crime-rock coniata ad arte dalla vecchia pellaccia di Chicago, ed è allora inevitabile tornare con la mente ai jailbird sulle copertine dei primi due album di Chain e della sua ghenga.

Niente più finti spiritual rispetto ad allora, solo un predicozzo ritmato in salsa motown, di tanto in tanto, l’ovvio subisso di rumenta passatista e quella rinnovata tendenza al frammento che toglie forse forza all’insieme, specie in una seconda facciata più debole. A questo giro c’è però meno approssimazione e il disco si lascia apprezzare anche nella sua licenziosa indolenza: è la fedele testimonianza dell’incorreggibile genio che l’ha partorito, una scheggia impazzita innamorata quasi con accanimento della propria retorica fuori moda e del proprio commovente manierismo. 

22/04/2014

Tracklist

  1. Devitalize
  2. Never Been Properly Loved
  3. I'm a Choice (Not a Child)
  4. Stuck in a Box
  5. Got to Have it Every Day
  6. Fairy Dust
  7. Mum's The Word
  8. Crime Don't Pay
  9. What R U In Here For?
  10. Minimum Rock n Roll
  11. Curtain Pull
  12. Everything Worth Getting Is Gone

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